Milton Friedman, “Capitalismo e libertà”
Di TEMPOFERTILE (Alessandro Visalli)
Avevamo letto di Milton Friedman, più famoso esponente della “Scuola di Chicago”, il libro del 1980 “Liberi di scegliere”, e, da “Metodo, consumo e moneta”, il fondamentale articolo del 1953 “La metodologia dell’economia positiva”, per portare avanti la presa di contatto con uno dei pensieri di elaborazione della svolta neo-liberale si può prestare attenzione al libro del 1962 “Capitalismo e libertà”.
Come nel libro successivo c’è qualcosa di singolare e caratteristico nel modo di presentare le cose di Friedman, procede con un serrato argomentare rapido, sommario e dogmatico. Enumera una gran serie di fatti e di applicazioni, di carattere per lo più pratico, ovvero di policy, inframmezzandole con dichiarazioni astratte di principio che non dispiega ma enuncia. Ne deriva un periodare pieno di intrinseca autorità, proprio di un uomo che evidentemente si sente forte e sicuro di sé, e nei punti chiave sostituisce all’argomento, alla pretesa di verità affidata al consenso intersoggettivo, la fonte della propria autorità individuale; ne seguono espressioni come ‘io penso’, ‘sono convinto che’ che svolgono un ruolo strategico. Un periodare quasi del tutto indifferente alle obiezioni, anzi, un procedere che le nasconde sistematicamente.
Quel che Milton Friedman sta presentando in questo libro pensato per la grande distribuzione, per alzare una bandiera e raccogliere sotto di essa[1], è una sorta di nuovo vangelo.
Chiaramente ci sono lunghe tradizioni, una sorta di pensiero proto-anarchico o libertariano[2], incentrato su una visione della “libertà” intransigente e semplificata. Dirà subito che questa, la libertà, “è un fiore raro e delicato”, che non misura il valore dalle persone che lo condividono[3], e successivamente è “lo scopo ultimo”[4], e soprattutto “la libertà politica significa assenza di coercizione sull’uomo da parte dei suoi simili”, in conseguenza di questa definizione ristretta[5] continua “la minaccia più grande e più pericolosa alla libertà viene posta dal potere di costringere, a prescindere che esso si trovi nella mani di un monarca, di un dittatore, di un’oligarchia o di una momentanea maggioranza” (p.51).
Si tratta, a tutta evidenza di una definizione troppo ristretta e non operativa. Una definizione, dalle implicazioni anarchiche radicali, sulla cui base non è edificabile alcuna società, tanto meno complessa. Ma nessuna ulteriore discussione è posta, o argomentazione proposta, a difesa di questa traballante trincea, ad onta di una discussione millenaria sul tema.
Di seguito affermerà ancora più drasticamente che “qualsiasi forma di coercizione è inaccettabile”, perché l’unico mezzo giusto è la libera discussione e la cooperazione volontaria. Sulla base di questa pseudo-teoria non si capirebbe come “l’inaccettabile”, vada insieme alla definizione come “impossibile da realizzare” del sistema anarchico che logicamente ne seguirebbe[6], e di un campo d’azione del governo definito come “tutelare la nostra libertà dai nemici esterno che dai nostri concittadini: mantenere la legalità e l’ordine, far rispettare i contratti privati, favorire la concorrenza nel mercato” (p.34).
Quali sono i due evidenti bersagli di queste intemerate? Uno è chiarito in pratica nella prima frase del testo, si tratta de “La nuova frontiera” di John Fitzgerald Kennedy, che si insedia il 20 gennaio 1961 con un discorso la cui frase chiave viene ripresa all’avvio dell’introduzione da Friedman. Dove Kennedy dice “non chiedetevi cosa il vostro paese possa fare per voi, chiedetevi cosa voi potete fare per il vostro paese”, Milton Friedman obietta che “l’individuo libero non ammette che la nazione abbia un qualsiasi scopo che non sia la convergenza degli obiettivi che ciascuno dei suoi concittadini cerca autonomamente di realizzare”. Quella del Presidente che sarà assassinato a Dallas l’anno dopo l’uscita di questo libro, e che solleverà grandi speranze come aspre ostilità, è letta come una visione paternalistica, in quanto lascerebbe ad intendere che il governo sia il tutore e la controformula sarebbe “organicista” ed implicherebbe che il cittadino sia servo del governo o ne sia il fedele. Il governo è solo un mezzo, solo uno strumento, non un dispensatore di favori o di doni.
