I miti della scienza
di CRITICA SCIENTIFICA (Giorgio Masiero)
La scienza si oppone al mito, o piuttosto alcune sue teorie si basano su principi che altro non sono che nuovi miti?
Il mito, dagli albori dell’umanità, non è mai stato una favola per bambini, ma lo strumento con cui un popolo ordina la realtà, che altrimenti gli apparirebbe un turbinio d’immagini senza senso, e così può abitare il mondo, organizzare le sue istituzioni e crearsi un’identità. Nel racconto di come ebbero origine gli astri e la terra, le piante, gli animali e gli uomini, e di quali eroi abbiano istituito le regole della società in cui si trova a vivere, un popolo trova il suo posto nel mondo. Il mito (dal greco mýthos, racconto sacro) è la narrazione intoccabile della storia passata e presente d’un popolo, ed anche del futuro che immagina per sé.
La scuola e i media invece, inseguendo Comte, c’istruiscono ad attribuire l’origine e la persistenza del mito all’ignoranza dell’uomo antico che, succube dell’incontrollabilità delle forze naturali, si sarebbe rifugiato in esso per sfuggire all’ansia e al terrore. Oggi non è più così, canta la dottrina “positiva”: noi viviamo nell’età moderna, l’ultimo stadio della storia in cui la scienza, dandoci la vera conoscenza della realtà e il dominio sulla natura, rende obsoleto il mito e discioglie le identità etniche nell’umanità globalizzata.
La scienza come opposizione al mito, ci dicono: ma è davvero così? o piuttosto anche gli scienziati possono essere moderni vati, cantori di narrazioni atte a interpretare l’esperienza secondo lo Zeitgeist? Sta alla filosofia il giudizio sulla scienza e i suoi principi, che sono gelosamente custoditi dagli esperti. In questa operazione di “disvelamento” (che è la parola greca per verità, à-létheia, e tramanda l’insegnamento che la verità si cela e che per intravederla occorre incidere la superficie), la scienza è spogliata dell’aura magica e torna ad essere un artefatto umano come altri.
Un’occhiata alla storia politica, economica e tecno-scientifica dell’Occidente dimostra che alcuni pochi miti, i cosiddetti paradigmi kuhniani, precedono la scienza in epoca moderna, proprio come altri la precedevano in antichità (e altri ancora la precederanno in futuro).
I miti eccedono la dottrina, così come le cause comprendono gli effetti e gli originali le copie. E la scienza non libera dal mito, ma con la potenza della tecnica v’immerge i suoi cultori fino a non vederlo, in esso risiedendo la perla del mistero come nel naòs del tempio. Cosicché tutti, credenti e non, costruttori e iconoclasti, saggi e folli, abbiamo i nostri miti, anche chi nega di averne. Solo abbiamo miti diversi, più e meno coerenti, ed una diversa o nulla consapevolezza di possederli.
I grandi miti della scienza moderna sono tre: il meccanicismo, l’evoluzionismo e l’emarginazione dell’umano. E, altrettanto degli dei di Omero, sono inconsistenti e utili soltanto alla conservazione sociale.
Il meccanicismo è l’idea donataci da Cartesio d’un mondo-macchina fatto come un orologio, che era nel ‘600 la macchina per antonomasia. Per il meccanicista ciò che la scienza osserva è pura materia, res extensa, le cui parti interagiscono attraverso forze attrattive o repulsive e dove il moto complessivo è stabilito dalla disposizione delle parti. Il successo del riduzionismo meccanicistico è stato spettacolare: dalla pubblicazione dei “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica” (1687) di Newton fino agli inizi del XX secolo, esso fu considerato la chiave per aprire i cassetti dei segreti della natura, dal moto degli astri al funzionamento degli atomi.
Lo schema si è esteso ben oltre la meccanica, fino ad abbracciare l’elettromagnetismo prima e la fisica dei quanti poi, anche se né l’uno né l’altra possono essere rappresentati in termini meccanici. Neanche la rivoluzione di Einstein, che buttò all’aria gli assiomi di Newton, ha ammazzato il paradigma: la relatività descrive, per mezzo di un sistema di equazioni differenziali, un universo che è ancora parzialmente meccanico in quanto predicibile come un meccanismo.
