L’inganno della NATO araba
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Daniele Perra)
Il progetto di creazione di una NATO araba, fortemente voluto dall’amministrazione statunitense, avrà come base di partenza la neonata Middle East Strategic Alliance, il cui obiettivo sarà “combattere il terrorismo in tutte le sue forme” ed il cui esatto numero, in termini di membri attivi, verrà stabilito nei prossimi mesi. Questo è il più che controverso esito del recente incontro di Ryadh tra il Presidente USA Donald Trump ed i leader di 55 paesi arabi e islamici. Con l’Arabia Saudita che in modo quantomeno paradossale si propone come il cuore delle operazioni anti-terrorismo nell’area (sic!).
Leggendo il testo integrale della Dichiarazione di Ryadh, attraverso la quale i membri della futura Middle East Strategic Alliance si sono accordati per assemblare un esercito di 34.000 unità per supportare operazioni militari contro gruppi terroristici in Iraq ed in Siria, appare subito evidente il carattere ambiguo e prettamente anti-iraniano di tale accordo, il cui obiettivo è entrare in Siria con la scusa di combattere un ISIS già prossimo alla fine e rovesciare comunque il legittimo governo di Bashar al-Assad. Tramite questo accordo, alcune delle nazioni che del terrorismo sono le principali finanziatrici si sono unite, come recita la Dichiarazione, per “combattere il terrorismo in tutte le sue forme, individuando le sue radici culturali, prosciugando le sue risorse economiche e prendendo tutte le misure necessarie per prevenire e combattere i suoi crimini in stretta collaborazione tra i Paesi”. Un terzo della risoluzione punta il dito direttamente contro l’Iran:
“I leader confermano il loro assoluto rifiuto nei confronti delle pratiche attuate dal regime iraniano volte a destabilizzare la sicurezza e la stabilità della regione e del mondo grazie al suo continuo supporto all’estremismo ed al terrorismo”.
L’Iran è stato inoltre accusato per il suo programma missilistico e per le sue continue interferenze negli affari interni di altri Paesi. Nel discorso che ha preceduto il summit, Donald Trump ha nominato l’Iran una dozzina di volte accusando il paese degli ayatollah di aver ulteriormente destabilizzato la Siria con il suo intervento militare e di essere un porto sicuro per il finanziamento ed il reclutamento del terrorismo. E sul finire del suo intervento ha affermato la necessità di lavorare insieme per isolare la minaccia iraniana e ringraziato Re Salman per i suoi massicci investimenti in difesa dell’industria americana, dimostrando come dietro tale accordo vi siano non solo comuni interessi strategici ma anche cospicui interessi economici. È infatti chiaro come il progetto di creazione della cosiddetta “NATO araba” sia in primo luogo congeniale agli interessi economici dell’industria americana delle armi. Trump ha firmato con i sauditi un accordo sulla vendita di armi per la cifra record di 110 miliardi di dollari. Un’intesa che mira a raggiungere il nuovo record di 350 miliardi nei prossimi dieci anni e che, in ottica saudita, punta anche ad una futura produzione in loco di armamenti (progetto VISION 2030) capace di garantire una sostanziale diversificazione economica e sganciare la monarchia dalla sola esportazione di idrocarburi. Tale accordo era stato trattato già nel 2016 dall’allora Presidente Obama accordatosi per una fornitura in armi e sistemi di difesa per il valore di 115 miliardi di dollari. L’intesa record non è la prima tra USA ed Arabia Saudita la cui alleanza prosegue senza grandi scossoni da più di settanta anni. Di fatto, anche nell’istante dello shock petrolifero del 1973, contrariamente a quanto affermato dalla storiografia ufficiale, attuato con una certa riluttanza da Re Faysal, le relazioni tra gli USA e la monarchia saudita non vennero messe in discussione. Anzi, negli anni successivi, tali relazioni vennero rinforzate proprio dal cospicuo acquisto di armamenti e tecnologie militari dagli Stati Uniti reso possibile ai sauditi dagli ancor più ingenti introiti economici derivanti dalla vendita del greggio a prezzi raddoppiati.
L’interesse dell’imprenditore Donald Trump, proprietario di una trentina di compagnie che operano in Medio Oriente e soprattutto nei paesi del Golfo, si è incontrato con quelli strategici degli USA, presenti con diverse basi militari nell’area (sette nella sola Arabia Saudita), e proprio con quelli dei sauditi in evidente difficoltà di fronte al rinnovato protagonismo dell’Iran e dei movimenti di resistenza ad esso collegati. A ciò si aggiunge l’ingresso a pieno titolo della NATO (quella originale) nella coalizione anti-ISIS. Tuttavia, ciò non significa che la NATO si impegnerà direttamente in combattimenti, come ha affermato il suo Segretario Generale Jens Stoltenberg. Al momento, la NATO parteciperà alla coalizione essenzialmente attraverso la condivisione di informazioni e l’aumento di rifornimenti aerei in volo. Una partecipazione resa inevitabile ancora una volta dalla pressione dell’amministrazione USA (a quanto pare Trump non sembra più considerare la NATO uno strumento obsoleto come affermò durante la campagna elettorale) che ha ricordato ai Paesi membri il fatto che nel 2014 si fossero impegnati a destinare ciascuno il 2% del PIL alla difesa. Impegno che al momento solo cinque paesi su ventotto (USA, Gran Bretagna, Estonia, Polonia e Grecia) hanno rispettato.