Nell’ampia parte che illustra ricette politiche, dunque, ci saranno obiezione verso le linee politiche concretamente portate avanti dall’amministrazione democratica: programmi contro povertà e disoccupazione, programmi per l’istruzione pubblica, programmi contro la segregazione razziale.
L’altro bersaglio, senza il quale la vis polemica del testo resterebbe poco chiara, e che è ovvio per un contemporaneo, ma va oggi esplicitata è l’Urss. Nel 1953 era morto Stalin e dopo una fase confusa e violenta era stato nominato Primo Segretario Chruscev, nel 1956 questi aveva pubblicamente denunciato i crimini del suo predecessore e nel 1958 era stato eletto Premier. Siamo nella prima fase di de-stalinizzazione e ovunque nel libro viene richiamato l’esempio ‘socialista’ come esempio di distruzione della libertà ed oppressione.
All’azione del governo democratico, e sostenuto dalla maggioranza, non viene concesso nulla. Anche se non è esplicitato, come lamenterà[7] nella Prefazione all’edizione del 2002, che la libertà politica potrebbe andare in contraddizione con la libertà economica, e soffocarla, e dunque, come avvenne in Cile nel 1973 debba essere sacrificata[8].
Nel libro ci sono una serie di assunzioni che legittimano la rispondenza all’interesse comune (che non chiama “generale”), come migliore somma degli interessi individuali, ed al contempo rispetto del criterio superiore della “libertà”. Tra queste vale ricordare:
– la libertà genera la varietà essenziale alla sperimentazione, e questa eleva tutta la società, per cui anche “in meno abbienti di domani vivranno meglio della media di oggi”. Insomma, la promessa che legittima la priorità alla libertà è della crescita.
– il mercato, in quanto in grado di ottenere “unanimità senza conformità”, ovvero cooperazione volontaria senza costrizione, rafforza la coesione sociale, “essenziale per una società stabile”[9].
– tramite il libero commercio “la cooperazione tra individui può abbracciare il mondo intero ed essere del tutto libera” (p.126).
– l’aumento della spesa pubblica non necessariamente ha un effetto di stimolo dell’economia, ma questa è una “questione empirica”, in quanto dipende dalle circostanze al contorno (p.140).
– il capitalismo è la migliore opportunità per le minoranze razziali, in quanto chi discrimina danneggia se stesso, ed è quindi irrazionale, perché limita le proprie scelte (p.174).
– l’essenza del mercato in regime di concorrenza (non di monopolio), è la sua impersonalità, dunque nel mercato si coopera (attraverso i prezzi) e non c’è rivalità personale.
– le ineguaglianze sono risultato del caso e della fortuna (p.249).
– sostituire cooperazione spontanea con costrizione fa ridurre l’ammontare delle risorse disponibili (p.250).
– il capitalismo produce meno ineguaglianze del socialismo e di fatto le ha ridotte (p.253).
– il capitalismo garantisce “notevole mobilità sociale”.
– l’eguaglianza (dei risultati) è in conflitto con la libertà e bisogna scegliere (p.290).
– il divario tra il funzionamento concreto e quello ideale del mercato non è nulla in confronto alla disparità tra gli effetti reali degli interventi dello Stato e quelli previsti dai loro fautori (p.292).
– le società capitaliste sono meno materialiste di quelle collettiviste (p.296).
Davvero un elenco notevole, chiaramente alcune affermazioni sono pura polemica politica, alcune sono dirette verso l’immagine che l’autore si è fatto del socialismo sovietico, che in quegli anni avvia il suo definitivo discredito. Altre nominano come “capitalismo” proprio l’assetto welfaristico e l’esperienza del “New Deal”[10] che combatte aspramente, ed in questo senso segano il ramo sul quale sono sedute.
Quando, comunque, si deve avere intervento del governo (oltre ai compiti di polizia) per cause economiche, ovvero per risolvere casi di monopoli naturali e di esternalità, ci sono tre alternative:
– si può ricorrere ad un monopolio privato,
– si può cercare di instituire un monopolio pubblico,
– si può puntare solo sulla regolazione.
Chiaramente, date le sue premesse, per Friedman il “male minore”[11] è il primo, con pochissime eccezioni. Occorre sempre evitare l’intervento paternalistico del governo e liberalizzare quante più attività è possibile.
