Scampia, un bilancio
di GLI ASINI (Emma Ferulano)
Ripubblichiamo leggibile per tutti un articolo uscito su gli Asini nel 2020.
Gli alberi di canfora che costeggiano la villa comunale di Scampia sono solo una delle molteplici varietà botaniche che costellano e convivono nel vasto territorio dell’area nord di Napoli. Il leccio, il platano, il bagolare, l’albero del rosario, il tiglio, la sofora, il ligustro, il pino, il cedro, il prunus nigra, la paulonia, la farnia, il pioppo bianco, il ginko biloba sia maschio che femmina – una rarità –, l’albero di Giuda, il corbezzolo, il melograno, alcuni tipi di palme e di aceri, e molti altri ancora, fra quelli preesistenti e quelli piantati nel corso degli anni dall’attività di abitanti e associazioni, costituiscono un prezioso patrimonio verde tanto importante quanto sconosciuto, uno tra i più felici dei tanti primati del quartiere.
Per quasi tutti Scampia è il quartiere delle vele o il quartiere di Gomorra, e le due cose sono automaticamente associate nell’immaginario comune, sebbene “il supermercato della droga più esteso d’Europa” – una espressione molto amata e abusata negli ultimi quindici anni – coinvolgesse anche tutti gli altri rioni popolari. I sette edifici progettati con la legge 167 tra il 1962 e il 1975 sono stati fino a oggi un catalizzatore di attenzione e titoloni, a partire dalla loro costruzione in una zona molto isolata, in campagna, all’epoca in cui per soddisfare il bisogno di case venivano pianificate le periferie napoletane e il Comune acquisiva nuove aree per l’edilizia popolare.
A partire dall’occupazione nel post-terremoto, la storia delle vele è entrata a buon diritto in una narrazione che ha valorizzato soprattutto i suoi lati più oscuri. D’altra parte anche i testimoni privilegiati del quartiere – quelli che da decenni si occupano di trasformarlo attraverso pratiche virtuose e che si preoccupano attivamente di divulgare una contro-narrazione soprattutto positiva – utilizzano la parola “guerra” per raccontare il processo di urbanizzazione e insediamento di una fascia di popolazione povera, ghettizzata e isolata, una guerra di tutti contro tutti, contro le istituzioni, contro i nuovi arrivati, guerra persino tra le bande di ragazzini delle quattordici scale per ciascuna vela.
La demolizione della vela verde, una delle quattro rimaste, è iniziata il 20 febbraio a ridosso del carnevale sociale di Scampia ed è tuttora in corso. È stato l’ultimo grande evento seguito dai media nazionali e internazionali, che si sono precipitati ad assistere anche solo per un giorno. Arriva al culmine di un lunghissimo, duro, disperato, processo che ha come protagonisti prima di tutto gli abitanti, che con una decennale lotta con le istituzioni hanno ottenuto l’abbattimento di tutte le vele tranne una, il trasferimento degli abitanti, la conversione delle aree: tutto all’interno di un piano di rigenerazione urbana chiamato “Re-start Scampia” e presentato come un progetto di “progettazione partecipata” con gli abitanti, il comune di Napoli, le facoltà di Architettura e Ingegneria della Federico II, che ha destinato un cospicuo finanziamento per trasformare Scampia “da margine urbano a nuovo centro dell’area metropolitana”.
Di fatto l’imponente processo di riqualificazione è iniziato da tempo. Una parte, attivata dalla Regione con Eav (Ente autonomo Volturno per i trasporti) riguarda la linea 1 della metro che termina a Piscinola/Scampia, re-inaugurata un anno fa con il rifacimento del piazzale che esibisce i due imponenti murales di Jorit sulle palazzine nuove – Angela Davis e Pier Paolo Pasolini –, e l’ingresso centrale, trasformato in una galleria che si è impreziosita di opere d’arte e installazioni visive e sonore affidate agli artisti di prestigiose fondazioni come il Plart. La metro d’arte, con la A maiuscola, arriva trionfalmente anche a Scampia e accoglie tutti i giorni passeggeri e i sempre più numerosi visitatori. Nella parte superiore, verso i treni, già da anni sono esposti pezzi delle opere muraliste di Felice Pignataro, artista del popolo si sarebbe detto in un’altra epoca e in altri mondi, che dalle strade grigie della lontana periferia degli anni Ottanta aveva iniziato la rivolta culturale.
