Il cadavere nel pozzo
di IL PEDANTE
Restando sul tema che ha motivato la sospensione di questo blog, ho seguito con interesse le risposte date dall’onorevole Stefano Patuanelli, capogruppo M5S al Senato, al pubblico di una trasmissione locale andata in onda il 26 ottobre scorso a proposito del disegno di legge n. 770, che porta la sua firma. Il DDL, che si candida a sostituire la legge Lorenzin in tema di vaccinazioni obbligatorie e il cui testo è oggetto di audizioni in Senato in questi giorni, è già stato qui criticato in quanto, collocandosi in perfetta continuità con la norma varata dal governo precedente, ne moltiplica i difetti ampliandone la forza sanzionatoria, la portata e i destinatari.
Ai lettori – fortunatamente pochi – che ancora si interrogano su quanto sia giustificata l’attenzione ormai quasi esclusiva che dedico al nuovo obbligo vaccinale, dovrebbe bastare il fatto che in tutta la storia d’Italia – inclusa, quindi, quella caratterizzata da ondate epidemiche oggi sconosciute – non si era mai assistito a un’imposizione farmaceutica di massa di queste proporzioni e alla collegata limitazione dei più elementari diritti sociali. Come è logico aspettarsi, la riduzione dei casi di malattie infettive si era invece accompagnata, fino all’anno scorso, a un progressivo allentamento dei già blandi obblighi di vaccinazione senza peraltro incidere negativamente sulle coperture – sempre in aumento – né sui contagi – sempre in diminuzione. O dovrebbe ancora prima bastare l’altrettanto inaudita pressione ricattatoria esercitata sui professionisti della sanità che – lo ripetiamo: per la prima volta nella storia nazionale – devono oggi temere provvedimenti disciplinari qualora, in scienza e coscienza, fornissero ai propri assistiti il «consiglio di non vaccinarsi». Ho descritto gli intuibili effetti che questa militarizzazione del personale sanitario sta producendo sull’indipendenza dei medici e quindi sulla fiducia dei pazienti – e quindi sulla loro salute – nel libro Immunità di legge. Gli stessi allarmi erano stati lanciati, tra gli altri, dal prof. Ivan Cavicchi in un lucido editoriale del settembre scorso. Più recentemente l’autorevole rivista medica La revue Prescrire ha denunciato come l’obbligo plurivaccinale che da quest’anno colpisce anche i piccoli francesi sia frutto dell’«incapacità di sostenere gli operatori sanitari nel loro ruolo di mediatori, fornendo dati non influenzati dalle opinioni per quantificare i rischi e i benefici».
Se da un lato è risibile che l’aumento della minoranza presunta «novax» abbia cagionato le presunte «epidemie» di morbillo (il calo 2014-2016 ha interessato i duenni, pari nei tre anni a un sovrastimato – perché al netto di ritardatari, recuperati ed esentati – 0,09% della popolazione complessiva, laddove l’età mediana dei contagiati è stata di 27 anni, mentre non esiste alcuna correlazione tra coperture e contagi a livello regionale), dall’altro non è spiegabile perché l’eventuale outbreak di una malattia – quasi certamente non eliminabile con la profilassi in uso – debba giustificare la vaccinazione perentoria contro altre undici malattie, poi ridotte a nove. In compenso, sappiamo da recenti studi europei che l’obbligatorietà non è uno strumento efficace per promuovere una maggiore adesione del pubblico alla profilassi.
Che cosa resta, quindi? Come minimo, l’ennesimo esercizio di mercimonio dei diritti al consumo, la confermata fiaba di un mercato «libero» predicato solo a chi non se lo può permettere per consegnare ai grandi i comfort di un mercato coatto e schedulato dal legislatore. Ma, molto più gravemente, anche un inedito esperimento di subordinazione dei diritti sociali a una somministrazione continuativa, massificata e coatta di prodotti farmaceutici. Da qui nasce una concorrenza tra diritti ugualmente fondanti: da un lato quello all’inviolabilità della persona (Costituzione, art. 13) la cui cessione eccederebbe ampiamente la misura dei«limiti imposti dal rispetto della persona umana» (art. 32) perché non motivata da malattia, incapacità o urgenza, dall’altro quello allo studio (art. 34), al lavoro (art. 4) e, nelle intenzioni mai sopite della prima bozza Lorenzin, addirittura alla genitorialità (art. 30). Da irrevocabili, i diritti sociali diventano così un premio da riservare a coloro che si piegano a una disciplina di massadefinita da confini non prevedibili né negoziabili dall’assemblea del popolo (art. 1) perché dettati da commissioni tecniche che si pretendono al servizio di una reificata e insindacabile «scienza». Come già altre imposizioni tecniche, anche questa trarrebbe forza dal raggiungimento di soglie percentuali e totemiche (le coperture) il cui nesso con l’obiettivo asserito è postulato e indiretto: perché non misurano lo stato di salute o di immunità dei soggetti ma la loro compliance, la sottomissione al comando, sicché tendono ossessivamente a una quasi-totalità (il novantacinque per cento, successore del tre per cento economico) in onta a ogni criterio analitico. Questo esperimento, se riuscisse come è già in parte riuscito, ci avvicinerebbe a grandi passi ad altri e solo apparentemente lontani modelli di condizionalità dei diritti come quello dei crediti socialirecentemente introdotto in Cina.
