La crisi dei saperi socratici: una sfida per l’‘humanitas’
di SINISTRA IN RETE (Eros Barone)
Il famoso principio dell’utile […] Applicato all’uomo, se si vuol giudicare ogni atto, movimento rapporto ecc. dell’uomo secondo il principio dell’utile, si tratta in primo luogo della natura umana in generale e poi della natura umana storicamente modificata, epoca per epoca. Bentham non ci perde molto tempo. Egli suppone con la più ingenua banalità che l’uomo normale sia il filisteo inglese. Quel che è utile a questo curioso uomo normale e al suo mondo è utile in sé e per sé. Su questa norma egli giudica poi passato, presente e futuro.
K. Marx, Il capitale, l. I, trad. di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1967⁶, pp. 666-667.
1. Società di mercato e saperi socratici
Sembra essere ormai del tutto inefficace, nel nostro tempo, la classica risposta di Spinoza alla tradizionale domanda di carattere fondativo sul significato e sul valore della ‘humanitas’, risposta che per secoli, dall’Umanesimo in poi, ha garantito legittimità agli studi filosofici, letterari e filologici: essi ci aiutano a vivere «una vita propriamente umana».1 Il discorso si fa ancor più impervio se si aggiunge a quella tradizionale un’altra domanda, che si potrebbe definire di carattere rifondativo, su quale possa essere il futuro degli studi umanistici in un contesto in cui il lavoro e il suo linguaggio sono fortemente dominati dalla tecnologia. Si tratta con tutta evidenza di una problematica che non riguarda solo l’Italia e non coinvolge solo la formazione scolastica, ma riguarda il modello di società che saremo in grado di immaginare per risolvere le gigantesche questioni ecologiche e sociali che il pianeta si trova ad affrontare. È in questo àmbito che si inserisce quella che una pensatrice statunitense, Martha Nussbaum, ha definito nei suoi saggi come «crisi dei saperi socratici», ossia dei saperi fondati su competenze non misurabili quali la capacità di argomentare e di riflettere, di confrontarsi e di mettersi in discussione, di assumere il punto di vista dell’altro, di elaborare soluzioni innovative rispetto ai contesti in cui sorgono i nostri problemi.2
In questa sede, il tema è stato ripreso recentemente da Fernanda Mazzoli che, recensendo il saggio di Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista qui , ha richiamato le importanti considerazioni sul nesso fra storia e scienza formulate, a suo tempo, da Massimo Bontempelli.
Vale dunque la pena di chiedersi quali siano le cause che, nel passaggio epocale da un’economia di mercato ad una società di mercato, hanno determinato la crisi dei saperi socratici e posto in discussione il futuro degli studi umanistici. Orbene, le cause della crisi della cultura umanistica possono essere individuate, in primo luogo, assumendo l’ottica braudeliana della ‘lunga durata’, nella progressiva dissociazione fra discipline storico-letterarie e costruzione delle identità nazionali (basti pensare, per contrasto, al peso determinante che ebbe lo stretto legame fra le une e le altre nel processo di istituzionalizzazione degli studi filologici sviluppatosi durante l’Ottocento); in secondo luogo, nella diffusione di una cultura di massa, resa possibile dalle Tic e in particolare dagli audiovisivi, che ha ridotto in misura notevole la funzione mediatrice ed orientatrice della scuola e dell’università nei processi di formazione delle nuove generazioni e della stessa opinione pubblica;3 in terzo luogo, a partire dall’ultimo trentennio, nella globalizzazione capitalistica e nel correlativo dominio, sempre più totalizzante, di una logica di mercato, che esclude ogni filtro fra produzione e fruizione dei prodotti culturali e che nega ogni criterio di valore che non sia quello di scambio, quantificabile negli indici dei profitti ricavati dalla vendita di tali prodotti; in quarto luogo, ipotesi questa quanto mai plausibile anche se non certa, in un disegno neo-liberista ed oligarchico di destrutturazione dei “ceti medi riflessivi” dell’Occidente e del loro sistema di valori (uguaglianza delle possibilità di ascesa sociale, Stato sociale solidaristico).
