“Patria” e “classe”
"L'Italia viene perciò a trovarsi da un lato di fronte all'appello dei contadini ("la terra ai contadini") e alle rivendicazioni operaie foriere di sviluppi che vanno ben oltre gli aumenti salariali; dall'altro lato di fronte alla insoddisfazione, alle angosce e alle incertezze della borghesia, specialmente della piccola borghesia.
Occorre anche notare che questi gruppi di combattenti (soprattutto studenti, universitari, divenuti ufficiali durante la guerra) che sentono vivamente l'ideale della patria e che già soffrono delle contese intorno ai problemi adriatici, si troveranno spesso in opposizione alle masse operaie delle città, le quali adottano un risoluto atteggiamento di biasimo non soltanto verso la guerra stessa e i capi che l'hanno preparata e diretta, ma anche verso coloro che l'hanno combattuta.
Tale atteggiamento della classe operaia fu, in ogni caso, un grande errore. Uno degli aspetti della tragedia del socialismo italiano prima del 1922 fu appunto l'aver consentito che fra "patria" e "classe" si creasse un'opposizione. Anche a tale riguardo il socialismo italiano ha subito un'evoluzione molto più lenta rispetto a quello francese, il quale fu più precoce nell'accettare una responsabilità di governo, riuscendo altresì a superare con maggior facilità la frattura operatasi nella seconda metà del XIX secolo fra la "patria" delle classi borghesi e l'"Internazionale" delle classi operaie. Lo stesso non avvenne per il socialismo italiano. Certo, uomini come Turati, Treves, Modigliani, Prampolini – cioè le personalità più eminenti del partito socialista – amavano il loro paese; e l'amavano di tutto cuore, altrettanto e forse più profondamente di certi truculenti nazionalisti che levavano alte grida; ma l'azione politica del partito socialista – ed è ciò che conta – restava ancorata a posizioni dottrinali che la paralizzavano; sarebbe stato necessario conquistare al socialismo i sentimenti e gli interessi della piccola borghesia (per la quale la patria è sacra), se si intendeva farne la forza capace di dominare politicamente la crisi del dopoguerra e di sostituirsi alle vecchie classi dirigenti dello Stato" [da Feredico Chabod, L'Italia contemporanea (1918-1948), Torino, 1961, p. 38 s.]
Le vogliamo abbandonare una buona volta quelle posizioni dottrinali che allora paralizzavano e pertanto concorrevano, con molte altre cause, come ha mirabilmente spiegato Chabod, a generare una tragedia? Oggi quelle posizioni generano al più una farsa per pochi adepti, quindi sono meno pericolose. Tuttavia rischiano di attrarre ancora giovani potenzialmente validi e di sviarli verso il fanatismo del nulla e la incoerenza, perché – come tutte le esperienze storiche, socialistiche o socialdemocratiche, confermano – non può esserci alcuna tutela di "classe" se non ricostruendo la "patria".
La globalizzazione, e ancor più quella versione fanatica della globalizzazione che ha per nome Unione europea, è del capitale. La patria può essere della classe, ossia del lavoro autonomo e subordinato.
La questione è sicuramente interessante, e potrebbe essere approfondita indagando il rapporto tra i comunisti e gli Arditi del Popolo.
Quello che non capisco, però, è in che modo secondo Chabod i socialisti avrebbero dovuto aprire alla piccola borghesia e alle pulsioni nazionaliste, tenendo presente che attaccamento alla patria in quel periodo voleva dire principalmente irredentismo e volontà di guerra contro altri paesi. Poteva un socialista spingere sull'idea di patria in un periodo del genere?
Un'altra questione importante è se la colpa è da ascrivere alla dottrina socialista o piuttosto alla reazione della piccola borghesia alle proteste operaie e contadine: non fu forse la borghesia a scegliere di non stare coi socialisti, perché aveva a tal punto in odio gli scioperi operai e contadini da finire per l'appoggiare lo squadrismo fascista, cioè botte e manganellate a chi si ribellava contro il sistema?
I giovani Gramsci e Togliatti mi risulta che furono interventisti.
In verità bisogna distinguere la volontà di fare guerra contro altri paesi dall'irredentismo.
