Gli ultimi giorni dell’ideologia liberal (1a parte)
di VOCI DALL’ESTERO (Maximilian Forte)
In un articolo documentato quanto aspramente ironico, l’antropologo Maximilan Forte annuncia sul suo blog Zeroanthropology il crollo imminente dell’ideologia liberal progressista. E dei Democratici, che all’ideologia progressista hanno legato le loro fortune. Una minuziosa disamina degli errori commessi durante la campagna elettorale della Clinton, delle scomposte reazioni dei Democratici alla sconfitta, della complicità della grande stampa – che crea fake news sostenendo di lottare contro le fake news – e di una classe accademica elitista che si è trasformata in una sorta di nuova aristocrazia.
Forte mostra i sedicenti campioni del pensiero progressista come una nuove élite devota alla meritocrazia – e di conseguenza indifferente alla solidarietà – che ha preteso di insegnare al popolo che cosa era buono e giusto, a dispetto di quello che il popolo stesso sperimenta nella propria vita: ed è quindi stata abbandonata dal popolo, che ha votato altrove.
Come l’ortodossia, il professionalismo e politiche indifferenti hanno definitivamente condannato un progetto del diciannovesimo secolo
Che spettacolo eccezionale. Questi sono gli ultimi giorni, presto inizierà il conto alla rovescia delle ultime ore per lo sconfitto progetto politico liberal, ereditato dal XIX secolo. Il centro – se ce n’è mai stato uno – alla fine non ha potuto reggere (citazione del “Secondo Avvento” di W.B.Yeats – NdT). Che meraviglia vedere una delle ideologie dominanti, colonna portante del sistema internazionale, portata in trionfo sin dalla fine della Guerra Fredda con una boria e una certezza sconfinate, precipitare a faccia in giù nella pattumiera della storia.
È caduta di schianto, come se una folla inferocita l’avesse spinta da dietro, anche se i suoi difensori sosterranno che sono stati semplicemente commessi degli “errori”, come se fossero scivolati sulla più grande buccia di banana della storia. E che spettacolo: chi si sarebbe mai aspettato una simile mancanza di dignità, una così patetica isteria, insulti così infondati, minacce così vuote provenire da coloro che si auto-incensavano come valorosi statisti, che parlavano come se avessero il monopolio della “ragione”. E anche se questa rovinosa caduta avrebbe potuto essere ben peggiore, non sono mancate violenza, minacce, boicottaggi, e persino denunce di tradimento, fatte apposta per delegittimare la scelta degli elettori.
La democrazia liberal è stata ridotta a un guscio vuoto, più un mero nome che una realtà meritevole di questo nome. Per molti anni l’ideologia liberal si è identificata con l’autoritarismo liberale, o post-liberalismo, o neo-liberalismo, con un disprezzo elitista della democrazia e una diffusa paura delle masse, ovunque. Le promesse di inclusione, giustizia sociale e welfare sono state sostituite da trucchi retorici solo in apparenza sensibili e da concessioni puramente formali. Narcisismo morale, ostentazione di pubbliche virtù, politiche identitarie e costruzione di patchwork rattoppati di inclusività sono stati all’ordine del giorno.
Le proteste venivano incoraggiate all’estero, contro nazioni-bersaglio, al fine di “promuovere la democrazia” – mentre in patria venivano represse da una polizia sempre più militarizzata. Si davano lezioni sulla trasparenza e sulla responsabilità in giro per il mondo, mentre in patria c’era solo sorveglianza di massa, spionaggio interno, e una stretta su chi denuncia da dentro quello che non va nelle istituzioni. I leader progressisti si dipingevano come difensori della pace e dell’ordine, mentre moltiplicavano le guerre. Lo stesso Obama è personalmente responsabile per l’omicidio di migliaia di persone, molte delle quali civili – nel solo 2016, gli Stati Uniti hanno sganciato una media di 72 bombe al giorno, ogni giorno, in guerre combattute in sette Paesi.
Obama ha supervisionato la rapida accelerazione del trasferimento della ricchezza (dai poveri agli ultra-ricchi, ovviamente – NdT) e dell’aumento della povertà nazionale, mentre veniva lodato da accademici e scrittori di pseudosinistra per aver “governato bene”, e averlo fatto con professionalità ed eleganza. La sinistra nordamericana ed europea, che ha fatto pace e si è accordata con l’imperialismo liberale, affonda assieme a quelli che, alla fine, l’hanno ricompensata così poco. Ancora una volta, l’imperialismo sociale sinistrorso si rivela un fallimento, mentre getta le fondamenta per chi lo rimpiazzerà.
