Tito Boeri e l’immigrazione: l’assenza di spiazzamento
di SINISTRA IN RETE (Alessandro Vissalli)
Il 19 luglio il Presidente dell’INPS, Tito Boeri, ha tenuto un’audizione informale presso la Commissione Migrantidella Camera dei Deputati (qui il link all’evento). Il messaggio che propone, rispondendo anche ad alcune delle numerose critiche che gli sono giunte in seguito alla pubblicazione del XVI Rapporto annuale dell’Istituto di alcuni giorni fa è che bisogna, per salvaguardare l’equilibrio dei conti della previdenza nel medio periodo, regolarizzare quanti più lavoratori immigrati possibile, in parte sottraendoli all’attuale condizione di lavoro nero causata dal loro status di clandestini.
In linea generale andrebbe promossa da ora in avanti una immigrazione regolare e mirata ai settori di maggiore utilità. Il resto lo farà il mercato. Viceversa chiudere le frontiere, costringendo tutti i migranti a introdursi come “richiedenti asilo”, anche quando non ne hanno i requisiti, con l’effetto di stazionare a lungo in una condizione giuridica che gli impedisce la stabilizzazione, ha effetti solo negativi, perde le opportunità che pure l’immigrazione potrebbe garantire, e potrebbe in prospettiva addirittura “distruggere il sistema di protezione sociale”.
Il calcolo è semplice (come diremo, nel senso di semplicistico): oggi gli immigrati regolarmente impiegati versano all’Inps un complessivo importo di 8 Mld all’anno e ricevono complessivamente prestazioni per ca. 3 Mld. Dunque in questo momento, a causa della età media giovanile, si determina un saldo positivo per le casse dell’Istituto di ca. 5 Mld all’anno, di cui ca 0,3 Mld versati da persone che sono di passaggio e non matureranno mai i termini per un versamento pensionistico. Essendo ca. 3.000.000 se ne deduce che versano in media 2.600,00 €/anno cadauno.
Ma secondo Boeri questo calcolo può essere esteso all’insieme della spesa pubblica e resta positivo (anche se solo di 1,2 Mld).
Il calcolo dell’Inps, si scopre ascoltando al min. 7.30 della registrazione dell’evento sulla Web Tv della Camera si fonda sull’aggiornamento delle previsioni demografiche dell’Istat per il 2016 che, secondo il nostro, vedono una prospettiva di calo dell’immigrazione che si stabilizzerebbe su livelli inferiori agli anni passati (da 230.000 a 155.000 ingressi annui), come sarebbe in calo l’intera popolazione.
Questo calo dell’immigrazione (vedi anche min. 9.01) secondo una simulazione della Ragioneria Generale dello Stato avrebbe effetti negativi su Pil e produttività. Dunque la simulazione dell’Istituto si basa su questa ipotesi di completo azzeramento dei flussi di immigrati regolari, ovvero della loro crescita, e su un valore stabile di 140.000 ingressi all’anno con il 5% di uscite (min. 10.00). Già qui si manifesta un problema nell’uso delle stime e quindi della base di input nel modello di simulazione (sul quale non ha fornito particolari metodologici); infatti nel rapporto Istat si legge, a dire il vero: “Nella stima della popolazione residente attesa per l’Italia un contributo determinante è esercitato dalla previsione delle migrazioni con l’estero.
Il saldo migratorio con l’estero è previsto positivo, essendo mediamente superiore alle 150 mila unità annue (133 mila l’ultimo rilevato nel 2015) seppure contraddistinto da forte incertezza. Non si esclude l’eventualità, ma con bassa probabilità di concretizzarsi, che nel lungo termine esso possa diventare negativo”. La bassa probabilità diventa insomma certezza.
Anche le previsioni della Ragioneria (cfr, p.7) sono assunte a legislazione invariata, ma questa compie egualmente l’esercizio impressionante di previsione fino al 2070 (spesa pensionistica ridotta rispetto al Pil al 13,1% dal 16,3 che rappresenta il tetto al 2044). Dalla tab 1 si legge che il flusso netto di migranti è stimato tra i 155.000 dell’Inps (dato minimo, come abbiamo visto) al 360.000 di Eurostat 2013 con tendenza a decrescere.
