Giorgio La Pira è stato uno dei più grandi statisti e diplomatici della Prima Repubblica ed il suo pensiero geopolitico ha plasmato profondamente la visione che suoi contemporanei e successori hanno avuto del ruolo dell’Italia nel mondo. Fiero patriota, devoto cattolico, membro dell’Assemblea costituente, collaboratore e amico di altri personaggi chiave del dopoguerra come Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Enrico Mattei, Aldo Moro, Giulio Andreotti, e i pontefici Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, La Pira è stato sicuramente uno dei difensori più versatili dell’interesse nazionale.
Parlamentare, missionario, scrittore, accademico, e per due volte alla guida di Firenze, dalla quale fu ribattezzato il Sindaco santo per via delle sue virtù, La Pira è stato anche un importante geopolitico, capofila di una visione per l’Italia da lui chiamata la geografia della grazia, fortemente influenzata dalla geopolitica della fede del Vaticano. Se in Italia dovesse mai avere luogo un risveglio di qualche sorta, capace di riportare la qualità della classe politica nazionale ai fasti della Prima Repubblica, si potrebbe ripartire proprio dal pensiero di La Pira, congruo e complementare sia con il neoatlantismo di Fanfani e Mattei che con il terzomondismo filoarabo di Craxi e Andreotti.
Il sindaco santo vedeva come un interesse nazionale la trasformazione dell’Italia in un intermediario superpartes tra blocchi contrapposti, Occidente e impero sovietico o mondo islamico ed Israele, capace di assumere un tale ruolo sia per il suo posizionamento geostrategico che per la presenza del Vaticano. L’Italia non avrebbe più dovuto combattere conflitti, ma spingere alleati e rivali sul tavolo delle trattative con l’obiettivo di allontanare lo spettro di una terza guerra mondiale, lavorando inoltre per un ritorno dell’Europa al vero cristianesimo.
La Pira, in quanto profondamente timorato del Divino, temeva l’eventualità di una possibile ricaduta del mondo nel buio della guerra planetaria e ciò che essa avrebbe comportato ai fini del giudizio finale dell’umanità. Lavorò fino alla fine dei suoi giorni, al servizio di due agende, ossia quella italiana e quella vaticana, per rendere le relazioni internazionali realmente incardinate sul mutuo rispetto e la pace. Per conto di entrambi i paesi si premurò di studiare carteggi, effettuare viaggi diplomatici, intrattenere e costruire relazioni con capi-nazione di rilievo, procurandosi un potere e prestigio impossibili da acquisire per un semplice parlamentare.
Durante il suo primo mandato alla guida di Firenze, nel 1952, organizzò il Primo convegno internazionale per la pace e la civiltà cristiana, avente l’obiettivo di coltivare e promuovere rapporti di qualità tra i politici di tutti i paesi del mondo. Tre anni dopo, sempre su sua iniziativa si svolse il Convegno dei sindaci di tutto il mondo a Palazzo Vecchio, la prima iniziativa del suo genere, a cui parteciparono i sindaci delle capitali dell’Europa occidentale e orientale sottoscrivendo un comune appello contro gli arsenali nucleari. Con La Pira, Firenze rubò a Roma lo scettro di centro della diplomazia nazionale, mentre l’Italia iniziò a fare i primi, timidi passi sullo scacchiere mondiale del secondo dopoguerra.
Giorgio La Pira ricorda Enrico Mattei
Nel 1958 fu l’autore dei Colloqui Mediterranei, una piattaforma di dialogo intercontinentale destinata sia a leader europei che della regione Medio Oriente e Nord Africa. All’evento partecipò anche una delegazione israeliana. Nello stesso anno ricevette a Palazzo Vecchio un rappresentante della Repubblica Popolare Cinese direttamente giunto da Pechino, suscitando un notevole clamore – all’epoca l’Italia, infatti, riconosceva legittimità di governo esclusivamente a Taiwan. L’anno seguente fu invitato a Mosca, dove tenne uno storico discorso davanti al Soviet Supremo in favore della distensione e del disarmo.
