Cosa fa la vita alla politica
di LE PAROLE E LE COSE (Eduard Louis)
[Pubblichiamo questo saggio di Édouard Louis, inedito in italiano, intitolato Ce que la vie fait à la politique, contenuto nel volume da lui curato Pierre Bourdieu. L’Insoumission en héritage (Puf 2013). La traduzione è di Giuseppe Carrara. Si ringrazia l’autore per averne permesso la pubblicazione].
I
Per molto tempo ho creduto che la politica fosse il nome di una maledizione. Una maledizione che si abbatteva sui poveri, sui deboli, come si diceva nella mia famiglia, generazione dopo generazione, un po’ sul modello delle tragedie di Sofocle o Euripide che ho letto più tardi nel mio percorso e nelle quali gli individui di uno stesso lignaggio sono perseguitati a turno, uno dopo l’altro, e appunto senza potervi scampare, senza poter fuggire poiché non esiste un altrove o un fuori dalla maledizione, poiché la resistenza o la sottomissione più totale conducono alle stesse conseguenze sulle loro vite; credevo che la politica non si accanisse che sui poveri nella misura in cui, semplicemente per contrasto, non riguardava mai i ricchi, era questa l’impressione che avevo guardandoli: diciamo la borghesia, i dominanti, non importa il termine.
Nella mia infanzia, la politica cambiava tutto. Ci faceva paura (quando dico paura, non parlo di un vago timore o di un sentimento di costernazione che si riscontra nelle classi dominanti in occasione di una nuova riforma, ma di una vera e propria angoscia, di uno stato di torpore di fronte alla certezza che la quotidianità non sarebbe più stata sicura, che non si arriverà alla fine del mese). Avevamo paura delle riforme che sopprimevano i sussidi sociali o le decisioni del governo di non rimborsare più certi farmaci, e al contrario festeggiavamo a parole per mesi, ogni giorno al caffè, alla panetteria o nella piazza del paese (una piccola piazza asfaltata da poco, un monumento ai caduti della Prima Guerra mondiale, come ne esistono in molti paesi, ricoperto di muschio e edera alla base, la chiesa, il municipio e la scuola che circondano la piazza), festeggiavamo per mesi l’istituzione di nuovi sussidi sociali, dicevamo è abbastanza per mettere un po’ di burro sugli spinaci. Un giorno in cui l’assegno previsto per l’inizio dell’anno scolastico era di molto aumentato, mio padre, con una gioia che manifestava raramente poiché la maggior parte del tempo il suo ruolo di «uomo di casa», come diceva lui, lo costringeva a non mostrare i suoi sentimenti, tanto meno la gioia, aveva sbottato: domenica andiamo al mare, e siamo effettivamente partiti in sei con l’auto a cinque posti, io ero salito nel bagagliaio – era il mio posto preferito. Abbiamo vissuto questa giornata come una lunga festa.
Il ritmo della nostra vita era la politica.[1] Aveva sempre l’effetto di una tempesta sul quotidiano, e più tardi, nella mia vita adulta, non ho ritrovato questa tempesta negli altri gruppi sociali, nelle classi più privilegiate, durante i cambi di governo o quando una grande riforma era entrata in vigore, io non vi ho visto quella rottura; da qui la mia certezza, che è durata più o meno a lungo, che la politica non riguardasse che i dominati.
Ho compreso, in seguito, che questa sensazione era in parte falsa. La politica ha permesso, nel corso della storia, di produrre dei quadri giuridici, delle protezioni e delle condizioni di esistenza e di sviluppo per le minoranze – che possono appartenere alle classi economicamente dominanti – e soprattutto, la politica rappresenta, molto spesso, il mezzo attraverso il quale i dominanti si assicurano i loro privilegi e la loro dominazione. Ma quell’idea è rimasta in me e, malgrado tutte le argomentazioni che potevo elaborare, tornava in superficie regolarmente, non riuscivo a eradicarla, perché credo che quella sensazione, malgrado le obiezioni che si possono fare, porta in lei qualcosa di vero sui rapporti fra la politica e le classi sociali e, per essere più precisi, sugli effetti differenziali della politica a seconda della vulnerabilità degli individui a lei sottoposti. Vorrei, qui, provare ad analizzare questo fatto sociologico all’interno di uno schema bourdieusiano.