La falsificazione definitiva del meccanicismo si è avuta solo con la meccanica quantistica, che – a riprova della validità di un mito più antico, quello platonico della caverna – è chiamata “meccanica” anche se non è una meccanica. Le coordinate e le velocità, che nella fisica classica erano numeri determinati univocamente (almeno in linea teorica) dalle equazioni del moto, diventano in fisica quantistica operatori che, dalle canoniche regole di commutazione, estraggono solo una conoscenza probabilistica delle osservabili del sistema e della loro evoluzione temporale. Il vuoto quantistico poi – un ente dotato di proprietà fisiche, ma privo di struttura spazio-temporale – annacqua i concetti di corpo isolato, località e causalità.
Attraverso il vuoto, la storia dell’universo invischia tutti i fenomeni (entanglement), in particolare quelli compresi nella zona mesoscopica della biologia, dove le condizioni al contorno pesano come le leggi d’invarianza. Non che la fisica quantistica dei campi sia l’ultima parola: c’è tanto lavoro da fare per i giovani fisici teorici che vogliano eliminare la sua incoerenza con la relatività generale e rimediare al disastro dell’attuale discrepanza tra teorie e dati, ma è pacifico che un ritorno al meccanicismo è escluso.
Il secondo mito, quello evoluzionistico, ha avuto invece una storia di fallimenti fin dall’inizio, perché non ha mostrato alcuna capacità predittiva, né applicativa. Esso è un caso unico nella storia della scienza naturale per questa sua nullità epistemica, tecnologica ed economica. Come si spiega che un postulato metafisico, ammantato di vesti scientifiche, abbia goduto di così calorosa e duratura accoglienza in ambito accademico? Darwin partì dall’ipotesi che le specie esistenti derivino da una o poche specie primitive attraverso catene di discendenza estesesi per milioni di anni. Anche tralasciando i meccanismi attraverso cui si sarebbe prodotta la differenziazione, è chiaro che Darwin concepì l’evoluzione biologica come un processo graduale che coinvolse innumeri forme intermedie, molte se non la maggior parte delle quali dovrebbe essere registrata nei reperti fossili. Invece, eccezion fatta per una manciata di campioni molto dubbi, non c’è traccia di tipi intermedi.
Stephen J. Gould abbandonò il continuismo darwiniano proprio per questa ragione: “La maggior parte delle specie non mostrano alcuna mutazione durante la loro esistenza sulla terra. Esse appaiono nei reperti fossili sempre uguali a quando spariscono; i cambi morfologici sono solitamente limitati e senza una direzione”. Normalmente in scienza sperimentale questa lacuna basterebbe a falsificare il mito, e già Darwin si era rassegnato all’eventualità, in assenza di nuove scoperte fossili… Non Gould però, che rimase darwinista fino alla morte, né la biologia maggioritaria dei nostri giorni, secondo cui il “fatto” dell’evoluzione sarebbe accaduto a tal velocità ed in così specialissime condizioni che le forme intermedie sarebbero sparite senza lasciare traccia. L’evoluzionismo passa l’esame di Popper come i raccomandati i test di ammissione: non gli è permesso di fallire!
Matematicamente poi, l’evoluzione “si sostiene su dozzine e dozzine di migliaia di miracoli” (Marcel-Paul Schützenberger). Lo capisce anche un bambino. Consideriamo il flagello batterico, una sorta di remo usato dai batteri per muoversi nell’acqua e mosso da una macchina rotatoria molecolare alimentata da un acido. A seconda del microbo, il funzionamento coinvolge diverse decine e anche centinaia di tipi di proteine, che devono essere tutte presenti contemporaneamente al loro posto di lavoro perché il flagello svolga la sua funzione.
Questo è l’esempio più “semplice” di ciò che Schützenberger chiamava “complessità funzionale”: un sistema organizzato di molte componenti, interagenti tra loro così da svolgere una funzione e tali che la mancanza di una sola componente impedisce al sistema di svolgerla. Questa nozione è cruciale per capire perché il darwinismo è un insieme infinito di miracoli. Tuttavia essa non avrà alcun peso per un darwinista, perché il mito è l’ultima cosa cui un uomo può rinunciare.
Naturale quindi che la Società italiana dei biologi evoluzionistici scelga a presidente non un ricercatore di un laboratorio chimico-biologico e nemmeno un fisico o un matematico, ma un filosofo con spiccate doti divulgative. I miti quanto più sono implausibili tanto più reclamano retori affabulatorî. E si capisce che i dipartimenti di biologia organizzino per gli studenti lezioni tenute da un giornalista, fan di Tolkien e scrittore di fantascienza. Per questo romanziere, l’idea di anelli mancanti nella catena fra le grandi scimmie e l’uomo è “ingannevole”, fraintende il “funzionamento vero” dell’evoluzione e, infine, supporta tutta “una serie di narrazioni errate sul posto che l’uomo occupa nell’universo”.