E non è una cosa da poco quella che si è schiantata al suolo, non è stata la semplice sconfitta di Hillary Clinton e il rifiuto dell’“eredità” di Obama da parte degli americani. No, stiamo assistendo all’irreparabile sgretolamento di una serie di istituzioni, di una classe di “esperti” e di una rete di alleanze politiche e corporative.
Ci troviamo nei primissimi giorni di una transizione di carattere storico, quindi non è ben chiaro che cosa ci aspetta dopo, e le etichette che stanno proliferando dimostrano solo confusione ed incertezza – populismo, nativismo, nazionalismo ecc. Avvicinandoci al mio campo professionale, stiamo iniziando a essere testimoni del fatto che, in coerenza con l’ignominiosa sconfitta della classe degli “esperti”, l’antropologia statunitense – esercitando la propria egemonia su scala internazionale – non verrà risparmiata dalla mattanza.
Nel giro di pochi anni, l’antropologia professionista e istituzionale raggiungerà quella “linea zero” di cui questo sito (https://zeroanthropology.net/ – NdT) parla da molti anni ormai, linea oltre la quale il potere e l’influenza scompaiono, mentre il supporto imperiale all’antropologia statunitense si indebolisce o crolla.
Di sicuro, il liberalismo progressista non scomparirà completamente, e nemmeno istantaneamente. Le idee non muoiono mai davvero, vengono solo archiviate. Il liberalismo progressista rimarrà nei libri di testo sugli scaffali delle biblioteche, sarà ricordato e difeso dai suoi sostenitori viventi, ed elementi specifici del suo vocabolario potranno continuare a vivere. Alcuni cercheranno di resuscitare il progetto politico liberal, e in alcuni ambienti sembrerà persino ritornare in auge, ma questi sforzi saranno isolati e relativamente di breve durata.
Quella che Francis Fukuyama definiva “fine della Storia” si è rivelata essere più simile a un canto del cigno per il liberalismo progressista, anche se nemmeno lontanamente così splendido. Se, come la storiografia dominante ha sentenziato, “il comunismo ha fallito”, allora il liberalismo sarà il prossimo. Nonostante tutti gli sforzi affannosi per appropriarsi indebitamente del significato di “fascismo” per assegnarlo a Trump, nemmeno il fascismo rappresenta un movimento praticabile.
Piuttosto che la fine dell’ideologia, sembra più l’aprirsi di qualcosa di nuovo – non c’è da stupirsi che molti di noi abbiano notato che il dibattito attuale trascende le dinamiche “destra contro sinistra”, e che la questione cruciale è ormai “globalismo contro nazionalismo”. Per ora, voglio semplicemente osservare il momento in cui ci troviamo, e provare a organizzare e analizzare le principali caratteristiche di questo collasso.
Un colossale fallimento nel convincere
I Democratici, un partito che ha legato le sue “fortune” a quelle dell’ideologia liberal, sembrano persi in una spirale di negazione di responsabilità per la loro sconfitta elettorale, accoppiata alla negazione della realtà. I leader del partito hanno accuratamente evitato le riflessioni su come sia stato possibile proporre e sostenere un candidato gravemente carente come Hillary Clinton – come se quest’ultima fosse una sorta di “scelta naturale”, in quanto apice di un processo evolutivo il cui punto terminale era stato predetto – e candidarla a prescindere dal fatto che l’elettorato la volesse o meno, come se non ci potessero essere obiezioni o alternative. Osservando come i Democratici hanno perso si capisce anche perché dovevano perdere.
Improvvisamente, hanno fatto finta di ignorare che qualsiasi campagna presidenziale seria negli Stati Uniti, oltretutto orchestrata da consulenti ed “esperti” pagati profumatamente, è una campagna progettata per vincere il collegio elettorale, non il voto popolare. E infatti, durante i giorni dorati in cui i media parlavano soltanto dei sondaggi, ogni volta che Trump sembrava guadagnare terreno la replica immediata era “ma tanto non riuscirà mai a superare lo scoglio del collegio elettorale”, e la discussione finiva lì.
Alcune delle previsioni più sconclusionate che assegnavano la vittoria alla Clinton, pronosticavano che avrebbe vinto il doppio dei voti del collegio elettorale di quelli che alla fine si è realmente aggiudicata nelle elezioni – ma il collegio elettorale in sé non è mai stato messo in discussione. Trump era considerato come destinato alla sconfitta proprio per via del collegio elettorale; ma quando ha vinto le doglianze erano tutte perché aveva vinto per via del collegio elettorale. La logica dei perdenti è una logica perdente.