Posso dire che una delle esperienze più impressionanti e più destabilizzanti per me, quando ho abbandonato il mondo della mia infanzia povera e provinciale (addirittura paesana) per andare a studiare a Parigi e sono entrato in contatto con gli ambienti parigini e privilegiati, è stata la constatazione che le classi dominanti, quale che sia il governo, a parte in dei momenti molto particolari – e soprattutto – nelle rivoluzioni, quei rarissimi «istanti critici» di cui parla Bourdieu in Homo academicus, restano dominanti, i ricchi restano ricchi, le variazioni della politica non producono delle variazioni sulla loro vita. Si lamentano di un governo, certo, parlano di crisi, parlano di paura, ma la loro vita resta la stessa, non cambia, o per lo meno non molto.[2]
Ho sempre provato una sorta di incomprensione quando, nella mia vita dopo l’infanzia, degli amici con i quali cenavo al ristorante mi dicevano che non avevano «più soldi» mentre eravamo al ristorante e si apprestavano a pagare una cena. Ero davvero destabilizzato, le prime volte. Dieci anni prima, quando sentivo mia madre dire che non avevamo «più soldi» voleva dire che non restava più niente nel suo piccolo porta monete di cuoio, e che dovevamo andare a bussare alla porta di una delle mie zie che abitava a qualche casa di distanza dalla nostra perché ci donasse un pacco di pasta e del formaggio grattugiato. Per la mia appartenenza di classe, per le mie origini, la mia definizione di niente «più soldi», del nulla, del vuoto, del niente, differiva radicalmente, e la politica giocava un ruolo determinante nel campo del vuoto.
II
Ho ritrovato, tempo fa, un manoscritto abbandonato. La prima frase, scritta in maiuscolo, come se avessi voluto far urlare le parole, recitava: «Avevo vent’anni e avevo già vissuto tutto»; e poi: «A volte avrei voluto allungarmi in un angolo, lontano da tutto, scavare un buco, interrarmi e non parlare mai più, non muovermi, sul modello di quello che Nietzsche chiamava il fatalismo russo, cioè di quei soldati che, stanchi di aver lottato troppo a lungo, annichiliti dalla fatica dei combattimenti, dai corpi dolenti, pesanti, si allungano sul suolo, in qualche luogo lontano dagli altri, nella neve, e attendono la morte». Mi ricordo la ragione per la quale avevo scritto queste parole. Se Bourdieu nel suo Questa non è un’autobiografia parla, citando Flaubert, della sua volontà di vivere tutte le vite in una vita,[3] io credo che un transfuga di classe ha comunque, a differenti stadi della sua esistenza, questa sensazione di aver vissuto tutto, vissuto troppo. In ogni caso io l’ho provata, perché la fuga è lunga. Una traiettoria di un transfuga è sempre graduale; ed è questo carattere graduale che può produrre in una coscienza l’impressione di aver sperimentato il mondo nella sua totalità, poiché il bambino che nasce in un ambiente popolare, il bambino che è stato Pierre Bourdieu, non sogna immediatamente di diventare l’intellettuale che è divenuto, spesso non può neanche sognare di volerlo, che è più grave ancora, perché per non volerlo bisogna che la volontà sia stata una possibilità presente, offerta, resa pensabile dal suo milieu sociale, e anche se lo sogna molto presto, perché no, ci sono certamente delle eccezioni, il cammino è lungo e il transfuga di classe passa per degli stadi intermedi, uno a uno, in un lungo processo attraverso classi diverse e diverse frazioni di classe, accumulando una sorta di capitale interazionale.
