La “political economy” dell’onorevole Boldrini secondo Michéa
di ALBERTO BAGNAI
“Loro [i migranti] sono l’avanguardia di quello, dello stile di vita che, presto, sarà uno stile di vita per moltissimi di noi”.
Ipsa dixit.
(…da Il complesso di Orfeo, scolio D al capitolo IV, traduzione mia dall’originale francese [poi fatevi due risate con la traduzione del traduttore, se vi capita, che sicuramente saprà il francese ma non l’italiano]…)
Al centro dell’immaginario liberale troviamo la celebre massima dell’intendente Gournay (1712-1759) “laissez faire, laissez passer”. Una fra le implicazioni logiche di questo dogma fondante è la necessità di riconoscere agli individui dell’universo mondo “il diritto elementare di circolare e installarsi dove desiderano“. Diritto “elementare” di cui l’abolizione integrale delle frontiere rappresenta, nel programma liberale, una delle tante applicazioni. Sarebbe evidentemente assurdo dedurne che una società postcapitalista dovrebbe limitare al massimo la libera circolazione delle cose e degli individui, o che dovrebbe fissare per sempre un’attività particolare per ogni cittadino. In realtà, la sola questione importante è sapere se una società che incoraggiasse così il “nomadismo” e la mobilità perpetua (vuoi geografica vuoi professionale) – e nella quale, di conseguenza, il moto browniano degli individui atomizzati sarebbe diventato il loro stato naturale – potrebbe garantire all’insieme dei suoi membri un’esistenza veramente umana (poiché tale è la convinzione di Badiou e di tutti i liberali).
A mio avviso vi sono almeno tre ordini di motivi che invitano a criticare questo principio di una società fondata sull’ideale di mobilizzazione generale (o di “vita liquida”, se preferite il concetto proposto da Zygmunt Bauman). Ci sono, innanzitutto, motivi ecologici. Un mondo in cui miliardi di individui fossero presi in un turbine turistico incessante porrebbe (oltre ai problemi logistici, in termini alberghieri e abitativi), un enorme problema energetico. A meno di immaginare che tutti questi spostamenti avvengano in bicicletta (ma mi è difficile immaginare i discepoli di Badiou che vanno in Cina con questo mezzo), è chiaro che le risorse di cherosene (per non parlare dell’inquinamento) sarebbero palesemente insufficienti per alimentare questo balletto fatato in cui milioni di individui si incrocerebbero ogni giorno nel cielo (motivo per il quale ho proposto di chiamare “sinistra cherosene” i difensori di questo nomadismo integrale).
Poi, l’idea così cara a Michel Rocard e Jacques Attali secondo cui, nella società del futuro, ognuno dovrà cambiare dieci volte professione e residenza (privilegiando il più possibile lo stabilirsi “all’estero”) ha senz’altro un senso nella logica capitalista dell’impiego, ma non ne ha quasi alcuno nella logica dei mestieri. Questi, in effetti, richiedono un apprendistato tecnico e un savoir-faire pratico che non può essere acquistato senza molto tempo e sforzo, e che presuppongono, di conseguenza, un certo grado di vocazione, di costanza e di stabilità. È senz’altro possibile diventare, dall’oggi al domani, “addetto alle pulizie” a Amsterdam o fattorino per una pizzeria di Dubai, ma è profondamente illusorio pensare, come Michel Rocard, che si potrebbe essere in successione chirurgo a Londra, idraulico a Taiwan, astrofisico a Praga, insegnante di educazione fisica a Nouméa, e, per concludere, viticoltore in Messico. In pratica, un mondo governato dal moto browniano di individui atomizzati sarebbe quindi, salvo che per qualche minoranza privilegiata (quali gli uomini di affari, gli artisti dello show business, o l’élite universitaria), un mondo nel quale predominerebbero necessariamente impieghi precari, junk jobs, e contratti a tempo determinato. Insomma: semplicemente una variante impoverita del mondo in cui già viviamo.
Infine, e soprattutto, una società in cui la condizione di zingari – o di migranti – fosse diventata il modello di ogni esistenza legittima (per quanto romantica possa sembrare questa idea a prima vista) non sarebbe affatto propizia all’esercizio di un vero potere popolare. Ci ricordiamo, infatti, della celebre massima di Abramo Lincoln. È sempre possibile – diceva – ingannare qualcuno per sempre (un individuo, evidentemente, può restare ingenuo per tutta la vita) o tutti per un po’ di tempo. Ma – aggiungeva – è impossibile “ingannare tutti per sempre”. Il fondamento logico di questa convinzione ottimistica – che legittima il ricorso al suffragio universale – è l’idea che col tempo ogni comunità finisca sempre per accumulare un’esperienza collettiva sufficiente degli uomini e delle cose e che diventi così progressivamente capace di giudicare lucidamente quelli che ambiscono ad essere eletti. Un ragionamento simile poggia tuttavia su un postulato implicito: quello che il nocciolo duro di una simile comunità conservi col passare del tempo (dato che l’esperienza si può, ovviamente, trasmettere di generazione in generazione) un minimo di stabilità. Nell’ipotesi in cui, al contrario, la logica del turn-over permanente diventasse, per un motivo o per l’altro, la norma fondante dell’esistenza di questa comunità (la cui composizione umana – come quella delle grandi megalopoli – non cesserebbe di modificarsi e di allargarsi), è chiaro che la costituzione di un’esperienza politica comune diventerebbe rapidamente problematica e che le possibilità di “ingannare tutti per sempre” aumenterebbero in conseguenza (ne è sufficiente prova il fatto che, in molte agglomerazioni moderne, i politici cinici e corrotti si vedono rieletti indefinitamente).
(…eh già… e ora capite perché chi ci propone questo modello, vuole anche strenuamente censurare i social, invece di preoccuparsi della qualità abominevole dell’informazione mainstream. Quest’ultima aiuta le élite liberiste, di cui la Boldrini è degno rappresentante, nel compito di distruggere consapevolezza. I social, anche loro non privi di deprecabili eccessi, offrono qualche spazio di consapevolezza, come questo blog dimostra. Ecco perché ci si rivolge a “esperti di verità” come il folcloristico Attivissimo per creare ministeri della verità. Ed ecco anche perché, quando allarmato da una tendenza preoccupante che vedevo consolidarsi, parlavo a Fassina e D’Attorre di questo problema, la loro risposta era fra il tiepido e l’inesistente: perché loro sapevano di essere stati cooptati in uno dei ceti che questo modello di società privilegerebbe. Io, da peone universitario, sono borderline. Se mi piegassi, entrerei in business. Purtroppo sono un fautore della rigidità: non del cambio, ma del carattere, ormoni aiutando – e non mi riferisco specificamente al testosterone. Che vergogna, che tristezza, che schifo… Vi lascio, vado alla tavola rotonda di Spazio Ottagoni. Correggete i refusi: poi vi allego la traduzione di un traduttore, così ci facciamo due risate aspettando i risultati del primo turno…)
Fonte: http://goofynomics.blogspot.it/2017/04/la-political-economy-dellonorevole.html
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