Se qualcuno bussa alla tua porta con l’idea di farti del bene, tu scappa a gambe levate. Così, più o meno, diceva Henry-David Thoreau, un uomo che si era fatto bastare le stelle e la compagnia di se stesso (la più atroce da sopportare). Ma così dovremmo fare noi tutti, darcela a gambe, di fronte alla megamacchina virtuale gestita dall’équipe di pantofolari della californiana Valle del Silicio. Cresciuti a forza di patatine, skateboard, video su Youtube e teste infilate nel gabinetto, questi disadattati si sono messi in testa di fare il nostro bene! Mai idea fu più pericolosa!
Se Rousseau, di cui odiamo l’ingenuità leziosa, sosteneva che l’uomo è naturalmente buono perché è mosso dall’istinto della pietà, noi diciamo che proprio questo istinto – a metà tra una non ben definita empatia universale e una narcisistica volontà di potenza individuale – è la causa di tutti mali. Tutti i filosofi, persino Hobbes, ma anche Kant, a dare addosso all’insocievolezza. Ma è la socievolezza il nostro vizio più grande! Voler entrare per forza nella vita degli altri, condividere le nostre esperienze, modificare la condizione altrui, cambiare le sorti dell’umanità tutta. Ma chi la conosce questa umanità? Fare del bene: a chi? Come? Con quale legittimità? Chi ve lo ha chiesto? Non era questo lo scopo dei dittatori più sanguinari? Cristo non era sceso sulla terra proprio per farsi carico del nostro dolore? E quanto dolore, quante guerre, quanto sangue ha portato a sua volta? Il rude pugno della morale non ha alcun rispetto della nobile essenza dell’egoismo diceva Max Stirner. E allora siano maledetti i benefattori e tutti coloro che si esprimono per bocca dell’umanità.
Così questi guru delle nuove piattaforme sociali si sono preposti questo obiettivo. Vogliono farci del bene. Vogliono suggerirci la felicità! E chi l’ha mai definita, la felicità? Non ci è riuscito Socrate, ma è convinto di esserci riuscito un nerd in pantofole! Mark Zuckerberg, questo moderno Prometeo, ha detto infatti durante il suo discorso ad Harvard che la felicità è un senso di appartenenza a qualcosa di più grande di noi, e che tutti vogliono essere connessi. Tutti quanti, gratuitamente, come una grande tribù universale!
Fatti lo smartphone, costa solo 15 euro al mese! Scaricati quest’App, è gratis! – così gli fa eco l’inebetito fruitore di telefoni intelligenti, ignaro del fatto che più il suo telefono s’ingegna, più lui si istupidisce. È proprio perché è gratis, proprio perché tutta questa truffa dell’iperconnessione sembra disinteressata, che non bisogna cascare nella trappola dei gobbuti e pallidi webmaster con aspirazioni imprenditoriali. Con il volto bonario e benevolo della filantropia ci regalano le piattaforme che poi ci ruberanno, giorno dopo giorno, localizzazione dopo localizzazione, click dopo click, ciò che abbiamo di più prezioso: il diritto, sacrosanto, di essere irreperibili, e soprattutto quello di non sapere che cosa vogliamo, di quale felicità vogliamo vivere.
Basta essere sempre raggiungibili, sempre connessi, sempre sul pezzo. Dio benedica i ritardatari, i fuggiaschi, i clandestini, i titubanti, i desaparecidos del mondo virtuale. Basta essere sempre consigliati, guidati, eterodiretti, influenzati da una carrellata di prodotti, immagini e informazioni che stimolano i nostri organi a una velocità che la nostra intelligenza non riesce a controllare, tanto che dobbiamo arrenderci all’emotività, dobbiamo appaltare la nostra morfologia sentimentale al più istintivo ed elementare dei giudizi: mi piace/non mi piace.
Non ne possiamo più di sapere che gli orsi polari sono in via di estinzione, di vedere i seni turgidi dell’ultima supertopmodel. Noi li vogliamo anche palpare. Non ne possiamo più di credere che il segreto della felicità è in quel viaggio in Thailandia. Noi non vorremo neanche sapere dove sta la Thailandia. Non ne possiamo più di sapere che mentre ci sbattiamo le ore per portare a casa gli scampoli di uno stipendio vero che non arriverà mai, c’è un tipo barbuto che ha mollato tutto – che cosa poi? Che cosa hanno mollato davvero questi santoni vestiti Quechua? – per fare il giro del mondo in bicicletta. Che un altro ha svoltato vendendo succhi di papaya biologici online. Che una ex impiegata di banca ha trovato la felicità grazie alle prestazioni sessuali di un aitante sudafricano sulle sponde di città del Capo. Chissenefrega di questa umanità!