E io mi ricordo di questa sensazione ricorrente, e da qui la frase un po’ pomposa scritta all’inizio di questo manoscritto felicemente inconcluso; io mi ricordo di questa sensazione strana di essere, a causa di questo lungo processo, di questo lungo cammino, prematuramente vecchio, di aver attraversato e sperimentato tutti i mondi sociali, di aver dunque vissuto tutto mio malgrado, nonostante me stesso, nonostante la mia infanzia in quello che Marx chiamava sottoproletariato, nella mia famiglia, passando per gli operai del paese con i quali andavo a scuola e ai quali mi sono legato, scoprendo già un altro mondo, gli operai che mia madre considerava come dei privilegiati perché ricevevano uno stipendio intero ogni mese, talvolta due, senza parlare della droghiera, l’equivalente della madre di Annie Ernaux descritta nei suoi così bei libri, che in paese consideravamo come una gran borghese in virtù del capitale simbolico che le procurava la sua posizione, per il prestigio di essere quella che possedeva il cibo, che non aveva dei superiori gerarchici e non andava in fabbrica, sentivo dire senza sosta La droghiera paga le tasse su una grossa fortuna, per poi scoprire ancora degli altri mondi sociali quando sono andato alle scuole medie, figli di insegnanti, di commercianti, poi al liceo, all’università o all’École normale, in via d’Ulm, figli di universitari, di giornalisti, di avvocati, di capi d’azienda, senza parlare degli incontri fatti nell’ambiente omosessuale a Parigi, quando ho potuto vivere la mia omosessualità, nei bar o altrove, relazioni instaurate con persone di tutti i contesti sociali, per esempio un figlio di un immigrato della Cabilia, per esempio un ferroviere, per esempio delle persone provenienti dagli ambienti dell’alta borghesia o perfino dell’aristocrazia – mi ricordo di un uomo che avevo incontrato in un bar e che mi aveva proposto di accompagnarlo a casa sua; mentre mi sedevo con un bicchiere di vino rosso sul suo canapè bianco, mi disse: «attento, è molto delicato, è di orso polare» – e venivo colpito dal pensiero che il mondo sociale è senza fondo e che ci sono dei dominanti sempre più dominanti. E, precisamente, più che le persone che incontravo si situavano sul lato del polo dominante dello spazio sociale e meno la politica sembrava attenderli o minacciarli, come se, in un certo modo, il fatto di avere dei soldi, dei diplomi, una rete di conoscenze, cioè del capitale culturale, sociale, economico, proteggesse dalle variazioni della politica o, per dirlo altrimenti, come se esistesse una correlazione forte fra il volume globale del capitale posseduto e la stabilità o la labilità degli stili di vita, insomma il loro ritmo – Bourdieu scriveva in Algeria 60: «Il mondo sociale è una questione di ritmo».[4] Un aumento nei prezzi delle visite mediche concesse dallo Stato non avrebbe mai impedito a questo uomo col canapè di orso polare di curarsi;[5] un esempio così semplice, d’apparenza così ingenua, basta a dare un quadro sommario della distribuzione differenziale degli effetti della politica.
Al contrario, agli inizi degli anni duemila, mia madre mi ripeteva, continuamente, che quando François Mitterrand era presidente negli anni ’80 la vita era più semplice, meno difficile, diceva senza sosta che per noi, i deboli, la sinistra al potere in generale era stata sinonimo di una vita più vivibile, meno difficile, parlava dei sussidi sociali, del RMI, della CMU arrivata più tardi, tutti quegli acronimi che, nelle classi popolari, si apprende a pronunciare dalla più giovane età, già a cinque o sei anni, come se la dominazione ci incastrasse in un tempo altro, più veloce, come se facesse invecchiare in maniera accelerata. Marguerite Duras, ne L’amante, parla dei «pensieri tristi provocati nei bambini dalla miseria», parla di «bambini-vecchi».[6] Una delle mie zie diceva questa frase, esattamente questa frase: Almeno sotto Mitterrand avevamo una bistecca nel piatto. Era una frase che ripeteva più volte a settimana, vedendo i politici parlare alla televisione, quando lei si infuriava contro di loro e contro quello che dicevano (era un altro fatto significativo questa sfuriata di tutti i giorni, questa rabbia, e io posso dire che la storia della mia infanzia è la storia della rabbia, non mi ricordo di un solo giorno in cui qualcuno non gridasse davanti la televisione, i politici sono tutti uguali; non un giorno soltanto in cui non ci si infuriava contro la droghiera, il sindaco del paese o il medico, ovvero quelli che venivano considerati come borghesi; le grida erano come trasmesse da un individuo all’altro, da una generazione all’altra, ed erano là, fra di noi, ma non sapevamo che farcene delle nostre grida, ci soffocavano, non sapevamo a chi indirizzarle a parte alla televisione che restava sempre così fredda e placida, eravamo troppo incerti sui visi dei responsabili della nostra infelicità, cambiavano a seconda di quello che dicevano le notizie e a causa di questo, come dice Aimé Césaire, passavamo sempre «dalla parte delle nostre grida»[7]). La frase tornava, dunque, emergeva come meccanicamente, come le conversazioni sul tempo, senza partecipazione reale della volontà, puoi ben dire, almeno sotto Mitterrand avevamo una bistecca nel piatto.