2. Quale rapporto tra il vero e l’utile nel sapere e nella formazione?
Nonostante le continue riforme degli ordinamenti scolastici che negli ultimi venti anni hanno contraddistinto le politiche educative non solo dei paesi europei, ma anche di altre nazioni, non sembra che il bilancio, in termini di qualità dell’istruzione e di sbocchi professionali sul mercato del lavoro, si possa ritenere positivo. Infatti, come risulta dalle inchieste promosse dalla stessa OCSE, organizzazione che le ha promosse ‘ex ante’ e le ha verificate ‘ex post’, così come dai giudizi degli studiosi che hanno concorso alla loro elaborazione e definizione, tali riforme, pur enunciando a parole finalità di ampio respiro, hanno finito col produrre sulle nuove generazioni effetti contrari e distorcenti sia in termini di riduzione della quantità e di scadimento della qualità degli apprendimenti sia in termini di impoverimento della formazione culturale generale. Se poi si riflette sul mutamento profondo che subisce la formazione culturale e, in particolare, quella scolastica nel passaggio da un’economia di mercato ad una società di mercato, non è difficile comprendere perché sia dato assistere oggi, non solo in Italia, ad un tentativo di smantellamento dell’istruzione umanistica che ha il suo principio ispiratore in un utilitarismo di ispirazione benthamiana che, negando valore a tutto ciò che non produce immediato profitto, considera la cultura un costo superfluo e fa della competenza tecnica e della divisione del lavoro un feticcio intangibile.
Di fronte alla conclamata perdita di credito sociale non solo di tutte le discipline umanistiche, ma anche di tutte le attività artistiche, risulta allora comprensibile l’ansia di rilegittimazione che ha prodotto libri, dibattiti e convegni con una frequenza che è andata crescendo a mano a mano che venivano manifestandosi gli effetti culturalmente regressivi delle riforme degli ordinamenti scolastici. Da questo punto di vista, un esempio di rilegittimazione degli studi umanistici, in cui la proposta, secondo il duplice significato del termine greco ‘phármakon’, si configura insieme come veleno e come medicina, è proprio quello offerto dal libro della Nussbaum, nel quale non solo si afferma che l’insegnamento delle materie letterarie e scientifiche deve essere salvaguardato rispetto a un’educazione incentrata monodromicamente sui saperi tecnici e specialistici, in quanto trattasi di materie che rappresentano le finalità di una formazione culturale rivolta alla costruzione di una comunità democratica, ma si giunge a sostenere che tali insegnamenti hanno perfino una finalità economica indiretta, in quanto «l’innovazione richiede intelligenze flessibili, aperte, creative», «la letteratura e le arti stimolano queste facoltà» e, «quando mancano, la cultura aziendale perde colpi in fretta».