Come d’uso in questi modelli (che non si stancano di sbagliare sistematicamente) dal momento t0 in poi tutto piega verso l’alto. L’ottimismo non è del resto il sale della vita?
In particolare farei notale l’ineffabile fig. 1.4 “tasso di occupazione”, che è in calo nella parte storica, ma improvvisamente da oggi salirà verso gloriosi orizzonti, addirittura superiori agli splendenti anni novanta (ma non stupisce, perché la fonte sono i documenti di previsione e programmazione del governo).
Su queste esili basi Boeri costruisce un castello di ragionamenti che veste del roboante termine di “evidenze empiriche” (mostrando la debolezza epistemologica della sua disciplina). Come vedremo “l’evidenza” dipende invece dalla teoria, e infatti avendo davanti agli occhi la più marchiana di queste non la vede, e la relega in una piccola glossa al termine del discorso: riducendola a frammento privo di senso.
Nel produrre il suo castello, comunque, Boeri ci fornisce alcuni mattoni: a base della stima del gettito e della simulazione sono posti (min. 10.59) lavoratori regolarizzati che guadagneranno da 2.700 € all’avvio fino a 9.500 euro al termine del percorso di carriera, crescendo del 1,5% all’anno. Sembrerebbero numeri alti, se non si fa caso che si tratta di reddito cumulato annuale, non mensile. Al termine di una vita di lavoro gli immigrati regolari e attivi guadagneranno meno di 1.000 euro al mese, e tassati al 33%. In sostanza importiamo persone per tenerle per tutta la vita in condizione di assoluta povertà.
Questa montagna di povertà è comunque per lui un beneficio per il paese, o meglio per l’equilibrio di cassa dell’Inps; perché prima pagano, e per decenni, e poi fruiscono delle pensioni, quindi perché alcuni se ne andranno nel frattempo (lasciando il gruzzoletto nelle felici mani dei nostri), e infine perché molti muoiono prima (il buon Boeri ha avuto cura di comunicarci che vivono in media di meno). In ogni caso andranno per lo più in pensione a partire dal 2050 e in alcuni casi dal 2075 (min. 12.34).
Per questo alla fine la posizione è positiva di 36 Mld.
Per massimizzare questa sorta di estrazione di risorse dalla disperazione dovremmo, quindi, riavviare i “Decreti flussi” (sospesi dal 2012, min. 14.10), e forse avviare qualche sanatoria, grazie alle quali in passato gli immigrati regolari e lavoranti sono passati in venti anni da 500.000 a 3.000.000. Secondo quanto racconta Boeri si è trattato di una crescita forte nei primi anni e che oggi si sta arrestando (quella dei regolari) a vantaggio dei lavoratori clandestini ed a nero.
Dunque, arriviamo al punto: se in un sistema a ripartizione c’è un calo della forza lavoro, perché cala la natalità, e contemporaneamente aumenta la longevità, quindi la spesa per pensioni, si va in sofferenza. Per questo, come dice, “l’entrata di migranti regolari permette di aumentare immediatamente la popolazione dei contribuenti” (min. 19.30), mentre le pur necessarie politiche per la natalità li aumentano dopo venti anni. Qui salta all’occhio subito un’assenza che si confermerà fino alla fine: i disoccupati.
La popolazione dei contribuenti può aumentare solo in due casi, secondo il nostro, o con nuove nascite o con nuovi arrivi. Evidentemente tutti quelli che sono già in Italia lavorano o non vogliono farlo. Può sembrare strano a chi cammini nelle strade, senza disporre dei privilegi del nostro, o anche a chi dia un’occhiata distratta a questi grafici.