Certo, oggi io potrei ribattere a questa zia, anni dopo, che Mitterrand non stava dalla sua parte, come pensa lei, dalla parte dei deboli, che è un’evidenza storica, che ha molto velocemente guadagnato il consenso delle classi dominanti, potrei farle la lista e la cronologia di tutte le riforme sfavorevoli agli sfavoriti varate dal suo governo socialista in Francia, fra gli anni ’80 e ’90. Ma malgrado questo, e al di là dell’aneddoto e del contesto preciso e francese del periodo Mitterrand, è un ethos politico che pronuncia questa frase, ed è questa idea della politica che mi ha formato. Voglio dire che per me la politica non è mai stata una questione di parole, di opinioni, di dibattiti, di scambi comunicativi come nella visione di Habermas. Ma una questione di cibo, di vita, di sopravvivenza.[8]
III
Questo rapporto con la politica come una questione di vita o di morte è quello dei dominati. In tutti i suoi libri, Pierre Bourdieu descrive il rifiuto di tutto ciò che riguarda il dominio del vitale, della nuda vita, come una delle strategie principali di distinzione delle classi dominanti rispetto alle classi dominate. È il caso del rapporto con il cibo, per esempio, durante i pasti: «al “mangiare schietto” popolare la borghesia contrappone la preoccupazione di mangiare secondo certe forme […]; tutte queste scelte di stilizzazione tendono a spostare l’accento dalla sostanza e dalla funzione alla forma ed alla maniera e, in tal modo, a negare o, meglio ancora, a disconoscere la realtà grossolanamente materiale di un’attività di consumo e delle cose che si consumano o, il che fa lo stesso, la grossolanità bassamente materiale di coloro che si abbandonano alle soddisfazioni immediate del consumo alimentare»,[9] ma è il caso anche del modo di vestirsi, dell’organizzazione del proprio tempo e dell’affermazione della propria «superiorità sui comuni mortali condannati a vivere giorno per giorno»;[10] e questo vale anche per la produzione letteraria e intellettuale, dove si opera in maniera continuamente aggiornata nella storia del pensiero un divorzio fra l’intelletto, considerato superiore, e il corpo, considerato inferiore, il corpo come incarnazione delle funzioni vitali. Questo divorzio e questa distanza, dice Bourdieu, la si trova fra le altre cose, nella scelta dei soggetti dei romanzi o dei saggi, tanto più riconosciuti e legittimati se si allontanano dalle preoccupazioni considerate come «grossolanamente elementari».
La questione che ne deriva è sia politica sia teorica: come concepire la politica se il campo politico, che ha il potere di agire sulla vita, è, a causa delle caratteristiche sociologiche degli individui che lo compongono, estraneo a quello che Bourdieu chiama l’urgenza del quotidiano? In che modo un dibattito sulla politica può farsi senza pensare alla distribuzione differenziale degli effetti della politica stessa in funzione del capitale economico o culturale? Come superare il paradosso per cui quelli che hanno il potere sulla vita degli altri si distinguono da coloro che sono privati di questo potere dall’espulsione della nuda vita – condizione d’emergenza della vita sociale, politica e anche amorosa? Come la politica – in questo caso una politica di sinistra – può produrre la buona vita se quelli che fanno la politica sono così poco preoccupati per gli effetti della politica? Se non li colpiscono come colpiscono le persone della mia infanzia?
