Né populismo, né tecnocrazia. John Dewey e i problemi sociali
Di LE PAROLE E LE COSE (Matteo Santarelli
Stati Uniti, 1937. Un anziano professore americano quasi ottantenne prepara le valigie per un lungo viaggio in Messico. Lo attende una commissione internazionale che dovrà presiedere, e che dovrà deliberare su di una questione di assoluta rilevanza internazionale: Lev Trotsky è un criminale che ha provato ad attentare alla vita di Iosif Stalin, oppure è un perseguitato che ha diritto di asilo in uno stato estero, nella fattispecie il Messico?
Una questione che spacca l’opinione pubblica mondiale in varie faglie. Stalinisti contro trotzkisti; liberali che non vogliono immischiarsi nelle faide interne al regime comunista contro liberali interventisti; realisti che intravedono una futura alleanza con l’URSS nella incombente seconda guerra mondiale, e che quindi scoraggiano iniziative sgradite a Stalin, contro idealisti che antepongono il rispetto dei diritti alle convenienze della ragione di stato americana. L’anziano professore ha passato gran parte della sua vita a insegnare l’illusorietà della opposizioni costitutive del pensiero e della politica occidentale – corpo/mente, ragione/emozioni, individuale/collettivo, mezzi/fini. Eppure, questo atteggiamento anti-oppositivo non significa evitare di prendere parte nelle grandi questioni dell’esistenza e della politica. Infatti, l’anziano professore ha già deciso: accetterà la Presidenza della commissione, assumendo la difficile parte dell’imparzialità.
Che cosa significhi l’imparzialità, John Dewey – così si chiama l’anziano professore – lo ha spiegato bene nel suo saggio del 1932 Ethics. Essere imparziali non significa essere disinteressati o neutrali, ma al contrario implica la capacità di tenere in conto degli interessi di tutte le parti in gioco “con un’uguale e giusta misura di valore”. Con questo spirito decide di intraprendere un compito pericoloso. Il pericolo non è solo fisico, e non deriva esclusivamente dal combinato disposto dell’età avanzata e del lungo viaggio, o dalla paura di un attentato. C’è anche un pericolo intellettuale, che Dewey ha spesso corso e del quale ha spesso pagato le conseguenze: il rischio di essere al centro del fuoco incrociato proveniente dagli esponenti di entrambe le fazioni delle tanto odiate dicotomie. E infatti, andrà più o meno così: i socialisti gli rimprovereranno di essersi prestato alla propaganda anti-comunista; i liberali lo accuseranno di aver preso parte nella guerra civile interna all’odiata ideologia comunista. Dewey partirà comunque per il Messico, e la Commissione da lui presieduta delibererà l’innocenza di Trotsky. Un verdetto che verrà rovesciato dalla cruda realtà della politica: nel 1940 Trotsky come noto sarà raggiunto e ucciso in Messico dai sicari di Stalin.
L’inutilità pratica della sentenza è forse una sconfitta, per il filosofo anti-idealista secondo il quale il valore e il significato di ciò che facciamo sono strettamente legati alle possibili conseguenze delle nostre azioni? Di sicuro, se così fosse, non si tratterebbe della sua unica sconfitta politica.
A partire dalla fine degli ’20, a ridosso del suo pensionamento dalla Columbia, Dewey diventa membro di spicco di due associazioni politiche, la League for Independent Political Action e la People’s Lobby. Questo periodo di forte attivismo politico viene spezzato in due da un evento devastante e traumatico: la grande crisi del ’29, che in realtà raggiungerà il suo apice nei primi anni ’30. Una crisi che tocca in termini relativamente trascurabili le fasce più facoltose della società americana, ma che lascia sull’orlo dello strapiombo milioni di americani e americane. Di fronte alla crisi e alle ingiustizie che la Grande Depressione mette in luce e accentua, Dewey sogna un terzo partito oltre il duopolio – di nuovo, la scarsa passione per le dicotomie – Democratici vs. Repubblicani. Tale partito avrà il compito di riportare il controllo della vita economica, sociale e politica degli Stati Uniti nelle mani della democrazia americana, e non degli interessi privati dell’industria e della finanza.