Le peculiarità dell’essere umano dal bipedismo al linguaggio simbolico sarebbero tutti “errori” di trascrizione del DNA e l’evoluzione accaduta sarebbe stata solo una possibilità tra tante equiprobabili: “la Verità” – con la V maiuscola, precisa questo Signore degli anelli mancanti – starebbe nel “tempo profondo dell’evoluzione, un infinito corridoio buio, senza alcun segno che marchi una scala di riferimento” e dove può succedere di tutto. Compresa la serie di miracoli, chioso io, che non sono fatti accaduti in un “infinito corridoio buio”, ma fantasie assegnate ad un intervallo finito di 10^17 secondi, misurato dalla paleontologia e dalla fisica del carbonio.
Il terzo mito della scienza sta nel nocciolo del Principio cosmologico. Le equazioni della relatività e i dati astronomici non sono sufficienti a determinare la struttura globale dell’universo fisico, ne uscirebbero infiniti mondi diversi. Servono ipotesi addizionali, se vogliamo disporre di ufficiali incaricati di narrare la genesi “scientifica” del mondo reale in cui abitiamo. Seguendo Einstein, questi ufficiali, titolati cosmologi, adottano il postulato di uniformità spaziale nella distribuzione della materia.
Ovviamente non un’uniformità rigorosa: qua c’è una stella (con la sua densità), là un pianeta (con un’altra densità), qua c’è un buco nero (con un’altra, altissima densità) e là il vuoto (con densità quasi pari a zero). Ma su larga scala, in media, essi predicano che il cosmo è come un gas di molecole, con una densità costante di tanti grammi per metro cubo. È questo “il vero Principio copernicano” – come lo chiamò il cosmologo Hermann Bondi – e non la storiella che s’insegna ai bambini sulla Terra che gira intorno al Sole. Ed è chiamato copernicano con piena ragione perché, anche se Copernico non sapeva nulla di densità spaziale media della materia, esso costituisce l’ultimo ripudio del geocentrismo e così porta a termine la rivoluzione intrapresa a suo tempo dal canonico polacco su… osservazioni astronomiche? No, su assunzioni teologiche neoplatoniche.
Altrettanto metafisiche sono le origini del Principio cosmologico: se l’universo a grande scala è dichiarato privo di struttura e di organizzazione e soggetto solo a fluttuazioni locali rispetto alla sua densità media come se fosse un gas, ciò non è la fine d’una catena di deduzioni derivanti dalle osservazioni astronomiche, ma è il principio – il Principio fondamentale della cosmologia – con cui la teoria interpreta i dati.
Quando Telmo Pievani, nella sua lettera aperta del 2013 a Enzo Pennetta, scrisse che “il non senso dell’evoluzione, cioè la sua mancanza di una direzione finalistica, appare a mio avviso limpidamente dalle conoscenze scientifiche attuali”, fece la stessa confusione tra ipotesi iniziali e conclusioni finali: l’ipotesi sposata dai darwinisti che il motore dell’innovazione biologica sia il caso implica necessariamente la conclusione del “non senso dell’evoluzione”. Le tesi che certi filosofi, biologi e cosmologi proclamano di dimostrare, non sono altro che le ipotesi da cui sono partiti e ciò che credono di ricavare dalle “conoscenze scientifiche” proviene soltanto dai loro pre-giudizi.
Einstein propose di estendere anche al tempo il principio di uniformità. Accortosi poi che le equazioni di campo non ammettono la stabilità d’un universo a-temporale, eterno, che collasserebbe invece sotto la gravità, le corresse con un termine addizionale, la costante cosmologica Λ. Presto però, un matematico sovietico e un prete belga dimostrarono indipendentemente l’esistenza di soluzioni del campo senza bisogno di costanti ad hoc, ma semplicemente lasciando variare nel tempo la densità della materia.
I due avevano predetto l’espansione dell’universo, un cosmo della specie Big bang, e pochi anni dopo Edwin Hubble corroborò la predizione con osservazioni al telescopio. Einstein rinunciò allora al copernicanesimo temporale, scartò la costante cosmologica (“il più grande errore della mia vita”) e si adattò all’idea d’un universo iniziato ad espandersi una quindicina di miliardi di anni fa da una singolarità iniziale.
