Perché la BCE affama l’Europa? Considerazioni sul rapporto tra tensioni geopolitiche e conduzione della politica monetaria
di Salvatore D’Acunto
Qualche settimana fa, dopo aver annunciato un taglio del tasso ufficiale di sconto dello 0.25%, la presidente della BCE Madame Lagarde si è affrettata a raffreddare i facili entusiasmi, chiarendo che «la battaglia contro l’inflazione non è ancora vinta», e lasciando quindi intendere che l’estate trascorrerà senza ulteriori alleggerimenti del costo del rifinanziamento del sistema bancario.
Si tratta di un atteggiamento apparentemente autolesionista, e quindi non facile da spiegare. Dopo la fiammata dei prezzi legata all’interruzione delle forniture energetiche dalla Russia nelle prime fasi del conflitto russo-ucraino, la successiva riconversione delle fonti di energia da parte dei Paesi membri dell’Eurozona ha infatti rapidamente riportato il tasso d’inflazione su livelli tutto sommato tranquillizzanti. I dati Eurostat relativi all’andamento dei prezzi al consumo nel mese di Maggio hanno fatto registrare un aumento su base annua del 2.6%, valore ormai molto vicino a quel 2% che rappresenta l’obiettivo di inflazione della BCE. Insieme ai buoni risultati sul fronte dell’inflazione, purtroppo gli ultimi mesi hanno tuttavia portato cattive notizie relativamente all’andamento dell’economia reale. Nei Paesi guida dell’Unione europea il Pil è sostanzialmente fermo: nel 2024 la Germania crescerà a un ritmo dello 0.3%, la Francia dello 0.9%, l’Italia dello 0.7%. Privati del traino delle economie dimensionalmente più importanti, i Paesi più piccoli dell’Unione annaspano a loro volta, tant’è che la stima del tasso di crescita continentale per il 2024 si attesta su un modesto 0.8%.Sembrerebbe quindi che ci siano tutte le ragioni per una politica monetaria un tantino più coraggiosa, e inoltre che un indirizzo maggiormente espansivo non comporti controindicazioni di significativa rilevanza. E allora perché tanta timidezza, Madame Lagarde?
In questo momento storico è difficile interpretare il comportamento delle autorità di politica monetaria se non lo si contestualizza all’interno della trama delle tensioni geopolitiche in corso. Come è noto, i Paesi aderenti al blocco NATO sono pesantemente impegnati da due anni nel sostegno dello sforzo bellico dell’Ucraina con un articolato mix di forniture belliche, supervisione strategica e sanzioni economiche nei confronti del Paese aggressore. Tra le molte misure adottate nel tentativo di indebolirne il potenziale bellico, la disconnessione dell’economia russa dal sistema di pagamento SWIFT ha colpito fortemente l’attenzione degli studiosi di questioni monetarie, che hanno sin da subito paventato il rischio di potenziali effetti destabilizzanti sul sistema dei pagamenti internazionali.
A monte di tali preoccupazioni c’era un ragionamento molto semplice. I commerci internazionali vengono regolati in dollari, una moneta priva di ancoraggio ad un bene reale ormai da più di cinquanta anni. Una moneta priva di ancoraggio reale è, in sostanza, una mera promessa di “comando” su merci future, e ovviamente le promesse hanno valore soltanto se vengono considerate credibili da coloro a cui vengono offerte in pagamento di merci. E disconnettere dal circuito dei pagamenti internazionali un Paese con significativi saldi attivi in dollari significa, in sostanza, affermare che quelle promesse valgono soltanto fino a che chi le ha fatte ha voglia di rispettarle. Quindi niente di più normale che lo spregiudicato utilizzo della moneta come “arma” al servizio degli interessi geopolitici del Paese emittente finisse per stimolare – tra le più importanti potenze regionali – preoccupate riflessioni sui rischi del dipendere troppo dal biglietto verde. E quindi non è certo un caso che, a partire dall’Aprile 2022, la Banca centrale della Repubblica Popolare Cinese abbia iniziato un lento ma inesorabile processo di “diversificazione” del proprio portafoglio riserve.