Così, richiamandosi alla tradizione americana del pragmatismo di Dewey, la Nussbaum identifica nel suo ‘pamphlet’ l’insegnamento umanistico con il “metodo socratico” (ossia con l’istanza di un’indagine critica guidata dalla ragione e, quindi, autonoma rispetto ad ogni autorità imposta dalla tradizione) e individua nella capacità dell’empatia, consistente nell’assumere il punto di vista dell’altro, la sostanza stessa dell’esperienza etica ed estetica: l’equazione che consegue da questo approccio dialogico ed empatico è quella fra democrazia liberale e studi filosofico-letterari. La filosofia fornisce le «tecniche del ragionamento critico»; la letteratura (o meglio «l’immaginazione narrativa», di fatto identificata con il romanzo) un repertorio di situazioni che stimolano una risposta etica in chiave di empatia (risposta che nasce dalla domanda: “Come mi comporterei se fossi al posto di quel personaggio?”). Gli studi umanistici sarebbero insomma indispensabili per la formazione di cittadini dotati di spirito critico, tolleranti e solidali. Essi dovrebbero perciò essere obbligatori, come spesso accade negli Stati Uniti, per gli studenti dei primi anni di tutte le facoltà.4
La tesi sulla necessità dei saperi socratici sviluppata dalla pensatrice statunitense e qui esposta nei suoi lineamenti essenziali sfocia nella conclusione secondo cui, essendo tali saperi strumenti per la produzione del cambiamento, se si vuole individuare alternative valide alla crisi economica esistente bisogna investire sui saperi socratici: diversamente il sistema economico non riuscirà a mettere in circolo nuove idee e quindi a riprendersi. La tesi in questione dimostra come sia difficile elaborare una proposta teorica che sia in grado di legittimare oggi l’esistenza e il finanziamento degli studi umanistici, senza accettare, come terreno di confronto, le stesse premesse dei loro detrattori: senza, cioè, accettare l’urgenza, peraltro in qualche misura innegabile, di dimostrare – alla politica e al mercato – l’utilità pratica dei saperi socratici.
Ora, rispetto al problema di distinguere tra saperi inutili e saperi che servono e, più in generale, rispetto al cruciale problema filosofico del rapporto tra il vero e l’utile, è opportuno, al fine di una corretta impostazione e risoluzione del problema, fissare alcuni criteri molto precisi: a) la riduzione sofistica del vero all’utile va respinta e va riaffermato il primato del vero, ossia il principio secondo cui ciò che è vero è anche utile, essendo l’utile un sigillo inconfondibile del vero; b) come ha insegnato Socrate, al quale dobbiamo la capitale definizione della filosofia come sapere di non sapere, il relativismo dei sofisti va confutato in nome di un realismo più profondo, che fa della verità la somma dialettica di verità relative, che però non sono puramente soggettive, bensì oggettive in quanto controllabili alla luce dell’esperienza e della ragione; c) parimenti l’utilitarismo pragmatico dei sofisti (e mi riferisco non solo a quelli del V secolo a.C., ma anche a quelli odierni) va respinto in nome di un concetto più vasto e più profondo dell’utilità, che è poi quello che caratterizza la stessa ‘humanitas’ in quanto ideale, ad un tempo, normativo e formativo; c) se è vero che bisogna andare oltre un utilitarismo di corto respiro, ciecamente efficientistico, meramente crematistico e quindi organicamente funzionale al potere economico dominante, è anche vero che non si deve buttare via l’acqua sporca assieme al bambino, poiché espungere dall’àmbito della conoscenza e dell’azione una prospettiva utilitaristica correttamente intesa vuol dire liquidare interamente il progetto della modernità: la rivoluzione scientifica, le scienze sociali, il ‘welfare state’ e la tradizione del socialismo.
3. I “saperi che servono” fra nichilismo antisocratico e ideologia del ‘politicamente corretto’
La sfida che la crisi dei saperi socratici pone all’‘humanitas’ nasce oggi da due concezioni diverse nelle motivazioni teoretiche, ma convergenti nell’esito pratico: da una parte, il nichilismo antisocratico che impronta le concezioni decostruzioniste secondo cui, per dirla con Nietzsche, “la verità è un mobile esercito di metafore”, 5 la realtà è sostituita dai testi e le diverse interpretazioni si equivalgono; dall’altra, l’ideologia del ‘politicamente corretto’ che si esprime nell’equazione fra democrazia liberale e saperi umanistici formulata dalla Nussbaum. Entrambe le strategie mirano a preservare uno spazio alla filosofia e alla letteratura ‘all’interno’ di una logica utilitaristica.