Giacché i diritti sociali sono anche i pilastri su cui si fonda una comunità coesa, è anche naturale attendersi che il disegno di legge, qualora approvato nel suo testo base, acuirebbe ulteriormente gli effetti divisivi e persecutori già innescati dalla legge Lorenzin, con una minoranza renitente – e prevedibilmente sempre meno minoritaria, con l’aumento degli interessati – spinta ai margini della società e tra le fauci feroci del gregge, a rinverdire anche fuor di metafora i fasti della manzoniana caccia all’untore. In altre sedi, riferendomi alle esclusioni scolastiche dei minori non conformi ai piani vaccinali, ho impropriamente evocato un’analogia con il regio decreto legge n. 1390 del 5 settembre 1938 che escludeva i giovani ebrei dalle «scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale». Impropriamente, perché pochi giorni dopo i fascisti avrebbero stabilito, con il regio decreto n. 1630 del 23 settembre 1938, che «le comunità israelitiche possono aprire… scuole elementari, con effetti legali, per fanciulli di razza ebraica», mentre oggi si mobilitano i funzionari dello Stato per scovare e chiudere eventuali «asili abusivi» dove i piccoli sottratti all’iniezione potrebbero – distolga il Cielo! – giocare, cantare filastrocche, coltivare una vita sociale.
L’ipotesi migliore è che chi ha redatto il disegno di legge non abbia minimamente calcolato le sue conseguenze sociali. Facciamo un conto: con gli attuali e ben più blandi requisiti della legge Lorenzin, già oggi il 12,6% degli studenti delle scuole dell’obbligo in Lombardia non è in regola con il calendario vaccinale. Proiettando il dato campionario (che non include gli over 16, pure inclusi nel provvedimento), i minori irregolari sarebbero almeno 133.384 nella regione e 846.143 nella nazione. A questi corrisponderebbero più di 1 milione e 200 mila genitori a cui possono aggiungersi nonni, parenti e conoscenti «solidali». Anche assumendo il massimo effetto persuasivo dell’obbligo, con la nuova legge si metterebbero comunque a rischio centinaia di migliaia di carriere scolastiche (per dirne una: dopo cinquanta giorni di assenza, la bocciatura è d’ufficio) generando caos, dispersione scolastica ed emarginazione a livelli difficili da immaginare, perché mai registrati. E che dire degli «esercenti le professioni sanitarie» citati all’art. 5, comma 1 del provvedimento? E degli «operator[i] ed educator[i scolastici]» che, pur non menzionati nel testo, appaiono tra i destinatari auspicati sia nell’intervista di Patuanelli (minuto 14:12) sia nel corso dell’audizione in Senato del 30 ottobre, a una domanda rivolta al rappresentante dei presidi? Se gli insegnanti hanno già scaldato i motori della protesta alla mera ipotesi di un’estensione della Lorenzin, per i sanitari è sufficiente sommare la scarsa propensione di molti di loro a vaccinarsi – se non alle vaccinazioni tout-court – con le violente proteste esplose in Emilia Romagnaquando la Regione ipotizzò di imporre la MPR al personale di pochi reparti ospedalieri. Da questi segnali non è difficile preconizzare che un obbligo molto più ampio e severo scatenerebbe una mobilitazione tale da paralizzare a oltranza entrambi i settori, e quindi il Paese.