Sono apparentemente lontani i tempi in cui gli abitanti del Vomero, sostenuti dai principali quotidiani locali, si lamentavano del fatto che la metropolitana superasse la zona collinare per addentrarsi in un territorio di confine, popolato da barbari che avrebbero potuto invadere la tranquillità delle vie dello shopping pedonale.
Oggi Scampia è un punto di snodo nevralgico tra la città, la sua area metropolitana e la provincia nord perché da lì parte la Linea Arcobaleno, la MetroCampania NordEst che collega Napoli ad Aversa, passando per Giugliano. Migliaia di persone possono muoversi riponendo maggiore fiducia nel trasporto pubblico e senza spaventarsi se devono fare il cambio, appunto, a Scampia. Poco importa se poi la scala mobile è quasi sempre ferma, la gestione della metro è talmente precaria che è quasi impossibile prendere un appuntamento e rispettarlo, i treni passano ogni 15 minuti, ci sono episodi di gravi incidenti sui binari, si susseguono chiusure immotivate e mai annunciate, l’aria condizionata viene spenta da settembre perché è iniziato l’autunno. Poco importa se il trasporto interno a un quartiere con 60mila abitanti è praticamente inesistente, manca una circolare interna e quindi nella piccola rotonda si crea un traffico di auto private che scaricano e caricano al volo i passeggeri. La “polifonica” stazione di Scampia è comunque finita sulle maggiori riviste di arte contemporanea e questo ci riempie di orgoglio.
Il vento della riqualificazione soffia anche in direzione del pachidermico cantiere della futura università, legata alla facoltà di Medicina, un cilindrone ancora vuoto che abbiamo visto lentamente comporsi e con molte promesse di inaugurazione sempre rimandate.
Il tempo della macchina burocratica e degli interventi istituzionali, si sa, non è il tempo della vita umana. Per demolire le prime tre vele ci sono voluti 6 anni. Per iniziare a demolire la quarta, 23.
Nel frattempo, molta vita e sofferenza è passata sotto i ponti e oggi, tra lo sguardo trionfante di chi ritiene di essere autore e fautore della rinascita, chi festeggia per aver vinto la lunga battaglia, e chi racconta il tutto con occhio sensazionalistico – magari supportato dalle riprese spettacolari di un drone – si avverte una certa preoccupazione per il futuro, più che per il presente.
Prima di tutto, la tempistica delle demolizioni. Si abita ancora nelle restanti vele, nelle stesse condizioni di sempre che continuano ad attirare l’attenzione morbosa di chi a Scampia cerca il brivido del degrado e un lugubre scorcio per una foto ricordo. Che fine faranno quegli abitanti? Come funzioneranno le assegnazioni? A chi sì e a chi no? Come garantire e monitorare che la gestione dei cantieri sia “trasparente”? Cosa accadrà negli spazi vuoti? Stanno arrivando fondi, gli amministratori e i principali enti pubblici locali sono presenti più che mai, ci sono aziende interessate a fare investimenti nelle aree presto disponibili, ci saranno più negozi, più aree commerciali, e quindi meno lavoro nero, meno sfruttamento, meno criminalità e più dignità?
Dopo la forte repressione da parte delle forze dell’ordine, gli arresti e lo smantellamento delle principali piazze di spaccio, c’è stata una ramificazione e differenziazione del commercio che non è mai stato del tutto interrotto, cambiando forma e modalità. La questione del lavoro e della formazione, tra le questioni forse più urgenti che si inseriscono naturalmente in una problematica ben più ampia che abbraccia l’intero Sud Italia, non è mai stata seriamente affrontata, le istituzioni preposte non sono riuscite a introdurre valide e solide alternative alle economie illecite, lasciando le famiglie nella depressione, nel panico, alla ricerca di soluzioni all’estero o di riorganizzazioni interne. Emigrazione e sfruttamento sono praticamente le due uniche prospettive per i giovani più esposti e con meno sostegno alle spalle che non vogliono rischiare la galera o la vita. Senza interventi strutturali e misure adeguate – che pure ci sarebbero, un esempio per tutti il fondo europeo e ministeriale Garanzia Giovani, un piccolo ma significativo spiraglio che la Regione Campania tiene in ostaggio con una gestione inadeguata per motivi del tutto oscuri – se questo vuoto perdura è legittimo pronosticare un ritorno al passato e una espansione delle economie illecite.