Dopo questo snodo della demografia, arriva la risposta all’obiezione sullo spiazzamento dei lavoratori italiani da parte dei migranti. Vale la pena di seguirlo con qualche attenzione, dice (min. 22.33): “non c’è affatto evidenza empirica di questo. I lavoratori che sono stati regolarizzati con le sanatorie non hanno sottratto opportunità ai loro colleghi. Le analisi condotte evidenziano che la probabilità di separarsi da un’impresa per i colleghi degli emersi è pari al 41%, se l’impresa cresce aumenta solo del 1%.
L’effetto di spiazzamento è dunque molto piccolo e riguarda i lavoratori con qualifiche basse”. Dunque non c’è spiazzamento perché le persone già occupate (anche qui i disoccupati sono invisibili ed ognuno è pagato per quel che vale), quando l’impresa cresce, non tendono a perdere il lavoro. Anche se fosse vero (bisognerebbe vedere campione e modalità di definizione dei termini della ricerca), si tratta di un caso molto particolare. Diciamolo così: secondo le nostre indagini non c’è evidenza di una significativa propensione delle imprese a licenziare i loro lavoratori stabilizzati per sostituirli con immigrati quando crescono.
Questo è possibile, infatti Robert Solow, di cui dopo diremo, formulò la sua “teoria dei salari di efficienza” per dare conto dell’evidenza secondo la quale molte imprese pagano salari più alti del necessario (ovvero di ciò che potrebbero) per proteggere efficienza e fedeltà dei lavoratori. Simili imprese esistono ancora (ed in tutti i settori, anche se in alcuni sono in netta diminuzione).
Per i lavoratori qualificati, invece, la solita “evidenza empirica” dice che non ci sono effetti. E quindi non ci sono relazioni tra l’immigrazione e l’emigrazione dei nostri connazionali, dato che questi sono mediamente più qualificati.
È comunque sorprendente questa affermazione (ma solo per chi non fa mente locale agli assunti teorici dell’economia marginalista), quando immediatamente dopo Boeri conferma che la gran parte degli immigrati regolari si concentrano nella categoria degli operai (in particolare edili) e in quelle degli alberghi e ristorazione; settori dove si registra un gap salariale a loro danno del 15% (min 24.45).
Sembrerebbe una classica “evidenza empirica”, no?
In particolare quando il Presidente dell’Inps dice che (min 24.19) che in questi settori si registra anche una “riduzione dei nativi” ed una contemporanea “crescita dei migranti”.
Quale evidenza migliore di una sostituzione?
Ma se si parte dalla posizione teorica (come dovrebbe sapere chi ha letto almeno un solo testo di filosofia della scienza, osservazione e teoria sono sempre intrecciate) che la disoccupazione non esiste e non può esistere, in quanto il mercato offre sempre tutti i lavori che servono al prezzo che risulta giusto in funzione della produttività marginale, allora è chiaro che “sono gli italiani che non fanno più quei lavori [a quei prezzi], più che essere gli immigrati che spiazzano gli italiani”.
Diciamolo in un altro modo: i migranti offrono una quantità di “lavoro” adatta per quantità e qualità alle caratteristiche della relativa domanda. Gli italiani (“bamboccioni”, evidentemente) vorrebbero essere pagati di più, irragionevolmente. E quindi, giustamente non lavorano. Ma non possono essere davvero considerati disoccupati, perché nel termine entrano a rigore solo quelli che lo sono involontariamente. Chi rifiuta di essere pagato secondo il suo contributo marginale (che per definizione è quello che l’ultimo lavoratore accetta) è volontariamente senza lavoro.
Nella teoria marginalista (che è un fatto nella mente di Boeri), formulata per la prima volta nel 1870, ogni produttore riceve sempre un reddito (che sia salario, rendita o profitto) esattamente commisurato all’apporto che il suo “fattore produttivo” reca alla produzione. In sostanza l’assunto di base è che se il prezzo di un bene cala (ad esempio di un’ora di lavoro), ciò farà infallibilmente aumentare la domanda, perché sarà quello il livello al quale siamo disposti a comprarlo.
