di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
1. Tra venerdì e sabato scorsi si sono, per così dire, concentrati una serie di segnali provenienti dall’area di sinistra (in un caso dichiaratamente, nell’altro, quantomeno, per collocazione mediatica), segnali relativi alla questione costituzione-incompatibilità coi trattati €uropei.
1.1. Faccio un richiamo preliminare per indirizzarne la comprensione e dare una chiave di lettura che risulti coerente per i lettori di questo blog, che potremmo definire un’avanguardia informata e, come tali, – dobbiamo rassegnarci per il momento-, in minoranza…ma, se non altro, culturalmente ponderabile (cioè dall’elevato peso specifico).
Questo il richiamo preliminare: i trattati €uropei, – e con essi intendiamo tutto l’apparato normativo divenuto operante dagli anni ’50 del secolo scorso- non erano ab initio e, a maggior ragione successivamente, non sono semplicemente divergenti (giudizio politico) rispetto all’indirizzo politico proprio di una democrazia costituzionale “sociale”, ma sono, prima ancora e principalmente, insanabilmente incompatibili con la nostra Costituzione e con la democrazia sostanziale che essa prefigura.
Ciò fa sì che le “riserve”,
anche nel senso tecnico del diritto internazionale (v. in specie p.1.1. e p. II), che si possono apporre rispetto alla stessa
adesione e applicazione dei trattati (e, come sappiamo, la Germania, di riserva, sostanzialmente unilaterale, e quindi
“illecita” dal punto di vista del diritto dei trattati, ne ha apposta una gigantesca),
non dovrebbero essere oggetto di un giudizio (o “ripensamento”) di natura politico-economica, quanto piuttosto di un obbligo giuridico prioritario: quello del
ripristino della legalità costituzionale come irrinunciabile qualificazione della sovranità democratica.
Ve ne propongo i passaggi più significativi, nell’economia del discorso svolta da anni su questo blog, integrandola con dei links che costituiscono, allo stesso tempo, sottolineatura e approfondimento critico delle varie affermazioni:
“La legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha introdotto nella Carta costituzionale il principio del pareggio di bilancio (“equilibrio tra le entrate e le spese”), è il frutto del peggior revisionismo costituzionale. Approvata praticamente all’unanimità da un Parlamento sotto pressione, in tempi rapidissimi.
Approvata in tempi rapidissimi e senza un’adeguata discussione, con una sinistra subalterna ad un governo tecnico che assumeva il rigore come unico parametro politico di giudizio, ha rappresentato una
risposta alla crisi economica di natura puramente ideologica, collocando in Costituzione le particolari politiche di stampo neoliberista.
POLITICHE RILEVATESI
poi fallimentari, che la stessa classe dirigente del nostro Paese non ha potuto perseguire. Infatti, da che è stata approvata la modifica al testo della Costituzione ci si è costantemente appigliati alla possibilità di derogare i vincoli di bilancio nei casi di “eventi eccezionali”. Un monumento alla miopia di una classe dirigente incapace di perseguire gli obiettivi che essa stessa si impone.
MA CIÒ CHE APPARE più grave della riforma è che essa rappresenta una
rottura con la storia del costituzionalismo pluralista e democratico del nostro Paese.
Come si può pensare, infatti, di escludere dall’ordine costituzionale ogni opzione diversa da quella neoliberista? Verrebbe da dire che la scelta compiuta nel 2012 sia stata espressione di
un’infelice visione neo-totalitaria.
Accecati dall’ideologia che
impone di limitare, in ogni caso, la spesa pubblica, si è
dimenticato (?) l’obbligo della Repubblica di garantire i diritti fondamentali delle persone.
Ed è qui il vulnus costituzionale più grande.
Non può essere data, infatti, una riforma della parte economica della nostra Costituzione che stravolga i diritti la cui tutela è assicurata come “inviolabile” nella prima parte del testo (articolo 2). Tali diritti – lo ha scritto a chiare lettere anche di recente
la Corte costituzionale (…??) – devono rappresentare un limite invalicabile, tutelato anche a livello internazionale. Pertanto deve essere “la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” (così la sentenza n. 275 del 2016…??? NdQ:
appunto, e teniamo conto anche della nascita di questo equivoco).
IL NOSTRO spigliato revisore ha maldestramente tentato di giustificare questa
inversione delle priorità costituzionali (prima la stabilità, poi i diritti incomprimibili) in base ad un inesistente obbligo europeo.
Il Fiscal compact in realtà si limita – e già non è poco – ad imporre vincoli di natura permanente, ma non obbliga ad iscriverli in Costituzione.