Nonostante la grande quantità di scuole, attività, attivismi, discorsi, percorsi, processi di comunità, cura e valorizzazione dello spazio pubblico, nonostante Scampia sia davvero un’avanguardia, simbolo e centro propulsore di una pratica politica, pedagogica, culturale che da tutto il mondo vengono a osservare e studiare, non sembrano ancora esserci alternative valide, forti e radicate, da opporre a un modello di sviluppo che promette, sostanzialmente, maggiore possibilità di consumi e la produzione di beni da vendere con il marchio Scampia. Si riuscirà a non cadere in una logica di mercato di sola sopraffazione, competizione e alla fine sfruttamento in un senso o in un altro?
Quei pezzi di comunità che da tempo ragionano insieme e intervengono sullo spazio pubblico provando a uscire da un immaginario conformista e maggioritario rischiano di non avere molta voce in capitolo in questa fase storica in cui i “grandi” sono ritornati a occuparsi del territorio.
È anche una questione di punti di vista. Per alcuni di noi, le vele, i campi rom, il lotto p, il lotto g, le torri, l’Oasi, il Bakù, il Monterosa, le Cappe, sono stati i luoghi delle relazioni, dei murales partecipati, dell’accoglienza, del passaggio memorabile dei 38 carnevali del Gridas, dell’arte al servizio delle persone, come strumento rivoluzionario, della possibilità di incontrarsi e di far nascere un nuovo linguaggio comune. Sono stati i luoghi di apprendimento permanente prima di tutto per noi e poi di noi in relazione ai bambini, i giovani, le famiglie, lo spazio e il tempo della politica e della passione. Il carnevale del Gridas per primo ci ha uniti con la sua potenza simbolica e di sovvertimento concreto – unico giorno dell’anno in cui una delle piazze di spaccio più importanti, al passaggio del corteo, fermava le sue attività – che non dura solo per un giorno o un mese di laboratori, ma resta ben impresso nell’immaginario e nel cuore, ha messo in moto riflessioni che si sono diramate in una infinità di pratiche e ha valicato frontiere e lingue.
La fatica consiste, tuttora e ancora, nel creare possibilità di incontro, relazione, dialogo, gioco in un posto in cui il peso della presenza/assenza dello Stato, il facile attecchimento della camorra e di un consolidato sistema di economia illecita, e l’assetto urbanistico hanno gravato per decenni, su tre generazioni di abitanti.
L’intervento in rete sullo spazio pubblico da quando è iniziato non si è mai fermato, ed è cominciato molto prima che si entrasse in una logica terzosettoriale di progetti e finanziamenti, pubblici o privati, sostenuti dalla forza dei simboli, delle idee e soprattutto delle pratiche, che per anni ci hanno convinto del fatto che le cose prima si fanno e poi si capisce come si devono finanziare e sostenere. L’assenza di una piazza d’incontro ha fatto sorgere decine di luoghi di socialità, educazione, gioco e convivialità. Dove c’erano cumuli di immondizia e piccole o grandi discariche abusive sono nati giardini e aiuole che oggi vengono visitati dalle scolaresche e da gruppi di scout provenienti da tutta l’Italia; spazi chiusi e abbandonati sono stati aperti, rivitalizzati e restituiti alla comunità. Le scuole, di ogni ordine e grado, alcune facoltà universitarie, escono dall’ambito del nozionismo ed entrano in contatto con varie componenti della cittadinanza attiva e associazioni; gli abitanti delle palazzine prendono ispirazione dai luoghi recuperati, iniziano a badare che la comune rampa per invalidi sia accessibile, i giardini vengono curati e rispettati senza bisogno di recintarli, strade che prima non erano percorribili adesso sono state liberate perché si è capito che lo spazio pubblico è di qualcuno, è di tutti. È l’esatto opposto di quanto era accaduto fino a poco tempo fa e di quanto accade ancora in molte zone della città in cui non si è potuto sviluppare un senso civico e anche di appartenenza e di comunità, dove ancora vige il principio per cui, a parte la pulizia di casa mia, il resto non mi riguarda. Un sentimento indotto anche dalla reclusione, dalle recinzioni e in fondo da una scarsa fiducia nei confronti del cittadino, che viene estromesso dalla fruizione del bene comune.