Non passò molto tempo però, che anche il copernicanesimo spaziale si scontrò coi dati. Oggi il divario tra teoria e osservazioni è diventato abissale, se Halton Arp – un astronomo restio a digerire teorie in contrasto con i dati – può dire: “I cosmologi trascurano le osservazioni che si sono andate accumulando negli ultimi 25 anni e che ora sono divenute schiaccianti”.
Per esempio, si osservano galassie separate da miliardi di anni luce e si misurano velocità relative di allontanamento così basse che sarebbero richiesti centinaia di miliardi di anni – decine di volte l’età stimata dell’universo – per produrre quelle separazioni, se fosse vero il principio di densità uniforme. Un’altra difficoltà: non c’è sufficiente materia nell’universo per generare campi gravitazionali abbastanza forti da spiegare la formazione e la persistenza delle galassie.
Tali incongruenze sono superate dai cosmologi con trucchi che peggiorano le cose. Il problema è che essi non possono rinunciare al principio copernicano, pena la sopravvivenza della cosmologia. Come Kuhn ha bene spiegato, la prima preoccupazione della scienza ufficiale è di preservare il paradigma, di proteggerlo per così dire dai dati ostili. Cosa si fa allora se non c’è abbastanza materia nell’universo? La s’inventa, introducendo qualcosa di misteriosissimo chiamato materia oscura, una sostanza che non interagisce con i campi elettromagnetici e che di conseguenza risulta invisibile. La materia oscura è il provvidenziale god of the gaps che alza il campo gravitazionale ai livelli necessari a salvare il mito…, e con esso i posti di lavoro.
Che poi non una particella di materia oscura sia mai stata osservata non importa. Se fosse osservabile, non sarebbe “oscura”, giusto? Anzi, si è costretti ad introdurre un secondo mistero doloroso, l’energia oscura, stavolta per spiegare l’accelerazione con cui l’universo si espande. Col risultato finale che il 95% di tutta la materia-energia dell’universo diviene “oscura”. Non è ironico che la scienza degli umani pretenda di parlare in nome di tutto l’universo trovandosi a rappresentare appena il 5%? Più antropocentrismo di questo…
A parlare per il convitato di pietra “oscuro”, la cosmologia copernicana resuscita Λ: così, la costante cosmologica prima introdotta dal panteismo di Einstein per narrare un universo senza storia e poi rimossa dall’osservazione di Hubble di un universo con storia, è ora reintrodotta per salvare il paradigma. Una servizievole duttilità, se si pensa che la prima volta Λ doveva servire ad evitare il collasso dell’universo ed ora, con un triplo salto mortale sulla 125ma cifra decimale, fa il servizio opposto di espandere l’universo senza però che le galassie si allontanino troppo.
Il principio copernicano è intimamente connesso con l’ideologia imperante di emarginazione dell’umano. Così nonostante le falsificazioni lo si conserva, anzi lo si estende, come un giocatore accanito che dopo ogni partita persa alza la posta: l’ultima versione è il principio di densità uniforme in media di vita nello spazio, cioè la credenza in un universo pullulante di specie aliene rispetto a cui l’intelligenza della razza terrestre si troverebbe a metà strada. Non importa che in 43 anni il programma SETI patrocinato dalla Nasa abbia dato esito zero, né che nessuno abbia mai incontrato un ET fuori dai set di Hollywood: la prova dell’esistenza di extraterrestri intelligenti è, ha annunciato trionfante un giornalista scientifico al telegiornale qualche giorno fa, che la CIA si occupa di Ufo da decenni. Come dire che la decisione USA d’intraprendere la seconda guerra del Golfo è la prova che Saddam possedeva armi di distruzione di massa.
E se noi uomini siamo una specie d’intelligenza mediocre in un universo popolato (al 33% ostile, per le leggi della probabilità), è giusto che lavoriamo a costruire macchine che ci superino ma al cui servizio possiamo sopravvivere. Che cos’è il transumanesimo in fondo, se non il super-mito che condensa in sé meccanicismo, evoluzionismo e copernicanesimo? Se poi le macchine non potranno mai avere sensibilità e coscienza, poco importa: in un’evoluzione decretata senza direzione, il sorpasso della macchina sull’uomo può avverarsi anche verso il basso, con persone deprivate di umanità e sempre più schiave della tecnica.
Fonte: http://www.enzopennetta.it/2018/01/i-miti-della-scienza/
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