Le terre irredente erano ambite da moltissimi. Alcuni credevano che si sarebbero ottenute non intervenendo, altri intervenendo da una parte altri ancora intervenendo dall'altra. Come è noto, le ultime due strade furono tentate entrambe. Non vedo per quale ragione territori di confine, dove c'erano cittadini che si sentivano taliani e che volevano stare in italia, assieme a cittadini che non si sentivano italiani e che non volevano stare in Italia non dovessero interessare a un socialista. Dove stava l'incompatibilità? Perché un socialista doveva desiderare che restassero all'austria? Perché la questione doveva essere considerata irrilevante, salvo che si considerasse prioritaria la rivoluzione? ma prioritaria non vuol dire che ciò che era secondario fosse sbagliato.
La volontà di fare guerra ad altri paesi è un'altra cosa. Ma in che senso l'Italia ebbe tale volontà?
Non sono uno storico. Chabod ricorda che nel 1919 ci fu l'assalto ai negozi e nel 1920 l'occupazione delle fabbriche. Ma l'occuoazione non produsse risultati e gli operai le abbandonarono senza morti e martiri. Gli spiriti acuti, secondo l'autore, già allora capirono che il timore-rischio della rivoluzione era cessato (Giolitti aveva in precedenza dichiarato: "Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l'apporto del capitale, senza tecnici, senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciòli guarirà da pericolose illusioni"; "Andate a passeggio, gridate per le strade; le poste e i telgrafi, la stazione, la prefettura, la Banca d'Italia, le tengo io"; "Se impiego la polizia e la truppa a occupare le officine, chi mi sorveglierà, diceva, i centri realmente decisivi per la vita del paese?"). Nel 1921 il ministro di Giolitti, Soleri, si sentirà la forza di abolire il prezzo politico del pane: il governo pagava la differenza tra il prezzo di costo e il rezzo di vendita al pubblico. Segno che non avevano paura. Ma questo fatto, scrivee Chabod, allora lopercepirono gli acuti e oggi lo percepisce lo storico ma "è altrettanto certo che esso non poteva essere percepito dalle masse, le quali non sono composte né di storici… né di personalità di grande perspicacia. Fu così che, nel momento stesso in cui ilpericolo reale andava dileguandosi, la paura e il timore della rivoluzione divennero, in una larga parte della borghesia italiana, sempre maggiori…"
Ma il problema storico sollevato mi sembra questo: non c'era alcuna volontà di alleanza con la piccola borghesia; mancava l'idea che esistessero conflitti di classe e non un conflitto di classe; mancava l'idea che per l'alleato piccolo borghese la patria è sacra e che la rivoluzione andasse realizzata all'interno della patria. Questo sarebbe stato l'errore o, credo sia preferibile scrivere, il limite del socialismo italiano, che d'altra parte non tentò di fare una vera rivoluzione, ossia di occupare prefetture, stazioni, Banca d'Italia, ecc. ecc. Se assalti i negozi ti metti anche contro la piccola borghesia.
D'accordo sull'irredentismo (basta capire che mentre poteva avere senso allora, non ne avrebbe adesso).
Per quanto riguarda il '19, la gente assaltava i negozi perché i prezzi dei beni di prima necessità lievitavano, era del tutto giustificabile. Sicuramente nei dirigenti socialisti nessuno aveva messo in conto un'alleanza con la piccola borghesia, ma dall'altro lato quest'ultima si è subito affidata alla reazione fascista. Non si può dare la colpa solo ai socialisti, ecco.
Ma infatti Gian marco non fu colpa o errore, come credo impreciamente scrisse Chabod. Al più fu un limite che condusse addirittura ad accusare i giovcani ufficiali e sottoufficiali che avevano combattuto. Insomma era chi pretendeva di fare la rivoluzione che doveva pensare a fare le alleanze giuste. Oppure doveva procedere da solo ma con coraggio. La guerra civile russa indicava ciò che sarebbe accaduto. La rivoluzione la fai anche soltanto con 30 morti ma devi preparati alla violenza di chi reagisce. Insomma la rivoluzione si poteva fare soltanto "volendo", ossia mettendo in conto, qualche centinaio di migliaia di morti e anni di guerra civile. La borghesia, piccola o grande, invece, poteva procedere con una "rivoluzione" del tutto diversa, che non avrebbe tolto il potere a chi ce lo aveva ma lo avrebbe all'inizio condiviso: una rivoluzione dentro il potere costituito e non contro. E la fece, incontrando una resistenza molto relativa.