Per quanto riguarda le tesi decostruzioniste, le conseguenze che da esse derivano nel campo dei saperi umanistici sono semplicemente rovinose. La radicale demistificazione di ogni sapere disciplinare dissolve le ragioni tradizionali di legittimità degli studi umanistici: se la storia non insegna niente (è la drammatica domanda che si pone Pier Paolo Pasolini nelle Ceneri di Gramsci: «Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede; ne sono illuminato: / ma a che serve la luce?»)6 , se la letteratura indulge ai cattivi sentimenti anziché sollecitare all’amor di patria, se la filosofia decostruisce ogni simulacro di verità, perché mai il governo dovrebbe finanziare gli studi umanistici? Tali conseguenze sono state efficacemente riassunte in questi termini: «un deserto culturale», popolato di soggetti «abbastanza ingenui da credere di poter fare a meno di ogni credenza ingenua». È da questo impietoso epitaffio sul pensiero critico del secondo Novecento che nasce il progetto di un umanesimo “post-critico”, capace di «promuovere l’emergere di nuove credenze emancipatrici»: miti formativi, nuove narrazioni condivise, socialmente utili e coerenti con quella “svolta etica” che ha segnato molta filosofia degli ultimi decenni.7
Può essere allora interessante chiedersi se vi sia una relazione fra queste posizioni e la riforma dei programmi liceali approvata, a suo tempo, dal governo di destra in Francia, ove l’insegnamento della storia è volto a ricostruire una genealogia delle società democratiche che prevede di incrementare lo spazio dedicato alla democrazia ateniese e di cancellare quasi completamente quello dedicato alla storia romana (il cui sbocco imperiale è evidentemente considerato illiberale e colonialista). È evidente come le tesi decostruzioniste, improntate ad un nichilismo antisocratico, e quelle liberaldemocratiche, improntate all’ideologia del ‘politicamente corretto’, convergano nel legittimare una selezione dei «saperi che servono», ossia di quei saperi che sono pedagogicamente utili a consolidare le strutture della nostra società. In altri termini, se da un lato nel vuoto di verità e di realtà in cui fluttuano le tesi decostruzioniste non sorprende che l’unico parametro di giudizio a cui appellarsi divenga quello dell’utilità sociale, non meraviglia dall’altro che la stessa «capacità di pensare criticamente», così fortemente invocata dalla Nussbaum, non possa spingersi a mettere in discussione i fondamenti stessi della democrazia liberale, le sue gerarchie axiologiche di bene e male. Come è stato sostenuto anche di recente da alcuni pedagogisti ‘politicamente corretti’, le ‘democrazie’ non solo non hanno bisogno di Dante o di Machiavelli, ma debbono altresì espungerli dal loro canone letterario e filosofico in quanto ‘politicamente scorretti’, ossia omofobi, razzisti e antisemiti. Sennonché è il caso di osservare, per limitarmi a questo esempio ‘scandaloso’, che perfino quando Dante tratta con un disprezzo feroce ed una violenza spietata ‘l’altro da sé’, come accade nel canto XXVIII dell’Inferno dove appare Maometto, e si dimostra incapace, alla pari di quasi tutta la cultura del suo tempo, di comprenderlo, non può fare a meno di imparare da lui qualcosa di essenziale: così, se Dante ci ha taciuto di essersi ispirato al “Libro della scala”, ossia all’‘isra’, il racconto del viaggio notturno di Maometto attraverso i regni dell’oltretomba descritto nel Corano, non ci ha però nascosto il suo rispetto per alcune grandi figure del mondo islamico come Avicenna, Averroè e il Saladino.8
4. Il riscatto dei saperi socratici: utilità, eredità, identità
Da un punto di vista orgogliosamente aristocratico, si potrebbe sostenere che la vera sfida è quella di legittimare la cultura umanistica anche in quegli aspetti che con il nostro modello di società non hanno alcun rapporto: saperi che ‘non servono’ (né alle democrazie né al profitto) o che addirittura, in barba allo stereotipo del ‘politicamente corretto’, possono essere messi al servizio di cause che il discorso sociale dominante qualifica come aberranti. La legittimazione della cultura umanistica si afferma in base a questo punto di vista non va quindi ricercata attraverso una faticosa rincorsa delle scienze o della tecnologia, della pedagogia o del mercato sul loro stesso terreno, ma va perseguita indipendentemente da ogni utilità pratica rivendicando le autonome peculiarità del sapere umanistico, nelle quali rientra il valore in sé della conoscenza, non solo di quella umanistica ma perfino di quella che può confliggere con i fini disciplinari dell’ordinata convivenza ‘democratica’. Anche se posso comprendere (e in parte condividere) le motivazioni di questa posizione, che definirei come tentazione monacale del ritiro nella ‘turris eburnea’ e del ‘contemptus mundi’, la ritengo tuttavia sostanzialmente sterile e improduttiva: non all’altezza della sfida che deriva, per l’appunto, dalla crisi dei saperi socratici.9 D’altra parte, se, come vuole la Nussbaum, la letteratura servisse solo a fornire modelli etici di comportamento o schemi interpretativi analogici, utili alla vita pratica, non si potrebbe dar torto a un legislatore che, in tempo di crisi, privilegiasse la formazione di pedagogisti ed economisti.