La scelta dunque di “costituzionalizzare” il principio del pareggio di bilancio ricade pienamente nella responsabilità politica del Parlamento italiano. Ciò comporta il gravissimo effetto di rendere immodificabili le politiche del rigore anche nell’auspicabile ipotesi di un ravvedimento a livello europeo.
SONO PASSATI sei anni da questa improvvida riforma e il suo fallimento è ormai evidente.
Un Parlamento responsabile ne prenderebbe atto e rilancerebbe le ragioni del costituzionalismo così disinvoltamente disattese. In particolare, dovrebbe essere interesse di tutte le forze politiche e sociali che si ispirano alla Costituzione proporre una controriforma che riaffermi le giuste priorità: prima i diritti fondamentali delle persone, poi le ragioni legate agli equilibri delle finanze pubbliche. Dovrebbero essere le rappresentanze politiche e sociali di sinistra a sollecitare il cambiamento, ma così non è…
UNA LEGGE COSTITUZIONALE di iniziativa popolare è stata elaborata dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale (proposta presentata assieme al quella sulla legge elettorale e in accordo con quella sulla scuola). Essa si propone non solo di
eliminare le regole contabili definite nella sciagurata revisione del 2012, ma anche di individuare il limite delle politiche di spesa, che devono in ogni caso garantire il “rispetto dei diritti fondamentali delle persone”. È necessario raccogliere 50.000 firme nel vuoto della comunicazione e in assenza di mezzi.
UNA LEGGE costituzionale di iniziativa popolare è un azzardo, ma anche un atto estremo di responsabilità. Ci vuole in effetti coraggio per proporre al prossimo Parlamento di
invertire la rotta, provando a riparare i guasti prodotti dal revisionismo costituzionale…”.
2.1. Una nota in calce all’idea di un’iniziativa popolare per una legge di revisione costituzionale (che vale anche nel caso che tale revisione fosse invece proposta da una maggioranza parlamentare): poiché, quand’anche su iniziativa popolare, il diritto costituzionale di revisione è derivato, in quanto “costituito” e non “costituente“, esso comporterebbe una duplice controindicazione negativa nei confronti delle vere controparti della tentata riaffermazione delle priorità legali-costituzionali (cioè le occhiute e ostili istituzioni Ue-M):
a) si avrebbe un diritto applicabile ex nunc, cioè non utilmente opponibile come originaria e duratura violazione “obiettivamente evidente” di “norme del diritto interno di importanza fondamentale“;
b) in conseguenza di ciò, si ratificherebbe per implicito l’antica, e altrettanto duratura incomprensione della Corte costituzionale, sulla natura dei trattati e sulla portata dell’art.11 Cost., con effetti boomerang, cioè selfdefeating, in chiave di legittimità della pretesa di sciogliersi dal vincolo esterno.
2.2. Insomma si tratterebbe di convalidare e “rimuovere” il problema fondamentale, – e non irrimediabile, poiché le norme costituzionali non sono abrogabili per desuetudine e l’illecito derivante dalla loro violazione non dovrebbe essere prescrittibile-, del perché e del come i “controlimiti” non siano mai stati effettivamente applicati (qui, p.11, per un suggerimento illuminante di Luciani).
Sul piano inevitabile dei rapporti di diritto internazionale, sarebbe estremamente rischioso determinare, sia pure indirettamente, una sorta di sanatoria di una gravissima fase di sospensione del dettato costituzionale non revisionabile, e affrontare una difficile conflittualità politico-internazionale che, invece, dovrebbe poter essere prevenuta. Specialmente facendo le proprie mosse (almeno nella fase di avvio) all’interno dell’eurozona (qui, p.2), come ha dovuto apprendere a sue spese la Grecia.
3. L’altro segnale di scottante attualità, proviene invece da
questo appello (già oggetto di strenua discussione su
twitter, dopo il lancio fattone dall’amico Massimo D’Antoni), firmato da un nutrito gruppo di studiosi e accademici (che vedete riprodotto in fondo e che, per quanto di nostra conoscenza, vede risaltare figure di assoluto rilievo tra cui, anche oltre i vincoli di amicizia che ho per taluni dei sottoscrittori, è da sottolineare la presenza di Domenico Mario Nuti). Anche qui riproduco i passaggi salienti, inserendo qualche link di approfondimento critico (senza riproporre quelli già inseriti nella parte dedicata all’articolo di Azzariti e validi pure per questo):
“Negli ultimi quarant’anni la scienza e la tecnologia hanno fatto progressi inimmaginabili e la ricchezza del mondo è aumentata, tanto nei paesi che avevano un minor livello di sviluppo che in quelli di più antica industrializzazione.
