Silvio Garattini: “Metà dei farmaci in commercio oggi sono del tutto inutili”
di CRISTINA SERRA
Silvio Garattini, fondatore nel 1963 e direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, che oggi conta tre sedi – a Milano, Bergamo e Ranica (Bg) e oltre 950 unità di personale – è una delle massime autorità mondiali in farmacologia, cancerologia e chemioterapia e immunologia dei tumori. È stato membro, fra gli altri, del Comitato di biologia e medicina del Cnr, del Consiglio sanitario nazionale e Commissione della presidenza del Consiglio per la politica della ricerca in Italia, e della Commissione unica del farmaco del ministero della Salute. Da sempre critico nei confronti delle cure mediche “alternative”, è altresì critico verso l’eccesso di medicalizzazione cui stiamo assistendo oggi in Italia. Nell’intervista all’Espresso spiega perché.
Professor Garattini, quali sono a suo parere le cause principali dell’ipermedicalizzazione?
«Ci sono importanti interessi economici, ma concorre al fenomeno anche una pesante asimmetria dell’informazione. Chi vende fa pressione sui gradini inferiori della piramide, e chi acquista non è abbastanza informato. Questo vale sia per il Ssn che, ancor di più, per il cittadino. Cercando notizie in rete, su siti generici, non si trovano informazioni veramente utili per decidere obiettivamente. Informazioni che andrebbero date fin dai primi anni di scuola».
Quali fattori favoriscono il ricorso eccessivo ai farmaci: la presenza di molecole “me too” (nuovi farmaci simili ad altri già presenti), il marketing delle case farmaceutiche o i medici che prescrivono on demand?
«Tutti questi elementi contribuiscono a determinare la situazione. Anche se credo che alla base di tutto ci sia il fatto che la società si è dimenticata che la scienza è, in realtà, parte integrante della cultura, intesa non solo come sapere, ma anche come capacità critica. In Italia, sembra che il concetto di cultura si applichi solo alle lettere, alla filosofia o al diritto. La scuola non vede la scienza come elemento culturale forte, non insegna principi scientifici che permettano di stabilire con relativa certezza se un farmaco serve o no, se esiste un rapporto di causa-effetto o quali sono i rischi e i benefici. Per questo la gente è meno capace che altrove di individuare principi guida cui ispirarsi per valutare le situazioni».
Perché non accettiamo più di vivere con il rischio di ammalarci?
«Siamo vittime della pubblicità e siamo convinti di poter vivere in eterno, evitando qualsiasi rischio di malattia, perché la pubblicità promette cose non vere. A forza di sentire che un certo farmaco serve, ci crediamo davvero. Ma così diventiamo tutti pazienti a rischio».
Dove si prescrive in eccesso: con i tumori, con le malattie mentali, o con disturbi minori, quelli con cui, in definitiva, si può continuare a vivere decentemente?
«La medicalizzazione più spinta è nella diagnostica, perché oggi si prescrivono moltissimi esami ematochimici e funzionali inutili. Non a caso si parla di medicina difensiva, perché il medico dimostra così di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per inquadrare quel paziente. L’Italia è tra i paesi in cui si eseguono più Tac e risonanze magnetiche. E lo stesso succede con i test genetici, dove la scoperta continua di nuovi marcatori nel Dna porta a esagerare la prescrizione di test. Test del tutto inutili, perché nella maggior parte dei casi trovare un “difetto” genetico non impone di passare alla terapia, dato che non tutte le mutazioni nel genoma portano a patologia. Ma anche perché spesso una cura proprio non esiste».
Può fare qualche esempio di trattamento terapeutico inutile?
«Ce ne sono molti. L’assunzione di farmaci usati per malattie croniche (come le statine o gli antipertensivi) da parte di pazienti terminali cui questi farmaci non portano beneficio; l’ozono per l’artrite, gli ultrasuoni per i disturbi muscolari, le camere iperbariche usate per disturbi per i quali non ci sono evidenze di miglioramenti. Rientra in questo elenco anche l’abuso degli integratori alimentari, privi di prove di efficacia. Nessuno dice che non fanno nulla, che basterebbe cambiare stile di vita per stare meglio».
Molti farmaci, soprattutto antidepressivi, sono prescritti spesso in combinazione, nonostante prove della loro inefficacia combinata. Perché l’Ema non interviene?
«L’Ema non interviene perché l’attuale legislazione, facendo il gioco delle case farmaceutiche, chiede che un farmaco possieda caratteristiche di qualità, efficacia e sicurezza. Invece, andrebbe considerato anche il valore terapeutico aggiunto, cioè come quel farmaco si posiziona nel mercato in termini di “valore complessivo”, rispetto a farmaci preesistenti. Questi ultimi, se si dimostrano inutili, andrebbero eliminati. Invece in Italia sono passati 24 anni dall’ultima revisione del prontuario terapeutico, quando erano stati eliminati farmaci (non necessari) per un giro di vendite pari a 4.000 miliardi di vecchie Lire di fatturato».
Quali farmaci eliminerebbe oggi, se potesse?
«Sui circa 12 mila oggi in commercio ne eliminerei almeno il 50 per cento».
Tre azioni che dovremmo fare per iniziare a cambiare questo stato di cose.
«Smettere di inventare mongering diseases, cioè malattie che non esistono e che servono solo a vendere farmaci. Avere il coraggio di cambiare l’approccio alle polipatologie, specie nell’anziano, dove l’assunzione anche di 10 farmaci non migliora lo stato di salute perché non sappiamo come i farmaci interagiscono fra loro. E ridare allo Stato un po’ più di potere rispetto alle Regioni, migliorando l’informazione pubblica e rendendola capillare e corretta sin dall’infanzia. Non possiamo guarire tutto con i farmaci, ma buoni stili di vita possono evitare l’impiego di molti farmaci».
fonte: espresso.repubblica.it, 21.12.2012
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