Pur essendo consapevole che oggi, riguardo al ruolo degli studi umanistici, esiste un certo consenso sulla ‘pars destruens’, ma le idee sulla ‘pars construens’ sono assai vaghe e problematiche, provo ad enucleare dal dibattito corrente alcune indicazioni, a mio avviso meritevoli di attenzione, sulle vie che è possibile percorrere per attuare un riscatto e una rivalutazione dei saperi socratici. Finora la questione dell’utilità degli studi umanistici si è limitata a quella dell’utilità di questi studi per gli studenti. Ma ciò che ogni processo di trasmissione culturale chiama necessariamente in causa è l’eredità culturale di una comunità, la sua ‘tradizione’, ossia ciò che merita di essere trasmesso e conservato. Gli stessi programmi scolastici sono il prodotto di un compromesso tra due diverse istanze ugualmente legittime: il bisogno degli studenti (per parafrasare Nietzsche, l’utilità e il danno della cultura per la loro vita individuale) e il bisogno della comunità di conservare e trasmettere ciò che ritiene più importante e significativo della propria storia e, quindi, della propria identità (in questo caso non si tratta di utilità per la vita degli individui, ma di utilità per la vita di un corpo collettivo). Orbene, questa seconda istanza, che è di natura politica e civile, mentre la prima è di natura etica o morale, non deve necessariamente coincidere con la prima e può persino trascenderla: qualcuno potrà anche dimostrare che lo studio del latino o di Dante non serva più a nulla per la vita del singolo (cosa di cui è non solo lecito, ma doveroso dubitare); resta il fatto che la cultura italiana riconosce nel latino e in Dante dei valori oggettivi, che costituiscono il suo patrimonio più proprio e più caratterizzante. Sarebbe perciò un’ottima cosa introdurre questi studi fin dalle scuole superiori e, nei limiti del possibile, per il pubblico di studenti più largo, in modo da consentire ad un maggior numero di cittadini di acquisire gli strumenti essenziali per un accesso alla propria identità culturale. Vale la pena di aggiungere che il discorso sull’eredità culturale e sull’identità culturale dovrebbe essere esteso anche allo studio della storia dell’arte, poiché non è accettabile che molti italiani vivano circondati da un mondo di opere e di immagini di cui non conoscono il linguaggio e che non sono in grado né di comprendere né di valorizzare.