In questi ultimi, però, la maggiore ricchezza generata è andata quasi esclusivamente nelle mani di un piccolo numero di persone, invertendo la tendenza a una più equa distribuzione che si era verificata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Non si è trattato di una fatalità o di un fenomeno impossibile da controllare: è stato il frutto dell’ideologia economico-politica che ha conquistato l’egemonia dagli anni ’80 del secolo scorso.
“
L’Unione Europea implica la concezione dello ‘Stato minimo’, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva degli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e dell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a favore di quest’ultimi”.
Carli dimenticò di precisare “a favore di una parte di quest’ultimi”, ma per il resto la descrizione di quello che sarebbe accaduto è quanto mai precisa e definita.
Questa è l’Europa dell’euro e del Trattato di Maastricht a cui ci siamo legati.
Con una aggravante: il dominio politico-economico della Germania e dei suoi alleati, a cui per ragioni storiche è stata associata la Francia.
La prospettiva è semmai di un peggioramento: le linee della riforma della governance europea, che dovrebbe essere approvata entro il prossimo anno, sono frutto di una trattativa essenzialmente tra Germania e Francia. Se verrà approvato lo schema attualmente in discussione, le conseguenze per l’Italia saranno pesantissime.
Il nucleo-guida ha già dimostrato di non tenere in alcun conto le ragioni del nostro paese: da oltre tre anni abbiamo chiesto ufficialmente di cambiare il metodo di calcolo del Pil potenziale (v.
qui, pp. 11 e 16-18), che è la base di giudizio per i conti pubblici e che è stato giudicato poco attendibile da un gruppo di esperti incaricato di valutarlo dalla stessa Commissione, e
ad oggi non abbiamo ottenuto alcun risultato. Questo è senza dubbio un pessimo segnale per il futuro.
…
Noi che sottoscriviamo questo documento crediamo che ciò avvenga perché LeU non ha dato precisi segnali di discontinuità rispetto al processo che ha portato i partiti tradizionali della sinistra a convertirsi alle idee del “pensiero unico” e alle scelte che questo ha comportato, prima fra tutte quella di disegnare un’organizzazione sociale funzionale ai desideri (non alle “necessità”) del mercato, subordinando ad essi le istanze di promozione sociale che la Costituzione pone come scopo della Repubblica. A parte alcune eccezioni, ci sembra che il suo atteggiamento rispetto all’Europa reale sia superficiale e reticente: non ha senso vagheggiare una ipotetica “Europa più giusta, più democratica e solidale” per cui non ci sono le condizioni né ci saranno nel prossimo futuro.
Occorre invece porsi il problema di cosa fare per non farsi schiacciare dall’Europa che c’è. Che non abbia avuto il coraggio – o forse la convinzione – di dire che la strada dell’ultimo quarto di secolo era sbagliata per chi si ponga in un’ottica di sinistra.
…
Nicola Acocella, economista, univ. La Sapienza
Davide Antonioli, economista, univ. Chieti-Pescara
Lucio Baccaro, direttore Istituto Max Planck, Colonia
Roberto Balduini, dirigente, Roma
Annaflavia Bianchi, economista, univ. Ferrara
Luigi Bosco, economista univ. Siena
Sergio Cesaratto, economista, univ. Siena
Guglielmo Chiodi, economista, univ. La Sapienza
Carlo Clericetti, giornalista, Roma
Massimo D’Angelillo, economista, Bologna
Massimo D’Antoni, economista, univ. Siena
Sebastiano Fadda, economista, univ. Roma 3
Daniele Girardi, economista, univ. del Massachusetts
Andrea Guazzarotti, costituzionalista, univ. Ferrara
Ugo Marani, economista, univ. Napoli L’Orientale
Salvatore Monni, economista, univ. Roma 3
Antonio Musolesi, economista, univ. Ferrara
Domenico Mario Nuti, economista, univ. La Sapienza
Leonardo Paggi, storico, già docente universitario
Paolo Pini, economista, univ. Ferrara
Geminello Preterossi, Filosofo del diritto, univ. Salerno
Fabio Ravagnani, economista, univ. La Sapienza
Pasquale Santomassimo, storico, univ. Siena
Roberto Schiattarella, economista, univ. Camerino
Alessandro Somma, giurista, univ. Ferrara
Antonella Stirati, economista, univ. Roma 3
Francesco Sylos Labini, fisico Centro Enrico Fermi, Roma
Mirco Tomasi, economista, Bruxelles
Leonello Tronti, economista, univ. Roma 3
Antimo Verde, economista, univ. Tuscia
Marco Veronese Passarella, docente economia, univ. Leeds
Paolo Piacentini, economista, univ. La Sapienza
Marzia Zanardi, pensionata, Bologna
Gennaro Zezza, economista, univ. Cassino e Levy Institute
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