Fuga dei talenti, tutta una questione di soldi e carriera
di ECONOPOLY (Filippo Poletti)
“Pensavi solo ai soldi, soldi”, canta Mahmood, due volte vincitore di Sanremo. Potrebbe essere questa la colonna sonora della fuga dei talenti o dell’“Italia migrans”, il Paese che emigra all’estero. Partono in tanti, tornano in pochi: ben 5,8 milioni sono gli italiani iscritti all’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero. Nel 2020 (secondo gli ultimi dati disponibili) il saldo migratorio, ossia la differenza tra quanti sono tornati e quanti sono partiti, è risultato negativo, pari a 65 mila unità. E ancora: nel 2022 il nostro Paese ha perso lo 0,5 per cento di popolazione residente, cresciuta all’estero del 2,7 per cento. Sono gli “italiani con il trattino”, dagli italo-argentini agli italo-tedeschi, agli italo-svizzeri, agli italo-brasiliani, agli italo-francesi, agli italo-inglesi e così via.
DELL’ESTERO PIACCIONO I SOLDI UNITI ALLA STABILITÀ E ALLA CARRIERA
Nella ricerca approfondita dal titolo Italiani emigrati all’estero con 43.524 dati raccolti (grazie a 837 questionari), curata dalla docente di gestione delle risorse umane Serena Gianfaldoni dell’università di Pisa, la fuga ha una ragione che pesa più di altre: i soldi, appunto. I primi cinque punti di debolezza dell’Italia coincidono con i punti di forza dell’estero.
Alle radici della fuga dei talenti, infatti, troviamo la scarsa gratificazione economica (59 per cento del campione), la precarietà del lavoro (47 per cento), la scarsa possibilità di avanzamenti e progressione di carriera (46 per cento), lo scarso riconoscimento delle abilità (44 per cento) e la disorganizzazione (39 per cento). I primi cinque punti di forza dell’ambiente di lavoro all’estero sono la gratificazione economica (74 per cento), seguita dalla possibilità di avanzamenti e progressione di carriera (67 per cento), dal riconoscimento delle abilità (61 per cento), dall’ambiente di lavoro stimolante (54 per cento) e dall’efficienza (42 per cento).
MA LA CULTURA DEL PAESE DI ADOZIONE NON PIACE AFFATTO
Spostandoci dai fattori “push” (ossia le spinte migratorie dall’Italia) e dai fattori “pull” (ossia i punti di attrazione dei paesi esteri) verso il grado di grado di soddisfazione, emerge un dato molto interessante: il 47 per cento degli intervistati si sente gratificato all’estero dalla buona condizione economica raggiunta, il 30 per cento della buona remunerazione rispetto al costo della vita, ma solo il 12 per cento dichiara di essere soddisfatto dalla cultura del paese di adozione. Si va all’estero, dunque, ma il cuore resta in Italia: il 43 per cento degli interpellati frequenta amici italiani o di origine italiana, il 57 per cento dice di venire in Italia più di una volta all’anno, ben il 92 per cento dichiara di essere tornato per visitare parenti e amici.
LA FUGA DEI TALENTI COSTA L’1% DEL PIL: E CHI PAGA IL DEBITO PUBBLICO?
La “fuga dei talenti” o “brain drain” – spiega il libro, al centro dell’incontro Talenti in fuga promosso a Scorrano in Puglia dal Cafre dell’università di Pisa (il Centro interdipartimentale per l’aggiornamento, la formazione e la ricerca educativa diretto dall’ingegner Michele Lanzetta) e dalla SoIS (Società italiana di sociologia) – vuol dire fuga di soldi: l’emigrazione, infatti, costerebbe all’Italia 14 miliardi di euro, equivalente a un punto percentuale del Pil. Ancora qualche dato: l’Italia investe annualmente il 4 per cento del Pil in istruzione, ma perde, come abbiamo detto, tanti talenti. La “fuga dei cervelli”, inoltre, priva l’Italia delle persone che potrebbero avere un impatto maggiore sul processo di accrescimento del reddito, rendendo ancora più gravosa la rata mensile del mutuo, ossia l’enorme debito pubblico.
ALLA RICERCA DELLA MIGRAZIONE PERFETTA
Se questo è il quadro per difetto (il volume di Gianfaldoni consta di 820 pagine con oltre 70 contributori tra cui l’HR di Snam Paola Boromei e il CEO di PwC Italia Giovanni Andrea Toselli), non resta che capire come realizzare la mobilità perfetta, passando dall’unidirezionalità alla circolarità. «La mobilità in sé non è un male – commenta la sociologa Delfina Licata nel volume –, ma raggiunge la sua completezza e perfezione solo quando è circolare, nel continuo e proficuo scambio tra realtà nazionali tutte parimenti attraenti per i lavoratori di qualsiasi settore e di qualsiasi livello».
Interessanti, a questo proposito, sono le proposte de 50 giovani coinvolti nel progetto ItE (acronimo di Italiani emigrati all’estero) sostenuto dal Cafre. Secondo loro, per fermare l’emorragia verso l’estere serve anzitutto rendere le aziende italiane più appetibili, puntando sulla formazione continua, le progressioni di carriera e la remunerazione adeguata. Tra i compiti dello Stato ci sarebbero l’investimento sulla formazione legata al mondo del lavoro, gli incentivi alle aziende che assumono, la riduzione dei contratti a tempo determinato, l’adozione di strategie fiscali per stimolare l’investimento sui giovani, la diminuzione dell’età pensionabile, l’incremento dei concorsi pubblici, la discutibile abolizione degli ordini professionali e la garanzia di una maggiore stabilità economica e sociale.
TUTTO CAMBIA, ANCHE L’IDENTITÀ DA UNICA A MULTIPLA
L’“Italia con il trattino” deve rimboccarsi le maniche. Lo può fare avendo la consapevolezza che i giovani italiani non percepiscono la loro identità come unica, ma – spiega Licata – «come un complesso di identità in continua trasformazione, sempre connesse con qualsiasi parte del mondo, in perenne confronto, in assorbimento di qualsiasi elemento che si ritenga in linea con i desideri e il modo di essere di quel determinato momento». I giovani non misurano la storia in anni o in decenni, ma in giorni, cercando la loro “zona di comfort” soprattutto economica anche lontano da dove sono nati.
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