Da questo punto di vista, che non è quello di un utilitarismo da pezzenti (quello, per intenderci, delle ‘tre I’), non si può disconoscere che la cultura umanistica è un patrimonio estremamente prezioso per l’Italia, laddove questa constatazione non ha nulla di retorico, ma vale anche in termini molto secchi e pragmatici di politica economica. Esiste uno stile italiano che è riconoscibile persino nelle discipline più alte: i nostri classicisti, medievisti, italianisti, storici e filosofi sono molto apprezzati nelle università straniere, dove trovano facilmente posto, e chi ha vissuto all’estero sa che il successo di alcuni dei nostri intellettuali più tradotti, come Eco o Ginzburg, deriva soprattutto dalla loro ‘erudizione’, cioè dalla loro capacità di proporre genealogie storiche di lunga durata e di interpretare testi greci e latini in funzione del presente, dando così voce ad una tradizione che per gli intellettuali stranieri è ormai muta. Può sembrare un paradosso, ma gli studi umanistici sono proprio ciò che oggi ci serve di più. La questione dell’‘utilità’, che ho prima esaminato sotto il profilo filosofico, si ripropone dunque, da un punto di vista politico, come un problema non solo individuale e soggettivo, ma anche collettivo e oggettivo.
5. Futuro dell’‘humanitas’ e ‘humanitas’ del futuro
Se la letteratura, le arti e, più in generale, la cultura umanistica sono gli elementi costitutivi di identità di lunga durata, profonde e collettive, non vi è dubbio che la tradizione italiana, la quale da questo punto di vista può vantare un passato importante, debba essere riproposta e rilanciata. Il futuro dell’‘humanitas’, in questo senso, è certamente legato sia ad un progetto intelligente ed aggiornato di conservazione e trasmissione del patrimonio culturale sia al rilancio di una educazione umanistica basata sulla lettura dei testi scritti, sulle competenze linguistiche di base (lessico e grammatica) e su quelle stilistico-retoriche (sintassi e pragmatica). Queste sono le basi del modello di educazione umanistica che appartiene in modo peculiare al nostro Paese: in sostanza, cultura scritta e senso della storicità. Un modello tutt’altro che statico e conservativo, se è vero che, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, esso è stato integrato e potenziato con la filosofia e la storia della scienza, giungendo a configurarsi in termini dinamici e innovativi e facendo compiere alla nostra cultura un grande passo avanti verso il superamento di quella separazione tra la scienza e gli studi umanistici che è un pericolo mortale per la cultura contemporanea e per la stessa formazione scolastica. Grazie soprattutto all’opera preziosa svolta dalla scuola di Ludovico Geymonat in questo campo e in questa direzione, il rigore teoretico è così divenuto, assieme alla cultura scritta e al senso della storicità non limitati al sapere umanistico ma estesi alla struttura dei saperi nomotetici e alla loro complessa evoluzione, parte integrante della nostra migliore tradizione culturale.10
Prima di concludere questa sintetica ricostruzione dello ‘status quaestionis’ inerente al futuro dei saperi socratici, ritengo opportuno confrontarmi con la scepsi critica di uno studioso, quale Paul Veyne, il quale in un suo contributo dedicato a tale concetto invita a diffidare dell’‘humanitas’, ricordando che i greci e i romani, sotto il raffinato manto retorico di parole suggestive come ‘paideia’ e ‘humanitas’, costruirono regimi dispotici, quali l’impero ateniese e l’impero romano.11 Da un punto di vista che non sia criticamente inerme, quella che potremmo definire ‘la prova di Veyne’ risulta allora particolarmente opportuna e fruttuosa, se si vuole garantire al concetto di ‘humanitas’ un futuro che lo separi nettamente dalle identificazioni del passato con regimi, come quello fascista e come quello nazista, che di tale concetto hanno fatto un uso strumentale e apologetico in funzione della loro politica duramente autoritaria ed aggressivamente imperialistica. Vale quindi la pena di citare, a proposito del futuro dell’‘humanitas’, l’amaro rimprovero che nella prefazione al “Capitale”, attingendo alle fonti della cultura classica che egli padroneggiava con sicurezza e competenza non comuni, Karl Marx muoveva alla intellettualità del suo tempo che non voleva lottare contro il capitalismo, un rimprovero che torna ad essere attuale nel nostro tempo, come tante altre proposizioni e tanti altri teoremi del fondatore del materialismo storico: «Perseo usava un manto di nebbia per inseguire i mostri. Noi ci tiriamo la cappa di nebbia sugli occhi e le orecchie, per poter negare l’esistenza dei mostri».12