Il summit di Ryadh se da un lato ne ha messo in evidenza le oggettive difficoltà, dall’altro deve essere letto proprio come il tentativo saudita di rilanciare la propria leadership nel mondo arabo appannata dalle pesanti sconfitte subite in Yemen, dai reiterati massacri di civili perpetrati nel silenzio della Comunità Internazionale e dalla progressiva scomparsa nel teatro siriano e iracheno delle milizie jihadiste sponsorizzate proprio dalla Casa dei Sa’ud e dai suoi epigoni del Golfo. Appare chiaro che la priorità della nuova Middle East Strategic Alliance non sarà la lotta al terrorismo, ed alle sue cause più che ai suoi effetti come in teoria dovrebbe essere, ma contrastare l’egemonia iraniana nell’area in tacito accordo con Israele. Recenti inchieste del New York Times hanno messo in evidenza il finanziamento e sostegno saudita ad alcuni centri di reclutamento dell’ISIS in Europa (in Kosovo in primo luogo) ed il progressivo processo di sostituzione nei centri di cultura islamici d’Europa, attraverso il continuo flusso di denaro, della scuola giuridica hanafita, maggioritaria nell’Islam sunnita, con l’eterodossia anti-tradizionale ed a-culturale wahabita che occupa i Luoghi Sacri dell’Islam. Un processo il cui obiettivo è quello di garantire al wahabismo un riconoscimento come unico e vero Islam che suona totalmente estraneo rispetto alla storia stessa ed alla tradizione dell’Islam sunnita. La totale negazione dell’Occidente di fronte al vero ruolo della monarchia saudita ed alle similitudini tra l’ideologia wahabita, il salafismo-jihadista ed il takfirismo, oltre a mostrare la comune volontà di smembrare il Medio Oriente su base confessionale, ha portato l’analista Kamel Daoud a parlare dell’Arabia Saudita (che poté godere della protezione dell’imperialismo britannico nel suo processo di formazione statuale) come di una sorta di ISIS che ce l’ha fatta. Di fatto, si finge di non vedere che l’Arabia Saudita è la vera culla del jihadismo. Una nazione in cui il continuo incitamento all’odio nei confronti dell’Occidente e soprattutto degli stessi musulmani contrari alla visione oscurantista wahabita, propagato dai mezzi di informazione, fa da contraltare all’ipocrita cordoglio nel momento in cui gli affiliati ai gruppi jihadisti compiono stragi nelle principali città europee.
A margine dell’incontro di Zavidovo, vicino Mosca, i Segretari alla Sicurezza di Iran, Russia, Siria ed Iraq hanno sottolineato come la Dichiarazione di Ryadh fosse irritante e decisamente poco costruttiva, mentre il portavoce e Vice Segretario Generale di Hezbollah Naim Qassem, in risposta all’affermazione di Donald Trump che ha messo sullo stesso piano ISIS, al-Qaeda, Hezbollah e Hamas, ha affermato: “Gli USA e l’Europa dovrebbero capire chi sono i veri terroristi”. Un’affermazione, quella di Trump, quantomeno paradossale se si considera che Hezbollah, grazie al suo intervento in Siria affianco alle forze lealiste, ha protetto i confini libanesi dalla minaccia delle infiltrazioni jihadiste e che Hamas giornalmente lotta all’interno dei campi profughi palestinesi per cacciare le fazioni pro al-Qaeda e pro ISIS. L’affermazione del Presidente USA, tuttavia, rende ancor più evidente che la presunta guerra al terrorismo concentrerà i propri sforzi non nei confronti dell’ISIS, la cui fine come entità politico-territoriale in Siria ed Iraq è prossima, ma contro Hezbollah, i ribelli Houthi dello Yemen ed infine l’Iran, il cui processo di violenta criminalizzazione è solo agli inizi. Una campagna politico-militare che ovviamente andrebbe a vantaggio di Israele, alleato occulto della nuova coalizione, che da tempo considera il Movimento di Resistenza Libanese alla stregua di vera e propria minaccia esistenziale, tanto che il Generale delle Forze armate israeliane Binyamin Gantz, in modo decisamente esagerato ma conscio dell’esperienza acquisita sul campo di battaglia e del potenziato arsenale militare, ha definito il Partito di Dio come la settima potenza militare del mondo. Una considerazione che in parte spiega i continui bombardamenti israeliani sui depositi di armi di Hezbollah in Siria e le ripetute violazioni da parte sionista (più di 11.000) degli accordi presi dopo il cessate il fuoco del 2006.
Non è dunque da escludere che si miri anche a destabilizzare il Libano ed a rovesciare la presidenza di Michel Aoun, cristiano maronita ma molto vicino al Partito di Dio. Hezbollah, in fin dei conti, ha rovinato i piani sionisti di creazione della “Grande Israele”, secondo i quali l’annessione del sud del Libano, con le sue ingenti risorse idriche, sarebbe legittimata da alcuni passi del Vecchio Testamento per cui quell’area era proprietà dei discendenti della tribù di Aser, figlio di Giacobbe. Uno smembramento del Medio Oriente su base confessionale andrebbe a tutto vantaggio di Israele, mai stato così sicuro come in questo periodo di scontri militari e cospirazioni geopolitiche nella regione, e del rinnovato progetto egemonico statunitense. Il progetto di costituzione della cosiddetta NATO araba farebbe da semplice corollario a tale volontà egemonica garantendo, allo stesso tempo, la permanenza al potere di regimi ambigui la cui legittimità deriva dal mero allineamento al consesso economico-finanziario globale.
fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/linganno-della-nato-araba-usa/
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