Durante i miei primi mesi a Parigi, sia all’università che nella cosiddetta «scena letteraria» (le presentazioni, le letture, le conferenze), avevo potuto osservare quasi tutti i giorni sotto i miei occhi questo tentativo spietato di devitalizzare la politica, in favore delle forme, dello stile, del discorso, della politica concepita come comunicazione. È in realtà un modo di pensare la politica che si è imposto progressivamente dopo la fine del XX secolo, quello della politica fondata sulla comunicazione e lo scambio di opinioni, di cui si trova oggi la formulazione più netta negli scritti della Scuola di Francoforte e in particolare in Jürgen Habermas e la sua idea di un agire comunicazionale. Questa idea si è largamente diffusa nelle istituzioni dopo la «rivoluzione conservatrice» degli anni ’80.
Ma chi può comunicare, e con chi, come? Un altro ricordo: mio padre era diventato spazzino dopo molti anni senza lavoro – dovuti a un incidente in fabbrica che gli aveva spezzato la schiena. Un giorno, in periodo di elezioni, un politico, un ministro, che però mio padre odiava e che insultava quando lo vedeva alla televisione, e che io insultavo alla stessa maniera, come un bambino che ripete quello che dicono i suoi genitori, si era recato nel suo posto di lavoro che gli spazzini imparavano a chiamare il locale, una piccola stanza in un seminterrato dove erano immagazzinate le scope e i sacchi della spazzatura. Il ministro era dunque arrivato, mio padre mi aveva promesso, la sera prima, che gli avrebbe detto tutto quello che pensava di lui; ma vedendo arrivare quest’uomo, con l’aura del suo status, con i suoi abiti e la sua posa intimidatoria, circondato da guardie del corpo e assistenti, mio padre non ha osato dirgli nulla. Ha taciuto. Ha guardato il silenzio, come improvvisamente umiliato e intimidito da tutti gli attributi del potere. È rientrato a casa e ci ha detto che non aveva fatto dei rimproveri al ministro, che lo aveva addirittura trovato simpatico, aveva aggiunto, pensavo che fosse un coglione invece è un bravo ragazzo. Io mi sono sentito tradito.
IV
Se provo a ricostruire nella memoria i miei primi tentativi di discussione sulla politica, agli inizi dei miei studi, rivedo, la maggior parte del tempo, questa stessa impossibilità di scambio, poiché io non parlavo lo stesso linguaggio delle persone, in generale provenienti dalla borghesia, con le quali «discutevo»; mi rimproveravano di essere troppo veemente, di perdere le staffe troppo in fretta, troppo facilmente.[11] Ma accadeva perché io vedevo troppo quanto per loro non fossero altro che discorsi senza incidenza sul quotidiano, poiché questo erano effettivamente per loro, vedevo quello che è il nocciolo del problema: quello che per loro era uno stile politico significava, per degli altri, la possibilità o meno di mangiare, di essere protetti, di viaggiare, di abitare (penso ai migranti), io vedevo troppo fino a che punto la borghesia svuotava la politica dalla vita come si svuota un uovo perforandolo a un’estremità. Non è un caso se Sartre dice a proposito di Paul Nizan, un altro transfuga, che opponeva alle chiacchiere «la grande sincerità muta della fatica, della sofferenza fisica, della fame».[12]
Allo stesso modo, la prima volta che ho aperto un libro di Pierre Bourdieu, quello che mi ha commosso di più è stato vedere e sentire la sua rabbia; la rabbia sotto ogni riga, ogni frase, ogni paragrafo. I libri di Bourdieu sono saturi del linguaggio dell’emozione, caratterizzati dal «contesto emotivo»[13] nel quale scriveva, dalla sua «indignazione». Parla delle interviste «molto dolorose»[14] che faceva per le sue inchieste e che servivano alla scrittura dei suoi libri. Parla della sua «delusione mista a rivolta»[15] che gli ispirava lo stato del mondo intellettuale.
Questo ethos politico è ancor più difficile da preservare quando sappiamo che la borghesia funziona in questi casi come una macchina per produrre amnesia, per strappare la vita dalla politica.