Nel capitolo sul controllo della moneta, Friedman, dopo aver ribadito la sua tesi secondo la quale la Grande Depressione, lungi dall’essere stata provocata dal mercato sregolato degli anni venti e dalle tensioni non risolte che abbiamo descritto nel post sul “New Deal”, sarebbe stata determinata, “come gli altri periodi di grande disoccupazione”, dalle “cattive scelte delle autorità e non da un’ipotetica instabilità connaturata all’economia privata”[12]. Ma è molto indicativo, per saggiare la qualità dell’argomentazione, il modo in cui l’autore porta il discorso:
“negli ultimi decenni i concetti di ‘piena occupazione’ e di ‘crescita economica’ sono stati le principali motivazioni ad ampliare l’intervento pubblico nelle questioni economiche. Si sostiene che un’economia basata sulla libera impresa sia intrinsecamente instabile e che, lasciata a se stessa, sia destinata a causare cicli ricorrenti di espansione e recessione. Pertanto il governo deve intromettersi al fine di far procedere l’economia senza inutili scossoni. Queste argomentazioni sono risultate particolarmente efficaci durante e subito dopo la Grande Depressione degli anni trenta, quando hanno rappresentato uno dei principali elementi per giustificare l’instaurazione del New Deal negli Stati Uniti e di analoghi ampliamenti dell’intervento pubblico in altri paesi. Negli ultimi anni lo slogan più popolare è stato l’appello alla ‘crescita economica’ : il governo, così si sostiene, deve far sì che l’economia si espanda in modo da produrre le risorse necessarie per la prosecuzione della Guerra Fredda e dimostrate alle nazioni del mondo che ancora non hanno scelto di schierarsi che una democrazia può crescere più rapidamente di uno Stato comunista.
Queste tesi sono completamente insensate: il fatto è che la Grande Depressione, come la maggior parte degli altri periodi di grande disoccupazione, venne causata dalle cattive scelte fatte dalle autorità e non da un’ipotetica instabilità connaturata all’economia privata. […] quella che sarebbe stata una modesta contrazione dell’economia divenne un’autentica catastrofe”. (p.82)
Una tesi storiografica, peraltro ormai minoritaria, che esalta alcuni specifici errori di timing nelle politiche di contrasto della crisi, tra l’altro condotte per ragioni simili a quelle della sua parte politica, viene insomma da Friedman strumentalizzata per sostenere in modo netto ed apodittico, con grande violenza verbale, che il capitalismo non sarebbe mai soggetto ad oscillazioni. Una tesi storicamente molto ardita, data la costanza, con qualsiasi teoria economica soggiacente, almeno dalla fine del settecento, di periodi di crisi alternati a periodi di boom, con una regolarità più volte e da molti misurata.
Nella parte del libro che tratta dell’alternativa tra Gold Standard e libera fluttuazione delle monete, quella più tecnica, si cerca comunque una qualche via “tra Scilla e Cariddi”. E nella navigazione si fa guidare dalla stella polare del timore del liberale per la concentrazione del potere (pubblico). Dunque si fa guidare dal prevalente timore di poter abusare della libertà che fornisce una “moneta fiduciaria”, ed anche un sistema bancario a riserva frazionaria. La conclusione è che si deve preferire essere guidati da regole e non dall’autorità. Quindi da una Banca Centrale del tutto indipendente, la cui unica missione sia mantenere la massa monetaria (e per questa via la stabilità dei prezzi).
Lasciare liberi gli scambi valutari è l’altra necessaria condizione. Infatti il controllo sugli scambi determinano automaticamente una società ad economia pianificata (non a caso si tratta di una delle misure iniziali del “New Deal” rooseveltiano), il motivo è che il provvedimento conduce necessariamente al contingentamento delle importazioni ed all’imposizione di controlli sulla produzione interna (tentati nel “New Deal”).
Se si vuole avere equilibrio nei pagamenti internazionali, per sanare uno squilibrio causato da differenziali di efficienza, sono disponibili solo quattro meccanismi possibili:
1- si possono diminuire le riserve di valuta estera (o aumentare le valute estere della propria moneta),
2- si possono obbligare i prezzi interni a diminuire (ed è il meccanismo di adattamento nel “genuino gold standard”), infatti una caduta dei prezzi e dei redditi del paese è provocata dalla riduzione della massa monetaria, e questa ribilancia il commercio estero,
3- gli stessi effetti della disoccupazione interna e deflazione, o della inflazione nelle controparti, può essere ottenuta da una variazione dei tassi di cambio, cioè attraverso svalutazione e rivalutazione dei cambi delle monete,
4- è possibile anche avvalersi di interventi o controlli diretti degli scambi da parte delle autorità, ad esempio aumentando le tariffe doganali (più delle controparti).
Per Friedman, che non a caso al momento dato sarà contrario al progetto dell’Euro, che neutralizza i meccanismi 1, 3, 4 e lascia l’unica scelta della dolorosa deflazione competitiva, la soluzione più conforme al libero mercato sono tassi fluttuanti. Ma bisogna chiarire bene che “fluttuanti”, significa proprio lasciati liberi di fluttuare senza alcun intervento correttivo, ovvero “senza interferenze”.