Il suo viaggio fu fonte di profonda discordia tra gli Alleati, che fecero pressioni all’Italia affinché non gli fosse concesso di partire. La Pira, alla fine, partì ugualmente e parlò in difesa della pace mondiale e della necessità di dialogo tra i due blocchi, senza ricevere alcun benestare ufficiale da parte dell’esecutivo. Ma per lui non era importante l’approvazione dell’Italia, quanto quella del Vaticano (che ottenne) dal momento che si considerava un diplomatico al servizio del Vangelo, impegnato affinché il bene supremo trionfasse sulla malignità imperante nel mondo.
La fine pacifica della guerra fredda diventò la sua ossessione. Negli anni della crisi missilistica e della guerra del Vietnam, riuscì a riunire a Firenze la nona sessione della tavola rotonda Est-Ovest sul disarmo, e a ricevere Alexei Adjubei, il genero di Nikita Kruscev, per discutere di un possibile disgelo diplomatico. Il 1965 fu l’anno della svolta. Lasciò l’Italia in direzione di Hanoi, per incontrare personalmente Ho Chi Minh, il leggendario leader dei rivoluzionari comunisti vietnamiti.
Il viaggio fu lungo e costellato di fermate intermedie strategiche: Varsavia, Mosca, Pechino. Pur rappresentando un piccolo paese, tra l’altro estraneo alla guerra del Vietnam, La Pira riuscì a convincere Ho Chi Minh a lavorare ad un accordo di tregua a quattro mani da proporre a Washington. Tornato in Italia, La Pira consegnò le condizioni avanzate dal leader vietnamita ad Amintore Fanfani, che a sua volta lo presentò l’anno seguente a Lindon Johnson, l’allora presidente degli Stati Uniti. Come è noto, la proposta di tregua fu rifiutata, perché ritenuta eccessivamente pro-vietnamita da Johnson. Soltanto nel 1973, dopo migliaia di morti e milioni di dollari spesi inutilmente, gli Stati Uniti uscirono dal conflitto, tremendamente sconfitti, assistendo all’unificazione dei due Vietnam sotto la bandiera della rivoluzione comunista.
All’indomani della morte di Salvador Allende, conosciuto personalmente durante una visita ufficiale in Cile, scrisse un telegramma di sdegno e denuncia ad Augusto Pinochet, ammonendolo attraverso alcune parole di Gesù contenute nel Vangelo secondo Matteo: “Qui Gladio ferit, gladio perit”. Passò gli ultimi anni della sua vita continuando ad occuparsi del dialogo tra cristianità e islam e tra Ovest ed Est, facendo leva sull’influenza acquisita dalla Federazione Mondiale delle Città Unite per spingere i paesi dei due blocchi ad approfondire il dialogo sul disarmo.
Il lapirismo è stato probabilmente una delle visioni geopolitiche più sagge, realiste e lungimiranti partorite dal pensiero politico italiano del secondo dopoguerra; una dottrina unica nel suo mescolare elementi escatologici, come il fatalismo ebraico isaiaco e il millenarismo neotestamentario, al pragmatismo di necessità dell’uomo politico, con l’obiettivo ultimo di condurre il mondo alla salvazione per mezzo della diffusione dell’autentico messaggio di pace del cristianesimo.
Nel realismo di La Pira non c’è spazio per il pessimismo morgenthauniano, emerso negli Stati Uniti agli albori della guerra fredda, che ritiene gli uomini naturalmente tendenti alla malvagità, considerando la bellicosità delle relazioni internazionali un semplice riflesso di ciò e l’equilibrio di potenza l’unica soluzione possibile, per quanto fragile, ai fini del mantenimento della pace mondiale. È invece l’ottimismo cristiano a caratterizzare il lapirismo, nella speranza che la ragionevolezza e la giustizia prevalgano su irrazionalità, egoismi, inimicizie e rivalità, a maggior ragione in un’epoca di distruttività quale quella contemporanea, in cui una guerra mondiale atomica condurrebbe l’umanità all’estinzione.
La Pira è morto, ed insieme a lui è scomparsa anche l’idea di “geopolitica come geografia della grazia” in luogo di uno strumento per portare avanti disegni egemonici. Il suo pensiero, insieme a quello di Mattei, Fanfani, Moro, Andreotti e Craxi, è l’espressione più iconica di quello che l’Italia ha significato nel secolo scorso e potrebbe ancora significare oggi: un paese con un ruolo speciale nel mondo, ossia la diffusione dell’arte della pace.
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