Vorrei fornirne una prova attraverso un ultimo esempio: quando parlavo, poco fa, di questa impressione di un transfuga di classe di aver troppo vissuto, di questo sentimento che ho provato, è anche perché la vergogna delle mie origini mi aveva spinto, al mio arrivo a Parigi, a fare di tutto per entrare nei mondi che io non avrei mai dovuto conoscere. C’è anche una parte attiva in questa accumulazione di vissuto. Infatti, quando mi ero trasferito a Parigi, la sensazione di venire da un mondo dominato, percepito come illegittimo, mi spingeva a frequentare gli ambienti più dominanti, come per dimenticare da dove venissi, o piuttosto per farlo dimenticare agli altri e, durante i primi giorni della mia vita parigina, mi ero lanciato in una ricerca sfrenata per avvicinarmi non soltanto alla borghesia, ma anche all’alta borghesia e all’aristocrazia, a causa di una sorta di follia sociale nata dalla sofferenza delle origini – Violette Leduc nelle sue Memorie parla della forza di attrazione di questi ambienti per un transfuga,[16] e questo prova che il mio caso non è isolato; mi ero lanciato in una corsa contro il mio passato, e a forza di incontri, di relazioni allacciate, di uno sforzo sociale, ci sono riuscito; come non lo ricordo più esattamente, ma tutto d’un tratto, per così dire dall’oggi al domani, ho cenato e sono stato trascinato in aperitivi dove incontravo padroni, milionari, capi di grandi aziende – spesso americane –, la vecchia nobiltà francese (strano ricordo di un giorno in cui avevo cenato in un immenso appartamento di Versailles con questa grande borghesia che parlava dei suoi castelli e residenze mentre quello che chiamavano il «personale di casa» ci versava dello champagne, del vino d’annata, prima di andare, il giorno successivo, a trovare mi padre all’uscita da lavoro, con la sua tuta verde da spazzino, il viso distrutto dalla fatica e con il quale sono andato a bere un bicchiere di vino nella sua casa popolare, passando dunque da un mondo all’altro in appena ventiquattr’ore, provando nella mia pelle, l’abisso e la violenza del mondo).
Si è disposti, talvolta, a pagare un prezzo molto alto per avere la sensazione di esistere socialmente. Nel profondo io detestavo quella gente, detestavo quelle cene, quella socialità mondana, ma la sensazione che tutto ciò mi dava di appartenere al mondo dei dominanti era così forte – «il mondo è ai miei piedi»[17] si dice Violette Leduc in una di queste occasioni – che faceva scomparire o piuttosto mi faceva respingere il disgusto e la collera. Un giorno ho fermato questa follia sociale, ma mi è servito del tempo. Sempre più spesso ero invitato in grandi magioni in Svizzera per passare delle vacanze in cui un cuoco preparava le mie colazioni, in appartamenti del VII arrondissement in cui mi veniva servito del caviale che detestavo, a cene all’interno di musei nelle serate di chiusura; io pensavo, mi ripetevo assurdamente: Ora sei lontano dalla tua infanzia. Naturalmente, in queste cene si trovavano delle persone di destra come di sinistra – come potrebbero non andare d’accordo o essere imbarazzati se per loro la politica non cambia nulla o quasi? E ancora una volta, non parlo di un atto cosciente, ma di un’amnesia prodotta dal possesso di un certo volume globale di capitale.
Io mi ricordo l’ultima volta in cui ho partecipato a questo gioco. È stato qualche tempo dopo l’uscita del mio primo romanzo, ero stato invitato a una di quelle cene letterarie che si organizzano regolarmente a Parigi. Questa volta, l’invito veniva dal direttore di una grande catena di supermercati di successo che dopo alcuni anni aveva deciso di aprire delle grandi librerie, ovvero degli spazi all’interno dei negozi in cui fosse possibile trovare dei libri d’altro tipo rispetto a quelli che si trovano abitualmente nella grande distribuzione, dei libri che vengono definiti complicati o esigenti, dei libri pubblicati da piccoli editori quasi militanti, dove dei veri librai sarebbero stati assunti per consigliare i lettori, aveva detto quella sera «non i clienti ma i lettori», e di fatto, una delle mie amiche, che io non sospettavo di particolari simpatie o interessi per l’ipermercato, mi avevo spesso parlato della qualità di queste librerie, o almeno della loro qualità relativa, in rapporto all’offerta abituale dei supermercati.
