Gramsci e lo Stato “guardiano notturno”
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Matteo Persico)
Antonio Gramsci aveva identificato i punti deboli e le aporie dello Stato minimo già quasi un secolo fa, dimostrando le ponderate scelte politiche che forniscono al Capitale il miglior schema di governo e predominio.
La dottrina economica liberista classica si basa su un principio assunto come oggettivo: la società civile e la società politica sono due entità completamente separate. In altre parole, lo Stato- entità politica- non deve in alcun modo interferire con i processi di sviluppo del mercato e della vita economica, declinati dalla sola società civile. Da questo principio deriva una concezione di Stato molto limitata, chiamata anche Stato guardiano notturno. In quest’ottica le uniche funzioni dello Stato sono circoscritte al mantenimento della sicurezza pubblica e al rispetto delle leggi vigenti.
Tutto ciò che concerne, anche solo in maniera marginale, l’economia e il mercato sono responsabilità delle forze private
Tale visione, imperante tra il ‘700 e l’800, ha vissuto un periodo di forte crisi durante il XX secolo, specialmente nella fase successiva alla prima guerra mondiale, in cui molte nazioni europee si videro costrette ad effettuare primi e poderosi interventi nella sfera economica. Il punto più basso del laissez-faire fu infine raggiunto con la crisi del ’29 e l’avvento dei totalitarismi, massima espressione della subordinazione della società civile rispetto a quella politica. Ciononostante le teorie dello “Stato guardiano notturno” non sono mai del tutto scomparse: hanno continuato, tacitamente e in particolar modo in paesi anglosassoni come gli Stati Uniti, ad esprimere una certa forza attrattiva, sia sul mondo economico che su quello politico. Non deve dunque stupire se la crisi del 2008, quella più vicina a noi e forse la più grave della storia del sistema capitalistico, sia stata frutto di un approccio approssimativo da parte di chi avrebbe dovuto vigilare, certamente influenzato dalle dottrine liberiste del libero mercato. Come sappiamo, la quasi totale assenza di controllo delle istituzioni sul mercato e sulle banche ha condotto a quello che tutti oggi conosciamo come grande recessione.
Facciamo ora un formidabile passo indietro, di circa 85 anni. Dal carcere di Turi dove era rinchiuso, già nei primi anni ’30 Antonio Gramsci aveva identificato i punti deboli e le aporie dello Stato minimo. La sua strategia è chiara e lineare, vuole distruggere e far deflagrare le teorie liberiste proprio a partire dal loro principio fondante: l’economia e la politica sono due entità separate, la seconda non deve in nessun caso interferire con la prima. Gramsci decide di problematizzare l’assunto, riscontrando due falle nel discorso. Da una parte l’impossibilità di una traduzione pratica dello Stato minimo. In altre parole, è una forma di Stato che può esistere solo teoricamente o può essere messa in pratica solo in modo parziale. In secondo luogo, ed è proprio su questo punto che Gramsci pone il problema più profondo, lo Stato minimo è un regime[1], è quindi l’esito di una decisione politica. Se quello che Gramsci afferma nella seconda critica dovesse rivelarsi vero, crollerebbero tutti i presupposti dello “Stato guardiano notturno” e del libero mercato. Come potrebbe risultare credibile una visione dello Stato che si basa sull’indipendenza dell’economia dalla politica, se allo stesso tempo anch’essa è frutto di una scelta politica?
Il discorso che fa Gramsci è logico e molto semplice. Sostiene infatti che la società civile, unica responsabile dello sviluppo economico, coincide con lo Stato. O per meglio dire, la società civile è lo Stato stesso[2]. Dunque l’indipendenza della sfera economica non è altro che una gentile concessione dello Stato, di cui la società civile è parte integrante. Per capire meglio l’accusa mossa da Gramsci, leggiamo questo estratto dei Quaderni:
L’impostazione del movimento di libero scambio si basa su un errore teorico di cui non è difficile identificare l’origine pratica: sulla distinzione, cioè, tra società politica e società civile, che da distinzione metodica viene fatta diventare ed è presentata come distinzione organica. Così si afferma che l’attività economica è propria della società civile e che lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effettuale società civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una “regolamentazione” di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva […] [3]
Questa citazione dovrebbe farci intendere il nucleo della critica Gramsciana allo Stato minimo. Riassumendo, egli identifica il liberismo come una regolamentazione statale non diversa dal protezionismo o da qualunque altro intervento statale, e quindi sottolinea come lo sviluppo dell’economia di mercato non sia un processo spontaneo, come vorrebbero far credere i teorici classici, ma è una scelta volontaria e consapevole della sfera politica. Per esporre cosa egli intenda praticamente, Gramsci pone l’esempio delle Trade Unions[4]: nel periodo in cui nacquero le teorie del liberismo e quindi dello “Stato determinato” di Ricardo, ancora non esisteva il concetto di “salario collettivo” e di sindacato. Perciò i lavoratori non erano in grado di associarsi e far valere la propria forza come collettività. Non si poteva invece dire lo stesso della classe dei capitalisti, i quali potevano vantare una forte radicalizzazione nelle istituzioni statali. Essi– come riporta Gramsci- avevano nel Parlamento la propria Trade Union[5].
Il paradosso che ne deriva, che purtroppo nella realtà dei fatti tanto paradossale non è, getta luce sulle reali meccaniche della teoria del libero mercato: ciò che sembra un’economia non regolamentata è in realtà la conseguenza di una reale scelta politica, il cui potere legislativo ed esecutivo è ricoperto da individui facenti parte della classe dominante. La scelta di mantenere il mercato libero è, per l’appunto, già di per sé una scelta e quindi una restrizione: nel momento in cui scelgo A invece di B, sto “restringendo” il campo delle possibilità. E in quanto “restrizione” deve derivare necessariamente dall’azione politica, poiché il potere coercitivo appartiene solo allo Stato, anche se Minimo. In poche pagine Gramsci confuta l’indipendenza del mercato dallo Stato, a lungo millantata dai teorici liberisti. Il mercato che essi ritenevano autonomo ed autoregolato non era altro che una “situazione economica” creata artificiosamente dallo Stato stesso. Quella stessa situazione che oggi, stante l’assenza di una nuova rivoluzione Keynesiana e la definitiva conclusione dell’autonoma utopia di un modello altro quale quello sovietico, certifica la stasi comatosa- e forse irrimediabile- del finanzcapitalismo.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftn3
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