Più che un sogno, un obiettivo perseguito non solo tramite articoli di giornale, discorsi e pamphlet, ma talvolta anche attraverso veri e propri tentativi di manovra politica. È il Natale 1931, quando Dewey scrive a George W. Norris, capo dei senatori ribelli del partito repubblicano, chiedendogli di mettersi a capo di un nuovo partito che possa finalmente realizzare la loro agenda progressista. Il senatore dissente con garbo, mentre i socialisti più vicini a Dewey prendono l’offerta come pretesto per una rottura politica esplicita: che c’entra il socialismo con un anziano intellettuale che tenta un inciucio con i membri del partito che ha segnato l’agenda ultra-liberale degli ultimi governi americani? Del terzo partito dunque non se ne farà nulla, e le elezioni presidenziali del 1932 le vincerà il Partito Democratico con Franklin Delano Roosevelt. Ci si aspetta che l’agenda progressista e di intervento pubblico di Roosevelt soddisfi Dewey. Niente da fare: il nuovo presidente non è abbastanza progressista per Dewey, che diventa un critico del New Deal “da sinistra”, eppure da una posizione di esplicito anti-comunismo. Per il vecchio professore, nemmeno l’elezione di Roosevelt è una vittoria.
Un intellettuale che può salvarci la vita
Di fronte a questi fallimenti politici – ve ne risparmio altri – ci si chiederà: che senso ha leggere nel 2019 un autore le cui idee non funzionavano nemmeno alla sua epoca? A che cosa ci serve questo strano mix di realismo immaginario e idealismo reale che sembra contraddistinguere l’approccio politico e filosofico di Dewey?
Rispondere a questa domanda richiede mettere in chiaro un punto banale, ma non scontato. Il valore e l’utilità di un pensatore non possono essere giudicati in base al suo successo in quanto intellettuale pubblico. Sarebbe come giudicare Socrate a partire dall’insuccesso pratico della sua apologia, o svilire il contributo di Marx a causa delle sconfitte politiche patite in vita. I pensatori e le pensatrici dovrebbero piuttosto essere giudicati in base all’uso che possiamo fare dei loro contributi di fronte alle situazioni problematiche e alle crisi del presente.
Molti autori hanno messo già in luce come Dewey, e in generale il pragmatismo, possano aiutarci in questo senso. Scrive John McDermott: “Peirce era un genio, James uno scrittore, ma Dewey uno che ti aiuta a sopravvivere”.[1] In un’intervista di qualche anno fa, il sociologo e filosofo sociale tedesco Hans Joas ha raccontato come il pragmatismo lo abbia aiutato a dare ordine e senso ai suoi turbamenti intellettuali e politici – dare senso e significato all’adesione di suo padre al nazismo senza smettere di condannarla; la sua doppia identità di cattolico e socialista; il riconoscimento dell’importanza della creatività umana e allo stesso tempo la sensibilità verso le disparità sociali e i loro effetti. Ma c’è qualcosa di più. Dewey non ci aiuta solo a superare i problemi e le difficoltà del nostro presente. Il suo non è un banale pensiero del problem-solving, né men che meno un insopportabile e canzonatorio richiamo a vedere il positivo nel negativo, l’opportunità nella crisi. I suoi testi migliori ci aiutano piuttosto in un’operazione preliminare, decisiva, eppure quasi sempre trascurata: la definizione e la comprensione di ciò che significa “situazione problematica”.
Nessun politico, nessun intellettuale contemporaneo negherebbe il fatto che la politica ha il compito di risolvere problemi. Ci si scontra in continuazione su come risolvere i problemi, sul fatto che una determinata questione rappresenti un problema reale o meno, sulla gerarchia dei problemi. Alcuni sovranisti di sinistra affermano che le questioni di genere non sono problemi reali; i sovranisti di destra sostengono che sono problemi in quanto mettono in questione l’ordine naturale della società. I liberali ritengono che l’immigrazione e la sicurezza siano problemi sopravvalutati, se proprio vogliamo considerarle come problemi. La vaccinazione è un problema per i no-vax e per i pro-vax, ma in un senso opposto. C’è chi propone di subordinare tutte le questioni politiche al problema principale, ossia quello economico, e c’è chi invece pensa che il piano economico sia un dato di fatto naturale, non problematico, e che gli unici problemi realmente definibili e affrontabili sono quelli culturali che riguardano la cattiveria e l’ignoranza delle persone. Nella vita di tutti i giorni, nella nostra attività nei social, fino ai nostri comportamenti all’interno della cabina elettorale, tutti e tutte noi ragioniamo e valutiamo in termini di problemi. Eppure, nella comprensibile foga di screditare, accreditare, affrontare, negare e risolvere vari problemi, non ci si ferma mai a riflettere su di una questione preliminare: che cos’è un problema?