È stato un momento in cui la mia follia sociale ha iniziato a venir meno, e dunque avevo rifiutato di andare a quella cena. Avevo dato un no categorico all’ufficio stampa che mi aveva mandato l’invito, confesso che provavo un certo orgoglio nel mio rifiuto, e per questa ragione me ne sono anche vantato con alcuni dei miei più cari amici, dicendo che mai sarei andato a una cena come quella, mondana e senza interesse; per alcuni giorni mi sono detto che era fuori questione andarci, lo ripetevo ai miei amici, dicevo: mai nella vita, e poi, senza che me ne rendessi conto, quella sera sono andato alla cena all’ora prevista. Per ore e settimane avevo rimarcato il mio rifiuto, mi ero elencato tutte le ragioni per le quali non sarei andato, e quella sera, ci andai, probabilmente a causa di quella forza d’attrazione che esercitava su di me la promessa dell’appartenenza alla scena letteraria (con molta allodoxia), ai dominanti, quel desiderio di farne parte. Sono arrivato alla cena, era in un ristorante del XIV arrondissement. Avevo addirittura messo, mi sembra, una camicia stirata per l’occasione. Mi hanno chiesto il mio nome, mi hanno fatto sedere a un tavolo vicino non so più quale autore che aveva anch’egli appena pubblicato un romanzo.
E poi, in mezzo alla sala, il direttore dei supermercati si è alzato e ha parlato. Fin dalle prime parole ho compreso che il mio posto non era lì. Quel piccolo uomo con i capelli brillantinati che si alzava per fare un discorso sulla sua concezione del libro e della letteratura era lo stesso uomo che aveva assunto più o meno tutti le cassiere che avevo conosciuto nella mia infanzia, nella maggior parte dei casi donne, ragazze con le quali ero andato alle scuole elementari e medie e che, senza diploma e senza scelta, erano dovute andare a farsi assumere al supermercato. Questo piccolo uomo era il responsabile delle condizioni di vita di quelle donne, delle mani dolenti dopo la giornata di lavoro, della schiena piegata nella migliore età, delle voci che mi avevano accompagnato fra i cinque e i quindici anni dicendo, è vero, che una vita come quella non era possibile, non era accettabile, di quel lavoro in cui ci spacchiamo il culo per due spicci. Per lui, l’uomo coi capelli brillantinati, si trattava probabilmente di una concezione, di un’idea, di una visione dell’azienda, di una scelta politica possibile all’interno di un insieme di scelte. Per me, che avevo vissuto dall’altra parte, era chiaro che si trattava di una questione di vita – e quello che cerco di dire è che la comparsa di una parola dei transfughi sempre più diffusa nella letteratura dopo la fine del XX secolo,[18] dopo Bourdieu, passando per Toni Morrison, Didier Eribon o Justin Torres, rappresenta un’opportunità di interrogarci sui modi di pensare la politica, sulle condizioni di possibilità della sua efficacia, sul suo rapporto con la vita, con le forme di capitale.
Ascoltando il direttore dei supermercati fare quel discorso sui libri, ho più che mai pensato a quest’altra frase di Duras: «Mi sono trovata davanti a un disordine formidabile del pensiero e del sentimento […] e davanti al quale mi vergognavo della letteratura».[19] Ho finto una crisi d’asma vicino al mio editore prima della fine del pasto, ho mentito, ho fatto finta di non poter più respirare, ho mimato il soffocamento, ho detto che dovevo tornare a casa e me ne sono andato.
Note
[1] Vale a dire un tempo definito dagli altri, da fuori. Si possono leggere le magnifiche riflessioni di Pierre Bourdieu sui rapporti fra il tempo e il potere in Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano 1998, soprattutto a partire da pagina 247.
[2] Si noti, dunque, la poca rilevanza delle analisi ripetute continuamente in sociologia che oppongono alla «stabilità» dello stile di vita delle classi popolari una labilità dei modi di esistenza delle classi privilegiate.
[3] Pierre Bourdieu, Questa non è un’autobiografa. Elementi per un’autoanalisi, Feltrinelli, Milano 2005, p. 66.