Se fluttuassero senza alcun intervento di manipolazione, ritiene Friedman, anche le eventuali differenze nei livelli salariali sarebbero compensate dai valori delle monete ed il mercato si aggiusterebbe da solo.
Segue la costruzione di un argomento contro la spesa pubblica per combattere la disoccupazione ciclica: in sostanza ritiene che il “volano di stabilizzazione” keynesiano non sia equilibrato, e tenda a prendere la mano ai suoi utilizzatori. Seguendo una logica che contemporaneamente si stava mettendo a punto nella Scuola di Charlottesville, nell’Università della Virginia, gli stimoli tendono a non essere più abbandonati quando la crisi rientra, e peraltro ottengono per lo più i loro risultati, a causa di un normale ritardo nel rilasciare l’azione, solo quando non servono più. Avrebbero, quindi, in sostanza effetti distorsivi.
Più in generale l’intera filosofia del welfare state è attaccata, insieme alla consistenza del “moltiplicatore”. L’argomento qui è di ultima istanza: non potendone negare l’esistenza si rifugia nell’individuare alcuni casi limite nei quali potrebbe non esserci per concludere che “è questione empirica” (p. 140). Ne ammette l’utilità solo nelle condizioni di “trappola della liquidità” (che sono, detto per inciso, quelle in cui noi ora ci troviamo). Se non c’è una massa adeguata di capitale giacente sottoutilizzato, allora la spesa pubblica, sostiene, rischia di spiazzare analoga spesa privata e ciò dimostrerebbe che può aversi qualsiasi risultato.
Seguono proposizioni contro la pubblica istruzione, in favore di scuole private, norme contro la discriminazione che sono sostanzialmente inutili perché il capitalismo lo fa da sé (p.175), la legislazione sul diritto al lavoro (p.181), numerosi sofismi per neutralizzare la possibilità stessa di individuare imprese monopolistiche, se private (p.190). Ammissione dell’esistenza e della rischiosità, al converso, dei monopoli pubblici e di quelli sindacali. In particolare questi ultimi, modificando il punto di equilibrio dei salari, ridurrebbero l’occupazione (p.193).
Ma c’è anche di più, Milton Friedman sostiene che ognuno deve essere libero anche di sbagliare, e dunque lo Stato non deve immischiarsi a controllare, rilasciando licenze, se un medico sia competente, se un ingegnere sappia calcolare uno stadio. In sostanza si tratta di residui medioevali del sistema delle corporazioni, “se non c’è la certificazione sono fatti nostri” (p.227).
Chiaramente non vanno bene neppure le case popolari (si deve eventualmente intervenire fornendo denaro e non case), la legislazione sul salario minimo (che provoca disoccupati), il sostegno ai prezzi agricoli, le pensioni di vecchiaia, il soccorso ai poveri (da sostituire con la beneficienza privata ed al massimo con una imposta negativa sul reddito).
Infine, spende una finale argomentazione contro il sistema progressivo di tassazione e per la flat tax (p.261).
Nelle conclusioni, oltre un riepilogo generale delle policy proposte, Friedman ricorda l’esempio sovietico e quello del “New Deal”, del quale denuncia l’inefficacia con la sola eccezione, ma insufficiente delle autostrade, delle dighe, dei satelliti, del sistema scolastico e degli interventi sanitari.
Un bilancio, insomma, deludente.
Alla fine con il capitalismo va tutto bene per definizione, e de qualcosa ancora va storto, allora bisogna solo avere pazienza, “le libere istituzioni affrontano la via più certa, seppure talvolta più lenta, del potere coercitivo dello Stato”.
Peccato che la via più certa ci abbia riportato nella Grande Depressione, e ci tenga fermi in essa da dieci anni (dove ciò non è accaduto, ovvero in parte del mondo anglosassone, è solo per un protagonismo senza precedenti della odiata mano pubblica). Se, insomma, come proponeva nel suo saggio metodologico del 1953, tutte le previsioni della scienza economica tanto accuratamente costruita dal nostro sono state sistematicamente e senza eccezione contraddette, e secondo i suoi termini “non ha avuto successo”.
Da alcuni decenni la ricchezza mediana si abbassa, il mercato lasciato a se stesso (o meglio, puntellato da istituzioni guardiano molto occhiute) sta distruggendo la coesione sociale, la cooperazione continua a diminuire in favore della generalizzazione della concorrenza quando non del conflitto, il capitalismo continua a produrre minoranze oppresse, le ineguaglianze sono esplose, la mobilità sociale è scomparsa, la società non è mai stata così materialista.