Ovviamente, la constatazione del carattere un po’ volubile del Paese emittente la principale valuta di riserva internazionale non implica che tutti reagiscano allo shock del congelamento delle riserve russe allo stesso modo. La Cina dispone di strumenti di regolamentazione che le consentono un controllo penetrante del mercato dei cambi, e quindi è in grado di assoggettare la composizione del proprio portafoglio riserve ad obiettivi di carattere geopolitico. Altrove gli operatori economici rispondono invece soltanto agli stimoli di mercato, e quindi niente impedisce loro di continuare ad accettare i verdoni come contropartita nelle transazioni commerciali, a condizione che l’aumento del rischio di sentirsi dire un giorno «con questi non ci puoi comprare più niente perché così ci gira» venga compensato da un aumento dei relativi tassi di rendimento. In altre parole, la Federal Reserve Bank non perde il suo potere sulla dimensione della massa monetaria disponibile per gli scambi nell’economia globale solo perché il governo degli Stati Uniti mostra una certa disinvoltura nel rinnegare le sue promesse. Però l’esercizio di quel potere diventa più costoso: la banca centrale americana deve cioè pagare più caro il “rientro” dei dollari emessi, ed è quindi costretta ad intensificare la competizione con le aree valutarie concorrenti.
Questa premessa dovrebbe forse rendere più chiaro il contesto dentro cui Madame Lagarde compie il “rito” dell’estrazione dei numeri magici dal bussolotto e le reali ragioni che ne guidano la mano. Il suo sguardo non è rivolto né all’inflazione, né al tasso di crescita del Pil dell’Eurozona: il suo problema più grande è come resistere alla competizione degli Stati Uniti per “catturare” dalla massa di liquidità in giro per il mondo una quantità sufficiente ad alimentare il funzionamento dell’economia del continente.
Anche perché, gli alti tassi d’interesse negli U.S. non sono l’unico motivo che spinge i grandi detentori di fondi a dislocarli lontano dall’Europa. Ai nostri confini orientali si sta giocando una delicata partita militare, che rischia ogni giorno di “tracimare” e di investire i Paesi confinanti con l’Ucraina. In questo momento, essere proprietari di quote del capitale (o di titoli di debito) di imprese localizzate in Polonia, Ungheria, Slovacchia, Romania e Moldavia è un affare pericoloso: basta un lancio di un missile riuscito male e quei soldi finiscono in fumo in un amen. Pertanto, per convincere i proprietari di fondi a non abbandonare l’Europa è necessario compensare l’elevato rischio che corrono facendo appello al loro desiderio di guadagno. Il 4,25% in vigore dal 12 Giugno è quindi, allo stato, la politica monetaria più espansiva che ci possiamo permettere: ogni decimo di punto in meno ci allontanerebbe troppo dai tassi della Federal Reserve, rischiando di innescare un’emorragia di liquidità.
Insomma, la politica monetaria di Madame Lagarde sembra stretta in una soffocante tenaglia: da un lato la debolezza del dollaro innescata dalle sanzioni economiche alla Russia, dall’altro i rischi dell’investire capitali in Europa legati al conflitto in corso ai nostri confini orientali. Non sembrano, allo stato attuale, esservi vie di uscita praticabili, e se vi sono non hanno a che fare con il piano della mera “tecnica” di governo dell’economia. I tassi d’interesse sono destinati a rimanere alti ancora a lungo, scoraggiando ulteriormente il dinamismo imprenditoriale e probabilmente incidendo pesantemente sui livelli occupazionali e/o sul livello dei salari reali. L’Europa rischia quindi di continuare a pagare cara la propria incapacità di giocare, nella partita russo-ucraina, un ruolo coerente con i propri interessi economici e autonomo rispetto al suo potente alleato d’oltreoceano.
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