Invece di affrontare i fatti che li avevano condotti alla sconfitta – e io avevo previsto che sarebbe andata così sin dal 9 novembre (il giorno dopo le presidenziali USA – NdT) – nel giro di pochi giorni i Democratici hanno iniziato a inventarsi la narrazione degli “hacker russi” e delle “notizie false” (“fake news”) orchestrate dai russi: loro non avevano perso contro Donald Trump, no, avevano perso contro Vladimir Putin! Ancora una volta: osservare come i Democratici hanno perso le elezioni rende evidente perché dovevano perderle.
Una vera e propria escalation melodrammatica delle pericolose minacce contro la Russia già presenti nella campagna della Clinton, che ha comportato tra le altre cose la messa in moto di una nuova Guerra Fredda e la riproposizione della prospettiva di un olocausto nucleare (una cosa che i sostenitori della Clinton o hanno affrontato con leggerezza o magari consideravano un’alternativa più appetibile della sconfitta). I Democratici, nella loro caccia alle streghe per scovare “traditori”, creando una teoria del complotto dopo l’altra, si comportano come dei nuovi McCarthy, mentre i loro lacchè nei media si inventano un diluvio di menzogne e notizie false proprio mentre affermano di combattere le “fake news”.
Nel frattempo, Obama ci ha chiesto contemporaneamente di essere preso sul serio e di non essere preso sul serio: da un lato era furioso per l’“hacking dei russi”, mentre dall’altro lato faceva l’innocente, come se non si fosse accorto che questo evento certo (“lo fanno tutti”, diceva Obama riferendosi all’hacking) si stava per verificare, e in questo modo non ha dato alcuna spiegazione del perché il suo governo aveva fatto così poco per impedirlo, fermarlo o contrastarlo.
Prima del giorno delle elezioni, Obama ha respinto le voci preoccupate di una votazione truccata, definendole “piagnistei” di quelli che riteneva sarebbero stati i perdenti – mentre dopo le elezioni, era lui il perdente che ha cominciato con i piagnistei. Da una parte, Obama afferma di avere informazioni sull’hacking russo; dall’altra, offre al pubblico solo asserzioni senza prove e pretese di credibilità che richiedono la fede degli astanti, invocando credito e fiducia, senza offrire alcuna prova. E questi sarebbero i migliori rappresentanti della classe degli “esperti”, che fanno asserzioni scollegate dai fatti e ricorrono al “se non mi credete siete stupidi”?
Obama dichiarava orgogliosamente che la sua amministrazione era stata del tutto esente da scandali, eppure eccolo lì, a sostenere che un potere estero aveva interferito con un’elezione chiave e, che ci crediate o meno, per lui era stato impossibile impedirlo: abbastanza scandaloso. In una conferenza stampa cui ho assistito ai primi di dicembre, Obama faceva il suo predicozzo ai soliti “giornalisti” leccapiedi: una delle sue facce diceva agli astanti che le e-mail di John Podesta (Responsabile della campagna elettorale di Hillary Clinton – NdT) pubblicate da Wikileaks erano semplice gossip; poco dopo, l’altra faccia si lamentava che Wikileaks aveva alterato il corso delle elezioni.
Ma stiamo comunque parlando di Obama, con la sua coerente incoerenza, la sua comunicazione biforcuta, le sue due facce che si davano il cambio in quasi ogni discorso pubblico. Non è uno statista “sfaccettato”, la sua non è “complessità”, è semplicemente disonesto e falso. Fossi stato il solo ad accorgermene avrebbe avuto ben poca importanza, ma a quanto pare se ne sono accorti anche decine di milioni di elettori americani.
Hollywood e i PR
Questo colossale fallimento nel convincere gli elettori si è manifestato anche in altre aree critiche. I VIP di Hollywood sono stati coinvolti in almeno tre round di sfilze di video di personaggi celebri nelle quali gli elettori venivano esortati, con i toni più pressanti che degli impostori professionisti e pagati riuscissero a produrre, a fare l’unica scelta morale corretta: votare per la persona che aveva demonizzato milioni di elettori definendoli deplorevoli, bamboccioni e superpredatori sessuali, la stessa persona responsabile di aver favorito la distruzione dello stato libico e di tutte le conseguenze che ciò ha comportato – l’esplosione del terrorismo in tutto il Nord Africa, rifugiati in fuga, una guerra civile durata anni. Una persona dotata di un curriculum comprovato nella creazione di pericoli. L’intimidazione degli elettori da parte degli attori di Hollywood e, ancora peggio, delle loro controparti più giovani su MTV, ha fallito miseramente.