Il capitalismo, insomma, ha fallito la prova di Friedman, e a conti fatti la sua libertà è per troppi pochi perché sia interessante.
Bisognerà cercare altre vie.
[1] – Ma che, nello spirito dei tempi, ebbe poco impatto immediato, ottenendo i suoi frutti solo dopo, quando la sconfitta del Vietnam, e la situazione degli anni settanta, ridusse il fascino dell’azione pubblica.
[2] – Che Friedman ad un certo punto evocherà pure, dichiarando la simpatia per idee anarchiche ma anche la loro non necessità.
[3] – La frase esatta è: “ma chi crede alla libertà non misura il valore di un’idea contando le teste delle persone che la condividono” (p.43), un evidente approccio anti-maggioritario anche questo con lunghe tradizioni nella radice madisoniana della democrazia americana, si veda, ad esempio il ben libro di Alan Taylor “Rivoluzioni americane”.
[4] – “Da buoni liberali riteniamo che, quando dobbiamo giudicare l’ordinamento e le strutture di una società, la libertà dell’individuo o eventualmente della sua famiglia, rappresenti lo scopo ultimo” (p.47).
[5] – Per un’ampia critica si veda Axel Honneth, “Il diritto della libertà”
[6] – Dirà, infatti: “per quanto attraente possa apparire, dal punto di vista filosofico, l’anarchia, si tratta di un sistema impossibile da realizzare in un mondo popolato da individui imperfetti” (p.64).
[7] – Scriverà: “Oggi ritengo che un grave difetto di questo libro consista nell’inadeguatezza della disanima del ruolo della libertà politica, che in determinate circostanze può favorire le libertà economiche mentre in altri casi al contrario può soffocarle”, a tutta evidenza si tratta di sapere chi vince le elezioni. Se lo fanno le sinistre, tanto più se socialiste, le soffocano, se lo fanno le destre va bene (la cosa come noto si è risolta facendo diventare destra economica la sinistra politica).
[8] – Come noto il 11 settembre 1973 in Cile fu attuato dal generale Pinochet un colpo di stato contro il presidente socialista democraticamente eletto Salvador Allende. Il colpo di stato fu organizzato dalle élite economiche locali, che si sentivano danneggiate dalle politiche popolari portate avanti dal Presidente, con il decisivo appoggio del Dipartimento di Stato americano e della Cia, oltre che di alcune multinazionali presenti nel paese e preoccupate per il programma di nazionalizzazione. Sin dagli anni cinquanta gli Stati Uniti avevano finanziato programmi di addestramento di economisti cileni con borse di studio presso l’università di Friedman. I cosiddetti “Chicago boys”, che venivano dall’Università Cattolica di Santiago, quindi presero la guida economica del paese, promovendo un drastico programma di implementazione della “libertà economica”, ovvero nelle condizioni favorevoli di totale assenza della “libertà politica”, di privatizzazioni, liberalizzarono pesca, raccolta del legname con drammatici effetti sulle popolazioni locali, in particolari indio, privatizzarono la previdenza sociale, agevolarono gli investimenti stranieri, spinsero sulle esportazioni e negoziarono prestiti con il FMI. Fino al 1982 sembrò andare bene e poi crollò, insieme al debito latinoamericano, in una delle ricorrenti crisi di fiducia della finanza internazionale.
[9] – Infatti, come parte della antropologia negativa del liberalesimo, che “concepisce l’uomo come un essere imperfetto e ritiene che il problema dell’organizzazione sociale si concreti nella questione negativa di come impedire che individui ‘cattivi’ possano arrecar danno” (p.47), si postula che “qualsiasi eventuale ampliamento del ventaglio di problemi per i quali è necessario un accordo esplicito non può che sottoporre a ulteriori tensioni le delicate fibre che tengono insieme la società” (p.62). Qui viene giocato il sempiterno esempio delle guerre di religione.
[10] – Si veda Kiran Klaus Patel, “New Deal”.
[11] – Per il carattere indicativo di una tradizione di pensiero di questa locuzione, si veda Jean-Claude Michéa, “L’impero del male minore”.
[12] – Questa affermazione che include uno dei più potenti dogmi dell’economia marginalista, che si postula sempre tendente all’equilibrio, è relativa al suo libri sulla “Grande Contrazione, il 1929-33”
Fonte: https://tempofertile.blogspot.com/2019/01/milton-friedman-capitalismo-e-liberta.html
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