In conclusione, come è vero che i valori sono oggettivi (ovviamente in senso storico e non in senso naturale), così è vero che i valori in sé, al di fuori dei conflitti sociali reali, non esistono. L’umanesimo (“post-critico” o “disinteressato” che sia) non è dunque un valore in sé. Esso è stato, però, un valore storicamente concreto quando ha funzionato come veicolo ideologico di classi o di gruppi sociali in conflitto con lo stato di cose esistente e, quindi, in cerca di un’espressione simbolica dei loro interessi e dei loro bisogni. Oggi, ad esempio, l’umanesimo è un valore per un gruppo ristretto di docenti e di forze politiche di opposizione. Non saprei, tuttavia, dire, per fare un altro esempio, se lo sia e in che misura lo sia agli occhi degli studenti del liceo classico e degli stessi studenti delle facoltà di lettere. In attesa che i conflitti reali riportino in primo piano forze sociali e politiche simili a quelle che nel passato hanno tentato di praticare quei valori di verità, giustizia ed eguaglianza che hanno caratterizzato prima l’umanesimo cristiano e poi quello socialista e comunista, si può per ora soltanto affermare, formulando un chiasmo che contiene, ad un tempo, una previsione, un rischio ed un auspicio, che il futuro dell’‘humanitas’ dipenderà dall’‘humanitas’ del futuro. «Nell’uomo c’è molto», diceva Bertolt Brecht, «facciamo molto dell’uomo».13
Note
1 B. Spinoza, Tractatus politicus, trad. P. Cristofolini, ETS, Pisa 2004, p. 83 e pp. 89-91. Nel cap. V del Tractatus Spinoza afferma che la “concordia” è istituita da una “libera multitudo” che pensa a coltivare la vita piuttosto che a fuggire la morte, fermo restando che per il filosofo olandese coltivare la vita è l’unico e primo fondamento della virtù.
2 Cfr. M. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino, Bologna 2012. Ma si veda anche il saggio precedente Coltivare l’umanità.I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma 2006.
3 Per una disamina di questo tema cruciale sono da vedere di R. Simone sia il saggio ormai classico La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari 2000, sia il libro, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti, Milano 2012.
4 Martha Nussbaum, Il potere del sapere, in «Internazionale», n. 870, 2010, p. 41.
5 Cfr. F. Nietzsche, Su verità e menzogna, Bompiani, Milano 2006.
6 P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in Pasolini, Tutte le opere, tomo I, Mondadori, Milano 2003, p. 821.
7 Cfr. Y. Citton, L’avenir des humanités, Éditions La Découverte, Paris 2010.
8 Il riferimento obbligato è al classico studio di M. Asín Palacios, Dante e l’Islam, Nuove Pratiche Editrice, Parma 1994 (rist.Dante e l’Islam. L’escatologia islamica nella Divina Commedia, Net, Milano 2005).
9 Per un approccio radicalmente anti-utilitaristico alla questione in oggetto si veda il saggio di N. Ordine, L’utilità dell’inutile. Manifesto. Con un saggio di Abraham Flexner, Bompiani, Milano 2013.
10 Cfr. L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, 6 voll., Garzanti, Milano 1971-1977.
11 P. Veyne, “Humanitas: Romani e no”, trad. it. in A. Giardina, L’uomo romano, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 387.
12 K. Marx, Il capitale, trad. di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1967⁶, p. 33.
13 Chiedo venia al cortese lettore per la mancata indicazione dell’opera e del passo in cui compare questo aforisma dall’inconfondibile sapore brechtiano. Infatti, pur avendo setacciato in lungo e in largo i testi del grande scrittore tedesco, non sono riuscito a individuare il luogo in questione e ho dovuto affidarmi unicamente alla mia memoria.
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