E non è stata solo Hollywood a fallire, ma anche la maggior parte dei media mainstream, che a loro volta si trovano di fronte a livelli di fiducia da parte del pubblico in crollo verticale. Hanno fallito in modo eclatante, tanto quanto i media, anche tutta una serie di istituti di sondaggi, agenzie per le relazioni pubbliche, pubblicitari professionisti e consulenti di comunicazione strategica, e questo nella medesima società che ha inventato i PR e le Relazioni Pubbliche. Hillary Clinton si è autodefinita una leader del “soft power”, della capacità di convincere: ed ecco qui l’intera architettura del “soft power” che va a picco, non (solo) all’estero ma, incredibilmente, in patria.
Il New York Times ha recentemente riportato che una conferenza dell’Associazione Internazionale dei Consulenti Politici “sembrava una sessione di terapia per un settore professionale psicologicamente in caduta libera”. Una delle conclusioni dell’articolo del NYT è che “l’esercito di consulenti della Clinton è stato sconfitto da un candidato scatenato, in apparenza privo di qualsivoglia coreografia che, secondo i dati più recenti, ha speso più soldi in magliette, cappelli, cartelloni e altri oggetti simili di quanti ne abbia spesi in consulenza sul campo, liste di elettori, e analisi di dati”.
E per quanto riguarda l’asserto “il sesso vende”, quest’elezione ha sconfitto anche questa ovvietà. Ogni giorno, settimana dopo settimana, ed eclissando quasi completamente qualsiasi altra notizia (incluse le pubblicazioni delle mail di John Podesta da parte di Wikileaks), la maggior parte dei media mainstream hanno martellato incessantemente Trump con storie sempre più scabrose di palpeggiamenti sessuali e commenti sessisti. Quando si sono scontrati in un dibattito faccia a faccia per la prima volta, la Clinton ha tentato immediatamente di screditare Trump riportando il racconto esagerato, unilaterale e farsesco di una ex Miss Venezuela. E i social media sono stati anche più gretti, diffondendo voci di incesto troppo disgustose per riportarle qui, anche in parafrasi. Tutto ciò, con che effetto?
Per coloro che si dedicano allo studio di media, pubbliche relazioni, propaganda ed imperialismo culturale, il risultato di queste elezioni avrà un significato duraturo, soprattutto perché hanno messo in discussione parecchie cose che venivano date per scontate.
Finanziatori corporate, supporto internazionale
Si è dibattuto a lungo durante le elezioni sul ruolo dei finanziatori, e del denaro che erogano ai candidati, nella politica elettorale statunitense. Hillary Clinton ha raccolto senza dubbio la maggior parte dei finanziamenti e delle donazioni, spendendo circa il doppio di Trump per la sua campagna elettorale, quasi il triplo in pubblicità televisiva. La “verità” consolidata che il denaro garantisce il raggiungimento dei risultati politici desiderati è stata spazzata via. Ciò non vuol dire che il denaro non conti più niente nel processo elettorale, significa invece che avere un sacco di soldi da spendere non garantisce affatto un risultato certo.
La Clinton poteva anche contare sull’appoggio della maggioranza degli Amministratori Delegati delle Aziende nella Fortune 500 (lista delle 500 più grandi aziende americane per fatturato, pubblicata annualmente dalla rivista Fortune – NdT), alcuni dei quali, come l’AD di HP, sono arrivati a indire conferenze stampa nelle quali accusavano Trump di essere un “fascista”, paragonandolo ad Adolf Hitler e a Benito Mussolini. È di pubblico dominio, inoltre, che milioni di dollari sono entrati nelle casse della Clinton Foundation, versati da governi stranieri e corporation transnazionali.
Ma anche se la Clinton si è dannata a raccogliere fondi e donazioni persino negli ultimi giorni della campagna elettorale, tutto ciò non è servito a niente. Nemmeno la miriade di endorsement subdoli, indiretti e talvolta espliciti da parte di leader stranieri e capi di istituzioni internazionali, dal Consiglio dell’Unione europea alla Commissione per i Diritti umani delle Nazioni Unite fino alla NATO, ha avuto un impatto sufficiente. Neanche i moniti di “prudenza”, con ovvie implicazioni, da parte dei direttori delle principali istituzioni finanziarie multilaterali sono riusciti a spostare il risultato delle elezioni in favore della Clinton.
Fonte:http://vocidallestero.it/2017/01/28/gli-ultimi-giorni-dellideologia-liberal/
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