L’odore della polvere prima dello sparo
DA LA FIONDA (Di Giuseppe Gagliano)
Riflessione su un’Europa che gioca col fuoco. A partire da Alessandro Barbero
Ci sono momenti, nella storia, in cui il presente smette di rassomigliare a sé stesso. Smette di essere cronaca, flusso quotidiano di fatti e parole, e comincia a sembrare un déjà-vu, un ritorno mascherato di qualcosa che avevamo già vissuto, e malamente archiviato. Oggi, nel cuore di un’Europa apparentemente pacificata ma profondamente inquieta, quella sensazione è sempre più difficile da ignorare. Come se avessimo imboccato una strada già battuta, col passo inconsapevole di chi non ha imparato nulla.
Per comprendere questa atmosfera, bisogna voltarsi indietro. L’Europa del 1914 non era una landa devastata dalla guerra, ma una civiltà sofisticata, attraversata da commerci, invenzioni, aspirazioni. I suoi caffè brulicavano di letterati e teorici della pace, le sue università formavano generazioni che avrebbero dovuto guidare il progresso. Eppure, bastò un colpo di pistola a Sarajevo per trasformare tutto questo in fango e trincee. Non fu un incidente, fu il risultato di una lunga incubazione.
Anche allora, come oggi, l’illusione della pace si accompagnava a una ossessione crescente per la guerra. Non quella reale, ma quella evocata, prevista, raccontata. La narrativa dominante era impregnata di sospetto, di accuse incrociate, di paura organizzata. Ogni nazione si vedeva come accerchiata da nemici più forti, più aggressivi, più spietati. Si alimentava un immaginario collettivo in cui la guerra non era solo possibile: era imminente, necessaria, quasi redentrice. Da lì, il passo verso il riarmo fu brevissimo. E il riarmo, come sempre, produce la vera insicurezza: quella dell’altro, che reagisce, rilancia, si sente minacciato a sua volta.
Oggi, cento anni dopo, lo schema si ripete con sconcertante fedeltà. Anche noi abbiamo attraversato una lunga parentesi senza guerre “grandi”, sebbene attraversata da conflitti regionali devastanti, spesso scatenati o sostenuti proprio dalle potenze occidentali. Anche noi parliamo ininterrottamente di sicurezza, minacce, deterrenza. Le testate raccontano ogni giorno dell’aggressività altrui – russa, cinese, iraniana – e dimenticano di dire che la NATO ha ampliato i suoi confini come nessuna altra alleanza nella storia. I governi rispondono con piani di riarmo miliardari, e nel frattempo seminano allarmi per giustificare ogni nuova spesa.
In questo clima, ogni alleanza diventa un bastone. Le “amicizie strategiche” servono a contenere, intimidire, isolare qualcun altro. Ma nessuno accetta di essere isolato in silenzio. Così, come nel 1914, la spirale si autoalimenta. Se l’Inghilterra raddoppiava le sue navi da guerra, la Germania rispondeva costruendo la propria flotta. Se la Francia allungava il servizio militare, la Germania lo rafforzava. E alla fine, la guerra sembrava l’unica via d’uscita da un’impasse costruita a tavolino.
Il paradosso della sicurezza è tutto qui: più si investe in armamenti per sentirsi protetti, più si crea insicurezza. Più si alimenta la paura, più si moltiplicano le probabilità del disastro. Le opinioni pubbliche, intossicate da anni di propaganda, chiedono sicurezza, ma ottengono frontiere chiuse, eserciti irrequieti e una diplomazia muta.
Oggi, questa spirale è già avviata. Abbiamo normalizzato la logica del nemico, accettato la corsa agli armamenti, ignorato le voci che invitano alla moderazione. Abbiamo ripreso a discutere di servizio militare obbligatorio, come se la guerra fosse non una sciagura da evitare ma un destino da preparare. E i generali – proprio come allora – tornano a parlare in pubblico, a pubblicare memorie e moniti, a spiegare che “meglio prima che poi”.
La verità è che l’Europa rischia di nuovo il suicidio. E questa volta, non ci sarà alcuna Belle Époque da rimpiangere, né un’America pronta a ricostruirci. Abbiamo già smarrito troppa lucidità, troppa autonomia politica, troppa memoria storica. Ma il futuro non è ancora scritto.
È da noi, solo da noi, che può venire la discontinuità. Dalla capacità di riconoscere l’isteria, smascherare le logiche belliche camuffate da difesa, ritrovare il coraggio della diplomazia, della complessità, della verità. Solo così possiamo evitare che questa nostra epoca, così simile a quella che la precedette, si trasformi di nuovo nel prologo di un disastro annunciato.
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