Sono fiorite associazioni, spazi di incontro per le donne, attività culturali e sportive, inclusa la prima squadra di calcio femminile, doposcuola, ludoteche, momenti di dibattito culturale e politico; con più fatica si affronta il tema dell’orientamento al lavoro con alcuni centri di formazione e con ancor più fatica si provano a mantenere spazi in cui si creano lavoro e possibilità di reinserimento anche di giovani con misure detentive o nell’area del penale – la collocazione periferica in questo caso gioca un ruolo determinante: in periferia non si va a passare il proprio tempo libero. Il tema del finanziamento – pubblico e privato – e della sostenibilità resta un nodo che non si riesce ancora ad affrontare collettivamente, la maggior parte delle realtà che non sono più solo autofinanziate agiscono isolatamente dal punto di vista della ricerca di fondi e probabilmente questo rappresenta, in fin dei conti, una debolezza.
Tuttavia, la continuità, l’ostinazione e una buona dose di immaginazione nel ribaltare le prospettive e nell’affermare bellezza, giustizia e dignità, unite a una capacità di resistenza – talvolta proprio fisica – hanno portato al consolidamento di appuntamenti e luoghi che sono diventati un riferimento locale e internazionale e hanno reso Scampia un quartiere con una migliore qualità della vita, sebbene la povertà sia molto diffusa. La gente rifiuta di continuare a specchiarsi in quella immagine di tanto tempo fa che viene ormai imposta dall’esigenza di fare notizia o che alimenta tristi tour “cinematografici” – esiste da un anno proprio il Gomorra tour, tanto per essere chiari.
La strada che porta verso il riconoscimento e l’affermazione di una normalità contro la straordinarietà, che nel bene e nel male ha marchiato il quartiere, non è priva di ostacoli e paradossi.
È paradossale ad esempio la situazione della villa comunale di Scampia, uno dei parchi pubblici urbani più grandi del Sud Italia – talmente spaesante per chi viene la prima volta e si aspetta ancora di trovare immondizia, tossici e sparatorie, che una delle esclamazioni più frequenti è “sembra il Central Park!” –, che ha un solo varco d’accesso, poiché gli altri sono chiusi da sempre o sono stati aperti solo per poco, non ha fonti di acqua, è chiuso il sabato perché i custodi del lato della municipalità, unico accesso attualmente disponibile, non lavorano, e ha un’ampia area inagibile dove i ragazzi scavalcano sfiorando alcuni pericoli. Quell’area, in particolare, a cui si dovrebbe accedere dalla cosiddetta piazza dei Grandi Eventi, oggi piazza Ciro Esposito, era stata oggetto molti anni fa di un grosso investimento da parte del comune e da parte di una fondazione privata, che sarebbe dovuto servire, in co-progettazione con il territorio, a riaprirla e restituirle agibilità. Le attività di co-progettazione e partecipazione sono durate il giro di una stagione, il tempo di fare un enorme murales con una moltitudine di bambini e giovani rom e napoletani, “la città è di tutti… e tutta la terra lo è!”, un orto didattico ormai alle ortiche, uno spettacolo estivo, un concerto, e poi si è ripristinata la chiusura. Ci interroghiamo ancora oggi sulla destinazione finale di quei fondi.