Infatti Boeri non cita neppure una volta, in quasi un’ora di comunicazione, la parola “disoccupati”. Per lui, evidentemente, siamo comunque in condizioni di pieno impiego. Ovvero abbiamo, secondo il gergo di Milton Friedman, un tasso di “disoccupazione naturale” adeguato. Ciò con il 40% di giovani italiani a casa a guardare i film o a chattare sui telefonini.
Una frettolosa controprova (a dimostrazione che il nostro è cosciente della debolezza delle sue “evidenze”) la fornisce al min. 25.40: “l’immigrazione è aumentata proprio negli anni in cui la disoccupazione diminuiva”. Ora, a parte che aveva appena finito di dire che l’immigrazione era in calo, i dati sul calo della disoccupazione, volonterosamente forniti dall’Inps per giustificare il Job Act, non considerano che contemporaneamente è cresciuta la quota di “inoccupati” (ovvero di chi non cerca neppure lavoro, o meglio non lo ha cercato delle settimane precedenti alla rilevazione campionaria). Ma si sa, sono tutti “bamboccioni”.
Addirittura, arriva a dire che “l’aumento dell’occupazione dei migranti su basse qualifiche fa aumentare i salari dei nativi, spingendoli su occupazioni più qualificate”. E si capisce, se non c’è disoccupazione dovranno lavorare per forza, e trovando i lavori a basso salario occupati lavoreranno meglio. Di qui la sua conclusione: abbiamo bisogno di convertire tanti più lavoratori irregolari in regolari, a partire da quelli che ci sono già.
Per interrogarci su questa compatta posizione, che giunge a conclusioni che possono anche essere accettate per una via piena di trappole, può essere utile riguardare la critica che un altro grande economista neoclassico (dunque non un pericoloso estremista) come il premio nobel Robert Solow, scrisse nel 1998 in risposta alle politiche attive del lavoro che Clinton aveva promosso, con poco dibattito e molta retorica, nel 1996. Quelle politiche che sono il cavallo di battaglia con il quale anche Tito Boeri (a partire da un suo studio del 2000) ha costruito la sua carriera.
Il libro è “Lavoro e Welfare”, e lo abbiamo letto qui. Solow è un grande specialista, il più grande del campo, e nel 98 nelle Tanner Lectures attacca frontalmente l’intera logica della costruzione secondo la quale rendere precaria la condizione di vita delle persone incentiva il mercato del lavoro. Io non concordo con molte delle affermazioni del nostro (in particolare sulla sua visione dell’umano egoismo e dell’economia dell’altruismo) e con il suo modo di ragionare geometrizzante, ma concordo che “non basta che i cani randagi si comportino come cani da riporto perché la selvaggina cominci ad abbondare”, la domanda conta.
Il caso che viene illustrato nella seconda lezione è quello in cui il mercato del lavoro viene ampliato con l’immissione forzata (perché sono sottratti i sussidi e le persone sono messe di fronte all’alternativa di morire di fame) di nuovi lavoratori disperati. In questo caso, che è strutturalmente uguale a quello in cui i nuovi lavoratori non sono ex sussidiati ma immigrati, si provocano quelli che chiama “effetti a cascata”. Il lavoro, per Solow, non è infinitamente elastico, non basta raggiungerlo per averlo.
Ciò che succede è che, scrivevamo, la forza lavoro dequalificata, costretta a mettersi in gioco a qualsiasi prezzo, spingerebbe verso il basso i salari dei lavoratori appena più qualificati. Un datore di lavoro potrebbe scegliere di sostituire due lavoratori attivi con tre lavoratori ex –welfare (o immigrati) più economici (ma da formare). Ma questi due, ex lavoratori a questo punto si rimetterebbero in cerca di lavoro sospingendo giù i salari dei lavoratori “di secondo livello” (cioè ancora più qualificati di un piccolo gradino), e li sostituirebbero. Così via fino a qualche livello intermedio nel quale l’onda si smorzerebbe.
