di TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Emanuel Pietrobon)
Dall’Egeo al Caucaso meridionale, passando per Asia centrale e Africa, non c’è teatro che Erdogan abbia infiltrato e in cui non abbia avuto successo
Continuano a darla per vinta, spacciata, prossima al tracollo, o meglio all’implosione; eppure, la Turchia, nonostante una lira in caduta libera, un’economia vulnerabile e una sovraestensione imperiale in costante aumento, sta macinando un successo dopo l’altro: dalla sfera militare alla diplomazia.
Il mondo avrebbe dovuto guardare alla Turchia con occhi differenti nel dopo-pandemia, rispettarla e riconoscere la legittimità delle sue ambizioni egemoniche, perché era, o meglio è, una grande potenza rinata; questo scrivevano Agenzia Anadolu e Daily Sabah lo scorso aprile in occasione del centenario della Grande Assemblea Nazionale di Turchia. La pandemia non è ancora terminata, è semplicemente entrata in una nuova fase, eppure quegli editoriali suonano più profetici che mai.
Tra giugno e agosto si è assistito ad una escalazione quasi-militare nell’area Egeo-Mediterraneo orientale tra il blocco greco-cipriota, supportato da Francia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Israele, e la Turchia, appoggiata timidamente dal Governo di Accordo Nazionale della Libia. In ballo vi erano e vi sono la riscrittura dei trattati di pace del primo dopoguerra, che hanno condannato alla Turchia ad una dimensione terrestre, il sogno del “lago ottomano” e la partecipazione alla spartizione delle risorse energetiche contenute nelle profondità di questa parte di Mare nostrum.
Il ruolo francese in chiave antiturca nell’Egeo-Mediterraneo orientale non è stato ignorato da Recep Tayyip Erdogan – la tradizione vuole che i turchi né perdonino né dimentichino – il quale ha saputo cavalcare magistralmente gli errori di Emmanuel Macron nella lotta al cosiddetto “separatismo islamista” per mobilitare la comunità musulmana mondiale (umma) contro Parigi.
Sullo sfondo delle ostilità franco-turche e della tensione permanente con il vicino mondo ellenico, Erdogan ha giocato la partita della vita nel Nagorno Superiore, un territorio conteso tra Armenia e Azerbaigian che era stato sede di una guerra tra il 1988 e il 1994. Non in Libia e non in Siria, ma qui, in questo lembo di terra impervio e montagnoso, la Turchia ha dimostrato realmente e per la prima volta le proprie potenzialità.
L’Azerbaigian non avrebbe potuto vincere contro lo storico nemico, l’Armenia, se la Turchia non fosse intervenuta in suo aiuto, provvedendo all’invio di armamenti di ultima generazione, come i droni da combattimento, di consulenti militari e di un esercito irregolare composto da una varietà di professionisti della guerra asimmetrica e non convenzionale: Lupi grigi, Sadat, jihadisti e soldati dell’Esercito Siriano Libero.
I risultati di questa stagione ad alta tensione, iniziata nell’Egeo, proseguita nel cuore dell’Europa e terminata nel Caucaso meridionale, non stanno tardando ad arrivare: accordi con l’Azerbaigian per la costruzione della Nakhchivan-Baku e di un parco tecnologico nel Karabakh Superiore, negoziati con Kazakistan, Serbia e altri paesi per la vendita di partite di Bayraktar TB2, il giannizzero dei cieli che ha piegato i curdi in Siria e poi gli armeni nell’Artsakh, e persino una ripresa delle trattative sottobanco con Arabia Saudita e Israele per porre fine alle ostilità e tornare al tradizionale clima di rivalità competitivo-collaborativa ma non antagonistica.
La Turchia di Erdogan è un gigante dai piedi d’argilla a cui piace correre: vi è la certezza, del resto, che lo sgambetto a tradimento non arriverà mai. Far sanguinare le ginocchia e fratturare i piedi alla Sublime Porta, infatti, non conviene a nessuno: l’Unione Europea è ricattabile con l’arma migratoria e vulnerabile ad operazioni ibride basate su terrorismo e micro-guerre urbane, gli Stati Uniti necessitano un ariete potente da utilizzare sia per contenere la Russia che per tenere sotto scacco l’Europa e, infine, Israele non abbisogna di un nemico del calibro turco ed è alla ricerca costante di una normalizzazione.
La Turchia, inoltre, – e questo è un errore che connota quasi l’intero mondo dell’analisi nostrana – viene spesso dipinta come una tigre di carta prossima alla caduta: una menzogna che sta venendo ripetuta da almeno sei anni, o forse di più. Il tempo scorre e, come si può vedere benissimo, la Turchia è ancora lì, Erdogan è ancora lì. Il motivo per cui l’implosione in stile sovietico non sta accadendo, nonostante le operazioni di sabotaggio economico lanciate dall’internazionale della finanza, è che la Turchia non ha mai avuto un’economia né una valuta nazionale particolarmente forti.
La Sublime Porta ha vissuto di rendita di posizione dal 1453 ad oggi, abituandosi a convivere con la condizione cronica di “gigante militare, nano economico”. Questo non significa che la Turchia sia imbattibile – non lo è – ma che, più semplicemente, dopo secoli di esistenza e di esperienza, ha interiorizzato la consapevolezza dei propri limiti e sviluppato una strategia di adattamento in grado di permetterle di coniugare debolezza economica e aspirazioni imperiali.
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