Scrivo che questa è appunto l’ipotesi migliore perché costringerebbe le autorità a ritirare il provvedimento, forse già prima della sua approvazione. Se invece questi esiti fossero stati previsti, se qualcuno li avesse già messi in conto, ciò dimostrerebbe la volontà di perseguire l’obiettivo nell’unico modo possibile, condizionando cioè al suo raggiungimento un lungo corredo di diritti non solo acquisiti ma anche costituzionali, sulla scorta di quanto si sta sperimentando oggi con i i più intoccabili: i piccolissimi. In effetti, se non dispiegando la forza pubblica, occorrerebbe persuadere i renitenti con la minaccia di perdere un diritto: ad esempio con il licenziamento, il demansionamento o la mancata assunzione, il decurtamento di benefici fiscali, pensioni e contributi da cui dipendono specialmente i più deboli (ad esempio così, o così), il negato rilascio o rinnovo di patenti e licenze, il divieto di accedere a strutture e mezzi pubblici, la sospensione delle prestazioni sanitarie gratuite (sì, è stato detto), l’aumento dei premi assicurativi sanitari o l’esclusione dalle polizze, la revoca della responsabilità genitoriale fino alla sottrazione dei figli, procedimenti penali e altro che lascio alla speculazione dei lettori. In breve, le declamate urgenze sanitarie servirebbero a smontare l’edificio dei diritti sociali e delle libertà individuali realizzando ciò che era solo in parte riuscito al loro simmetrico predecessore, il «fate presto» economico, e segnando così il fronte sinora più avanzato e violento dell’attacco «tecnico» all’ordine sociale.
Preoccupa infine, naturalmente, l’esito operativo di questo esperimento: la totalitarizzazione di un consumo farmaceutico imposto a chiunque e ripetutamente nel tempo, senza scampo e senza passare dal «via» dell’autodeterminazione propria o del dibattito di chi ci rappresenta. Questo esito non deve soltanto far temere le conseguenze in scala universale di eventuali effetti avversi – imprevisti o taciuti – di una o più formulazioni (gli esempi non mancano nella storia della farmaceutica, anche recente), né soltanto, nei casi dubbi, l’impossibilità di far valere la precauzione o il riconoscimento del danno nei confronti di una classe medica schiacciata dall’imperativo della vaccinazione («lei ha ragione, ma se firmassi un’esenzione mi ritroverei domani gli ispettori della ASL in ambulatorio», mi riferiscono testimoni), ma più ancora gli usi a cui può prestarsi un’infrastruttura parenterale fortissimamente desiderata e promossa che raggiunge ogni singolo organismo di ogni singolo membro della popolazione, con cadenze sempre più fitte, per introdurvi prodotti farmaceutici su cui è persino vietato interrogarsi. Escludere che questa infrastruttura non sia, né sarà mai in futuro, utilizzata per scopi diversi da quelli dichiarati richiede un atto di fede nei tecnici incaricati di decidere, sorvegliare e produrre che non tutti – legittimamente – sono disposti a sottoscrivere. Anche in questo caso, l’estensione di un potere così pervasivo, invasivo, ingiustificato e irrecusabile segnerebbe un primato assoluto nella pur tormentata storia dei rapporti tra cittadini e autorità.
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Fa quindi una certa tenerezza ascoltare dalla voce dell’on. Patuanelli che «probabilmente c’è un eccessivo parlare di vaccini» (minuto 9:00). Suvvia. Come se si stesse davvero parlando «di vaccini» e non, come si è visto, del più ambizioso esperimento mai osato di subordinazione dei diritti alla discrezione dei non eletti. Da persona onesta qual è, il senatore ce lo conferma in diretta: «[se] la commissione tecnica ci dirà che non c’è necessità di prevedere un obbligo vaccinale, non ci sarà alcun obbligo vaccinale» (minuto 4:50). Ecco. Sarebbe difficile trovare una definizione più perfetta e coincisa di tecnocrazia, dove i tecnici dettano appunto alla politica («ci dirà») non già gli elementi per decidere, ma la decisione stessa (la «necessità di prevedere un obbligo»). Una definizione e una procedura di cui non c’è ovviamente traccia nella seconda parte della nostra Costituzione, per motivi che i suoi estensori, provenendo da una dittatura, avevano ben compreso e vissuto.