[4] Pierre Bourdieu, Algérie 60, Paris, Éditions de Minuit, 1977, p. 41, trad. mia.
[5] Ho consapevolezza, quando parlo di questo genere di cose, del fatto che ci si espone sempre più o meno al rischio di essere percepiti come puerili. Ma quello che d’altro canto vorrei tentare di mostrare è che il fatto di respingere la radicalità politica sul versante dell’irresponsabilità infantile è una delle operazioni di dominio più tipiche della borghesia per devitalizzare la politica. Bourdieu, nel testo La jeunesse n’est qu’un mot, mostra come l’età non è in prima istanza un dato biologico, ma un’operazione sociale di disciplinamento dei corpi e degli habitus. Spiega che se compariamo i giovani fra di loro si vede che più i giovani sono vicini al polo del potere, della borghesia, o del capitale economico, più questi giovani hanno la probabilità di avere su di loro gli «attributi dell’adulto, del vecchio, del nobile, del notevole», mentre il polo intellettuale o le classi dominate sono relegate sul versante di quello che fa giovane: jeans, felpa, capelli lunghi, e potremmo aggiungere noi oggi tute, orecchini per i ragazzi, etc. Pierre Bourdieu, «La jeunesse n’est qu’un mot», in Question de sociologie, Paris, Éditions de Minuit, 1980, p. 143-154 [trad. mia]. Si può meglio comprendere perché, in una poesia scritta nel 1960 Pasolini dichiarasse: «Adulto? Mai».
[6] Marguerite Duras, L’amante, Feltrinelli, Milano 1988, p. 14.
[7] Aimé Césaire, Cahier d’un retour au pays natal, Présence Africaine, Paris 1938, p. 9. Pierre Bourdieu descrive, in Questa non è un’autobiografia, questa onnipresenza della manifestazione della collera nella sua infanzia, questa collera nel modo di esprimere ciò che l’ha segnato: «Ho scoperto poco a poco, forse soprattutto attraverso lo sguardo degli altri, le particolarità del mio habitus […]. In effetti è solo molto lentamente che ho capito come alcune delle mie reazioni più banali venissero spesso male interpretate perché forse la maniera – il tono, la voce, i gesti, le mimiche e via dicendo – in cui a volte le esprimevo, fatta di timidezza aggressiva e di brutalità mugugnante, se non furiosa, poteva esser presa per oro colato, cioè, in un certo senso, troppo sul serio, e perché contrastava tanto con la sicurezza distante dei parigini di buona famiglia», in Pierre Bourdieu, Questa non è un’autobiografia, cit., p. 85.
[8] Tutte quelle condizione necessarie alla «vita vivibile» evocata da Judith Butler in Ce qui fait une vie. Essai sur la violence, la guerre et le deuil, Zones, Paris 2004, p. 24.
[9] Pierre Bourdieu, La distinzione, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 204-207.
[10] Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 32.
[11] Il più ironico fra questo tipo di casi è che quello che si arrabbia contro la violenza di certe decisioni politiche è considerato come violento; come a dire che il monopolio della violenza legittima di cui parla Max Weber, che possiedono le istituzioni (statali, familiari, scolastiche etc.) e gli individui che le rappresentano, è negata come tale e si esercita spesso, al contrario, in nome della lotta contro la violenza, rigettando sul versante della violenza inaccettabile tutte le contestazione contro l’ordine sociale.
[12] Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 157.
[13] Pierre Bourdieu, Il senso pratico, Armando, Roma 2005, p. 10.
[14] Pierre Bourdieu, Questa non è un’autobiografia, cit, p. 64.
[15] Ibidem, p. 71.
[16] Soprattutto attraverso la sua relazione con Jacques, in Violette Leduc, La follia in testa, La rosa, Torino 1982.
[17] Violette Leduc, op. cit., p. 148.
[18] Su questa trasformazione del campo letterario legato alla comparsa delle voci prima assenti dalla letteratura, si può leggere Pierre Bergounioux, Exister par deux fois, Fayard, Paris 2014.
[19] Marguerite Duras, Il dolore, Feltrinelli, Milano 1995, p. 13.
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