Dalla Siria all’Iraq e al Mediterraneo: perché il ritiro Usa è solo apparenza
di GLI OCCHI DELLA GUERRA (Lorenzo Vita)
Il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria rappresenta un nodo cruciale dalle strategia di tutte le potenze coinvolte in Medio Oriente. Cosa faranno gli Usa? Cosa deciderà realmente Donald Trump? Sono domande le cui risposte decideranno certamente buona parte del futuro della regione. Ma guai a essere precipitosi nei giudizi.
Ritirarsi dal territorio siriano non significa il disinteresse degli Stati Uniti per la Siria. Semmai, quello che sta avvenendo. è un generale rimodellamento della strategia statunitense in tutta la regione. Washington può sostituire la sua presenza in Siria con altre modalità di intervento nello scacchiere mediorientale. Ma questo non significa che Damasco sarà fuori dalle logiche del Pentagono.
A rivelarlo, lo stesso segretario alla Difesa, James Mattis. Il capo del Pentagono ha parlato di fronte al Congresso giovedì scorso dicendo alcune frasi estremamente importanti. “In questo momento non stiamo ritirando le truppe Usa dalla Siria “, ha detto Mattis. “Vedrete un aumento delle operazioni sul lato iracheno del confine e i francesi, nelle ultime due settimane, ci hanno inviato rinforzi in Siria con le loro forze speciali. Questa, in questo momento, è una guerra in corso”.
“Le parole sono importanti”, urlava un Nanni Moretti esausto nel suo “Palombella rossa”. E quelle parole del segretario alla Difesa sono a dir poco fondamentali. Soprattutto se messe in parallelo con le ultime decisioni del governo Usa nello scacchiere mediorientale.
L’idea di base è che il ritiro dalla Siria non sia un ridimensionamento della presenza Usa in Medio Oriente ma un ricollocamento che guarda al futuro. La Siria può anche non essere il territorio dove saranno di base le forze americane. Ma solo perché, una volta sconfitto lo Stato islamico – nemico ormai del tutto oscuro in quel nord-est siriano privo di una forza che ne controlla il territorio – le forze Usa avranno un maggiore coinvolgimento sul fronte iracheno. Il che significa che, di fondo, gli Stati Uniti toglieranno le truppe dal territorio appartenente al governo di Damasco per spostarle dall’altra parte del confine. Cosa ben diversa che ritirarsi dal conflitto.
Inoltre, gli Stati Uniti non solo non si ritireranno il prima possibile, ma si prevede anche un intensificarsi del loro ruolo nel palcoscenico siriano. Un aumento della presenza americana o un aumento delle operazioni in Siria potrebbero essere il preludio per un successivo coinvolgimento delle forze arabe voluto da Trump. In sostanza, una pulizia dei problemi più importanti prima che le truppe della (ancora ipotetica) coalizione araba entrino in Siria. Le forze saudite non hanno certo dimostrato grandi capacità in Yemen. E il Qatar, per ora, non ha interesse a inviare soldati e denaro per finanziare la spedizione in Siria.
La questione Israele
Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman si è recato a Washington questa settimana. Due giorni prima, il comandante Usa Joseph Votel è stato ospite del capo delle Israel defense forces, Gadi Eizenkot a Tel Aviv. Come spiegato da Debka, “il viaggio di Lieberman è stato ritenuto necessario dal momento che il generale Usa ha rifiutato di affrontare il danno militare e strategico del piano di uscita degli Stati Uniti rispetto alla sicurezza di Israele”.
Durante i suoi incontri con il segretario Mattis e il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, Lieberman ha chiesto all’amministrazione americana di prendere in considerazione l’ipotesi di ritardare il ritiro delle truppe. Dichiarazioni ufficiali dopo gli incontri non ce ne sono state. Eppure qualche indicazione di quanto è stato detto, è possibile osservarla dalle ultime decisioni del Pentagono e dalle stesse dichiarazioni di Mattis al Congresso e in particolare in commissione al Senato.
In risposta a una domanda del senatore Jack Reed sull’eventualità che le tensioni fra Iran e Israele aumentino e sul rischio che possano iniziare un’escalation che colpisca l’intera regione e non solo la Siria, Mattis ha detto: “Credo che la risposta sia sì, senatore. potrebbe iniziare. Non sono sicuro di quando o dove, penso che sia molto probabile in Siria perché l’Iran continua a fare il suo lavoro con i proxies lì … Potrei anche immaginare che questo possa accendere qualcosa di più grande”.
“Li abbiamo visti mentre cercavano di portare armi avanzate in Siria per darle a Hezbollah nel Libano meridionale, Israele non aspetterà che quei missili siano nell’aria. Sarà catastrofico? Spero di no: spero che l’Iran faccia un passo indietro”.
E in effetti, il monitoraggio degli Stati Uniti sulla Siria non è destinato a diminuire. Proprio in virtù di queste crescenti tensioni fra Israele e Iran, il Pentagono ha aumentato il lavoro di monitoraggio delle attività iraniane nella regione. E il fatto che la portaerei Uss Harry Truman sia stata fermata nel Mediterraneo orientale, è un altro segnale importante. Un messaggio chiaro a tutti gli attori mediorientali: Washington c’è, anche se apparentemente sembra in fase di ritirata.
FONTE: http://www.occhidellaguerra.it/pentagono-ritiro-siria/
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