Oltre che onesto, il capogruppo pentastellato appare anche persona di buon senso, ad esempio nel prendere le distanze dall’infantilismo epistemologico de «la scienza dice questo» (minuto 9:05). Ma in luogo di consolare, questa lucidità non fa che rendere più penoso il suo ossessivo convergere verso la tesi imposta – la messa in ostaggio dei diritti sociali a un obbligo sanitario universale e tecnoguidato – nello sforzo di fingerne l’ineluttabilità, anche secondo logica. Ascoltiamolo al minuto 12:33: «O decidiamo che i vaccini non servono… se invece riteniamo che la massima copertura vaccinale [in realtà nella proposta si parla di copertura minima per raggiungere l’immunità di gruppo, N.d.P] sia l’obiettivo per garantire la salute pubblica… dobbiamo anche dire che… l’accesso anche [!] scolastico deve essere limitato se uno, senza motivazione apparente, decide di non vaccinarsi». Più avanti (minuto 14:38) riformulerà il concetto: «O i vaccini non sono un valore, sono inutili e anzi sono dannosi – cosa che noi non riteniamo – e allora vanno bene tutti i ragionamenti “come è possibile allontanare ecc.”… oppure decidiamo che invece dobbiamo arrivare alla massima copertura».
Queste costruzioni dialettiche offrono un esempio classico di argumentatio ex post, dove premesse e sviluppo non servono a selezionare la conclusione ma si assoggettano fin dall’inizio a una conclusione già stabilita, a cui devono fornire un’impalcatura pseudo-razionale su cui poggiare. In punto logico, nulla infatti implica che se «i vaccini [quali?]» sono «un valore» si debba «arrivare alla massima copertura» e non, ad esempio, raccomandarli e promuoverli nei soggetti più a rischio. Men che meno c’è una necessità logica che lega il riconoscimento della massima copertura come «obiettivo per garantire la salute pubblica» al suo perseguimento mediante la limitazione dell’«accesso anche scolastico». Da molti anni i governi promuovono campagne per sensibilizzare i cittadini verso i rischi del fumo e dell’abuso di farmaci, o i benefici dell’attività fisica, di un’alimentazione corretta e dell’igiene personale, senza però sognarsi minimamente di limitare i diritti scolastici, lavorativi o di altro tipo di chi non si conforma. Eppure, il «valore» sanitario sotteso a queste raccomandazioni si quantifica in decine di milioni di morti evitabili – e anche, indirettamente, nella mancata contrazione di malattie infettive che metterebbero a rischio altrettanti milioni di vite. Non in poche unità, o in nessuna.
La fallacia apre la strada all’ultimo atto: la manovra orwelliana, l’inversione totale del messaggio elettorale. Scopriamo così al minuto 10:35 che le prescrizioni del decreto Lorenzin sarebbero «idiozie». Perché discriminano i bambini? Nossignore. Perché non discriminano tutti. Perché con quel testo «limito [l’obbligo] alla fascia dell’infanzia e non vaccino l’operatore sanitario, oppure non faccio andare a scuola i bambini zero-sei perché posso farlo, e invece dai sei anni in su, anche se non è vaccinato, pago la multa… e questa è un’idiozia totale». Sembra così di vedere plasticamente la staffetta, il testimone che passa intonso dalle mani dei cambiati a quelle dei cambiatori, per essere recapitato al traguardo.
Appare allora evidente che sul tema l’on. Patuanelli, come quasi tutti i suoi colleghi di governo e di opposizione, debba misurarsi non tanto con logica, coerenza e buon senso – di cui certamente non difetta – ma con un convitato di pietra da soddisfare, o più precisamente un cadavere: il cadavere gettato nel pozzo della democrazia dal governo precedente. Di quel cadavere marcescente non può liberarsi, neanche se lo volesse. Lo deve anzi alimentare. Perché lì deve restare, inchiodato sul fondo, e lì deve gonfiarsi fino ad avvelenare ogni fonte, a dispetto di tutto e di tutti: della logica, delle sue conseguenze, dell’opportunità politica, delle proteste degli elettori, del #cambiamento, dei mal di pancia degli stessi decisori. Perché? Per volontà di chi? Non ce lo spiega nessuno, né evidentemente può farlo. E questo fa paura.
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Quale sarà il destino del DDL n. 770? Sarà approvato con tutti i suoi corollari tossici o aleggerà come una finestra di Overton per farci accettare ciò che deve venire, o una sua versione ammorbidita o ancora, alla meglio, farci invocare la discriminazione già inaccettabile e ingiustificata della norma in vigore, come una liberazione? Si tratta in tutti i casi di esiti pericolosi che – così mi auguro di avere dimostrato ai pochi lettori e ai tanti elettori – giustificano l’attenzione non tanto al tema, ma al tentativo in corso di mutare la pelle di un vincolo esterno che, reso più feroce e più audace dalla sua metamorfosi, irriconoscibile sotto nuove bandiere, continua a vivere e a lottare contro di noi.
E l’urgenza di chiederne conto.
Fonte: http://ilpedante.org/post/il-cadavere-nel-pozzo
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