E invece no! Perché fregarsene? È tutto gratis, tutto a portata di click. La felicità è a un passo! Ma la strada della felicità sui social network è lastricata di pop-up pubblicitari. E così se non possiamo permetterci le tette della topmodel o il giro del mondo in mountain bike (perché realisticamente abbiamo altro da fare) dopo averci stimolato, fatti sentire parte di questa brodaglia iperconnessa, per consolarci gli algoritmi funambolici di queste piattaforme ci incoraggiano a comprare qualche surrogato. Magari un due notti sull’appenino a fare un po’ di freeclimbing, magari una escort o un bel fuoristrada 4×4.
Che aspettiamo allora, a rivoltarci in massa, noi annoiati scalatori di pagine virtuali con la sola forza dei nostri pollici logori? Che aspettiamo a fare la più brutta e la meno romantica di tutte le rivoluzioni? Si fa da casa, sul divano. Basta un click. Adesso. Non dobbiamo spintonarci con la ressa dei manifestanti, non ci sono cori da intonare, sanpietrini da lanciare, molotov da bruciare. Non ci saranno celerini né Palazzi d’inverno. Su di noi non sarà fatta violenza. Tutto sarà così poco eroico! Così meschino. Niente epica, niente etica, niente estetica! La nostra presa della Bastiglia è impegnativa quanto una partita a Ruzzle. Cosa è rimasto, infatti, di epico, in questa società, se non gli spot pubblicitari? Intrepidi guidatori di auto sportive mandano a quel paese il proprio capo e sfrecciano sulla Route 666. Ecco l’ultima narrazione eroica. Ma la mitopoiesi degli spot è inversamente proporzionale all’eccezionalità delle nostre vite reali. Gli hashtag camuffano la banalità del quotidiano.
Eppure questa rivoluzione così piccola, pascoliana, sembra impossibile. Sopraggiungono i pensieri, i cattivi pensieri, come puttane della nostra impotenza: – e poi come rimorchierò la tipa disinvolta che ha messo like alla mia foto? Come raggiungerò il ristorantino sull’ostiense? Come conterò i miei battiti cardiaci mentre faccio jogging? Le calorie del pasto? Come ordinerò il sushi a quel povero diavolo che si era comprato la bicicletta per mollare tutto e si ritrova invece con lo zaino di Deliveroo sulle spalle? Come farò a dire la mia sulla vittoria di Mario Mario a X Factor? Come troverò quel buono sconto? Come risponderò alle mail? Come come come…
Utopia delle utopie, è diventata per noi la più piccola, la più misera delle rivoluzioni che un popolo abbia mai dovuto fare. Cancellarsi tutti, adesso, da Facebook e simili. Senza neanche doversi riversare nelle strade. Cancellarsi da Facebook e poi aspettare. Guardare fuori dalla finestra, dove un uomo invasato correrà strepitando:
Facebook è morto e noi lo abbiamo ucciso. Non è per noi troppo grande, la grandezza di questa azione? Che altro sono ancora questi dannati telefoni, se non le fosse e i sepolcri di Facebook?
E così scaraventare contro il muro il nostro cellulare intelligente, e fregarcene beatamente della situazione demografica dei panda, delle malattie, delle epidemie, della fame nel mondo, dei danni del fumo. E poter non partecipare. Non dare informazioni. Svuotare i luoghi virtuali dove si esercita questa scansione illegittima dei nostri desideri, dove se ne innestano di nuovi. Liberarci da chi gratuitamente si prodiga per il nostro bene, facendo il suo di bene! Fermare questa macchina impazzita. A quel punto i più valorosi potranno andare anche loro per le strade. Magari parlare con qualcuno. Stargli sinceramente sulle palle. Senza sapere cosa succede agli orsi polari. Ai bambini africani. Senza che nessuna applicazioni si preoccupi per lui. Senza che nessuno gli indichi il sentiero della felicità. Solo con se stesso. Con la desolazione cosmica. Come il primo degli uomini. Senza sapere niente. Perché riposo non avremo se non nelle ombre dell’ignoto.
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