Tutto questo “rimescolamento” avrebbe anche implicazioni macroeconomiche, agendo sulla domanda aggregata e sugli altri fattori strutturali dell’economia (inclusa la produttività e l’attitudine all’innovazione, entrambe danneggiate), ed avremmo alla fine “un’economia con un salario complessivamente più basso”. Cosa che è probabilmente lo scopo originario di alcuni nella manovra.
In altre parole Robert Solow trae la conclusione esattamente opposta a quella di Tito Boeri: i salari scendono, non salgono.
Naturalmente Boeri pensa, al contrario di Solow, che la disoccupazione (che è sempre “volontaria”) è determinata dal mancato incontro tra la disponibilità a pagare secondo il contributo marginale dalle imprese e una richiesta irragionevole di salari “troppo alti”. Far aggiustare i salari, aumentando la competizione, è quindi la strada per la piena occupazione.
Resta a casa solo chi lo vuole.
La soluzione di Solow era che “bisognerà deliberatamente creare un adeguato numero di posti di lavoro per gli ex assistiti, o attraverso una qualsiasi forma di impiego nel settore pubblico, o attraverso l’estensione di speciali e sostanziosi incentivi al settore privato (profit e no profit)” (p. 43). E farlo “in quantità, localizzazione e forma adatti alle persone che dovranno occuparli”.
Ma per farlo servirebbe un ruolo dello Stato che evidentemente Boeri lavora per distruggere. E bisogna uscire dalla logica della svalutazione del lavoro che lo vede da quindici anni tra i più decisi alfieri.
Dunque, ricapitoliamo: la questione è interamente contenuta nella tesi che non c’è spiazzamento. O per dirlo meglio, che questo è limitato e relativo solo a qualche lavoro poco qualificato. Nella logica interamente a breve termine di Boeri la cosa si spiega se si definisce lo spiazzamento come la sostituzione di un lavoratore autoctono con uno immigrato a parità di condizioni e salario accettato. In questi termini lo spiazzamento è minimo (a parità di condizioni si tende a scegliere un connazionale, per diverse ragioni ambientali che possono anche essere diverse dal semplice razzismo, diciamo che è più adattato all’ambiente di lavoro).
Mentre quando un lavoratore non autoctono si rende disponibile per lavorare in condizioni di minore costo diretto ed indiretto (ovvero con meno diritti e sicurezze), nella logica di Boeri, non c’è spiazzamento ma normale funzionamento del mercato e beneficio sociale; dato che questi produce la stessa quantità di “lavoro astratto” con minor costo. Nella prospettiva teorica dell’economia marginalista non c’è del resto, per definizione, sfruttamento (ogni fattore è sempre pagato al suo beneficio marginale) e una maggiore efficienza si traduce sempre in risparmi (dell’imprenditore) e questi in investimenti.
Dunque nella sua prospettiva si ha un vantaggio immediato dall’abbassamento medio del costo del lavoro per i fattori più abbondanti, non c’è qui alcun problema e resta solo il tema dell’equilibrio di cassa immediato dell’ente che dirige.
Come ogni dirigente, in fondo disinteressato dei guai che lascia al successore (e come tutto lo short terminism dell’economia contemporanea), quindi, avere sempre più giovani che pagano contributi e che in alcuni casi hanno l’ulteriore vantaggio di tornare a casa prima di maturare la pensione, è un saldo positivo. Pazienza se la tendenziale riduzione dei salari (che comunque nega), e l’incremento della disoccupazione autoctona (che è fuori del suo orizzonte teorico), determina una dinamica demografica sfavorevole che nel tempo esaspererà il fenomeno. Del tempo, come di molte altre cose, Boeri in realtà non si occupa, il mercato produce il suo equilibrio.
E peccato anche se le rimesse all’estero sono mancata domanda interna e sbilancio commerciale, questo è un problema di un altro ufficio. Solo su una cosa ha ragione: non si possono accogliere migranti economici con le sole procedure dei richiedenti asilo, lo Stato deve prendere una decisione.
Ma per questo servirebbe un Piano industriale, ed una franca discussione pubblica. Ciò che del tutto manca.
Inseguendo gli equilibri contabili del momento.
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