Per restare nella piazza, sotto il colonnato incontriamo il presidio del centro territoriale Mammut, luogo di riferimento internazionale per le pratiche di pedagogia attiva e partecipata e la ricerca pedagogica, che soffre oggi la mancanza di continuità di fondi e non riesce a garantire l’apertura e la presenza fissa e costante se non contando sulla volontarietà, la tenacia e di nuovo la resistenza dei suoi fondatori, degli educatori e operatori; proprio in questi giorni, il colonnato ha preso vita con un murales diffuso che ha visto la partecipazione di molti artisti e giovani e che ha immediatamente attirato gruppetti di mamme con i bambini che, in tempi di reclusione causa Coronavirus, hanno bisogno di uno spazio in cui giocare. La piazza, che sarebbe un naturale luogo di incontro, priva di giochi, priva di controllo per i motorini, e priva della regolare presenza del Mammut, torna a essere “terra di nessuno”. Recentemente ho portato alcune ricercatrici svizzere alla scoperta delle bellezze del quartiere e abbiamo concordato su una cosa ovvia: in qualunque altra parte del mondo, da Roma in su, posti come questo sarebbero semplicemente un servizio per la città e non sarebbero messi continuamente in discussione.
In discussione viene messo il Gridas nel rione Monterosa, che da dieci anni affronta un processo per occupazione abusiva di uno spazio che non solo nessun altro avrebbe usato all’epoca dell’occupazione –subito dopo il terremoto, il centro fu occupato per fare il doposcuola ai bambini baraccati che a scuola non andavano proprio – ma che poi è diventato l’origine di un movimento culturale che perdura ancora oggi. Anche i carnevali sociali dei quartieri del centro di Napoli sono tutti figli del Gridas.
Chiuso da circa tre anni resta l’Auditorium di Scampia, intitolato a Fabrizio De André, all’interno del polifunzionale, che mai in effetti ha funzionato tanto bene, in ostaggio della inadeguata gestione della municipalità e della deresponsabilizzazione del comune di Napoli, probabilmente per mancanza di fondi, sicuramente per una scarsa visione che fatica a comprendere l’importanza, culturale e sociale, di avere un teatro in periferia magari capace di muovere anche un po’ di economia. L’Auditorium è stato aperto quindici anni fa con il primo spettacolo di teatro e pedagogia, Arrevuoto, progetto che continua ancora e quest’anno è un pieno adolescente come le centinaia che coinvolge in tutta la città e che porta in scena al Teatro Stabile di Napoli. Le prove del gruppo di “chi rom e… chi no” si fanno nel centro interculturale e gastronomico Chikù, che sta sopra l’Auditorium: quaranta persone, tra giovani e guide teatrali e pedagogiche, si stringono tra tavoli e sedie sospirando per il teatro vuoto che intravedono sotto la vetrata.
Nel piccolo parziale bilancio in cui mi sono avventurata, vorrei ancora sottolineare la definitiva, sebbene non esplicita, rinuncia da parte delle istituzioni ad affrontare la questione abitativa delle comunità rom di Scampia, una presenza storica che è arrivata in parallelo con la comunità napoletana all’epoca dei primi insediamenti in questo quartiere trasversale e non omogeneo, in cui convivono accanto alle vele e ai rioni popolari, i parchi privati, le cooperative, una piccola borghesia e professionisti. Il campo non autorizzato di Cupa Perillo, dopo l’incendio del 2017, si è piano piano svuotato in attesa di una bonifica promessa e mai effettuata e di eventuali proposte alternative. Attualmente ci vivono non più di 400 persone, abitanti del quartiere a pieno titolo – ragazzi a scuola, nei vari laboratori diffusi sul quartiere, donne in particolare coinvolte in progetti lavorativi – sebbene ancora pochi siano cittadini italiani da un punto di vista giuridico, i quali non si aspettano più alcuna interlocuzione valida con gli amministratori pubblici, e che finché possono restano dove sono. Chi è già andato via lo ha fatto con le proprie forze e ha dovuto accettare silenziosamente un vero e proprio sradicamento, vivendo a Scampia da tre generazioni.
Il tema del carnevale di quest’anno è stato “LA RISCOSSA DEI PAPPICI ovverossia TUTTI INSIEME CHÉ NON C’È PIÙ TEMPO”. Ispirato da Felice Pignataro: “C’è una grande noce da rosicchiare: è il sistema, cioè il modo di comandare, l’organizzazione del potere. Da molti anni il potere ce l’hanno i ricchi, i padroni. Ma da un po’ di tempo ci sono molti pappici che rosicano questa noce. Non tutti sentono rosicare questi pappici, ma essi ci sono e sono sempre al lavoro. Ogni volta che si lotta contro un’ingiustizia si scava un altro poco dentro questa noce”.
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