I problemi non si trovano, ma nemmeno si inventano
Questa domanda ha accompagnato Dewey nei suoi settant’anni di produzione intellettuale nei campi della psicologia, della pedagogia, della teoria morale, dell’estetica, della teoria sociale. La sua risposta parte da una considerazione semplice, ma decisiva: il problema non è un semplice dato di fatto, ma è l’esito di un processo. Un processo che si sviluppa a partire da qualcosa di più primitivo, qualcosa di più immediato, qualcosa che ci tocca prima ancora di capire che cosa stia accadendo. Dewey chiama questo qualcosa situazione problematica. Se il nome emergerà nella fase matura del suo pensiero, l’intuizione sulla quale si base questo concetto è precoce, e proviene dall’ambito della psicologia.
L’idea, presentata in modo embrionale nel saggio psicologico del 1896 The Reflex Arc Concept in Psychology, è la seguente: quando agiamo, non siamo sempre consapevoli della distinzione tra stimolo e risposta. Se impiegassimo tutta la nostra energia verbale a riflettere sulla distinzione tra ciò che facciamo noi e ciò che fanno gli altri, tra il portare lo spazzolino ai denti e l’effetto del dentifricio sulle nostre gengive, tra il portare il telefono alle orecchie e l’ascoltare la voce della persona a noi cara, l’azione non sarebbe più lucida e intelligente. Al contrario, sarebbe impossibile. Un uso smodato della consapevolezza non aiuta l’azione, ma la ostacola. La gran parte delle nostre azioni giornaliere si svolge pre-riflessivamente. E se ci pensiamo troppo, allora ecco che il pensiero fa incespicare l’azione, la trattiene, la rallenta. La distinzione riflessiva tra stimolo e risposta entra in gioco quando la fluidità della nostra relazione abituale con l’ambiente si rompe. Un esempio può aiutare a capire questo passaggio.
Una collega entra in ufficio. In modo spontaneo, quasi immediato, la saluto. Lei mi guarda e mi dice: “Vaffanculo”. Qualcosa si rompe: la reciprocità di uno scambio abituale e ordinario viene meno, emerge una rottura. Ed è qui che mi impegno a distinguere e a definire stimolo e risposta: c’è qualcosa nello stimolo che non va? Mi ha mandato in quel posto perché sono stato ironico? O forse la risposta era ironica? O forse lei ha visto lo stimolo in un certo senso perché sa delle cose che io non so? Forse le chiedo che cosa significa la sua risposta? Oppure se c’era qualcosa che non andava col mio gesto? Tutte queste operazioni volte a distinguere e a definire stimolo e risposta non le compiamo in continuazione – se siamo un po’ paranoici, le compiamo un po’ più spesso del necessario. Si tratta di operazioni che rispondono alla rottura di una modalità di azione abituale e spontanea. Questa rottura è ciò che Dewey chiamerà successivamente una situazione problematica.
Nel testo che forse rappresenta l’apice della sua produzione filosofica, ossia Logica. Teoria dell’indagine (1938), Dewey mette in luce come la situazione problematica abbia un lato passivo e uno attivo. Da un lato, l’esperienza problematica è qualcosa che ci accade, che ci tocca, che suscita la nostra preoccupazione in modo imprevedibile e inesorabile. Lo so che la mia collega scherza, lo so che penso di essere uno che sta al gioco, ma il suo “Vaffanculo” mi ha toccato. E a partire da questa esperienza, comincio a riflettere e a indagare. L’indagine è la cinghia di trasmissione tra passività e attività. Dewey mette in chiaro questo aspetto in una lettera del 1949, in cui definisce la problematicità nei seguenti termini:
[il termine “problematico”] sta a significare l’esistenza di qualcosa di discutibile, e dunque fonte di investigazione, vaglio, discussione – in breve, di indagine […] esso racchiude le caratteristiche che sono designate da aggettivi come “confusionario”, “sconcertante”, “instabile”, “incerto”, e da nomi come scosse, intoppi, rotture, inciampi – in breve, tutti gli accidenti che provocano un’interruzione del corso liscio e diretto del comportamento, deviandolo nel tipo di comportamento che costituisce l’indagine. (LW16, p. 282).
Confusionaria, instabile, incerta, sconcertante, instabile: è così che ci appare la situazione problematica nel momento in cui ci colpisce. E la nostra esigenza primaria è quella di capire e definire questa situazione e le sue componenti. L’indagine, la riflessione, la consapevolezza non vengono dal nulla. Sono risposte a questa problematicità, sono tentativi di definirla. Ma spesso la definizione non ci basta. Non vogliamo soltanto capire che cos’era questa scossa e questo inciampo, vogliamo anche rialzarci in piedi. Non vogliamo solo capire quello che ha detto la nostra collega, vogliamo risponderle, evitare che non succeda più, oppure indirizzare lo scambio verso uno scherzo al quale posso giocare anche io. In breve: è in atto una specie di circolo tra azione – pensiero – azione. Il pensiero è la risposta a una rottura nell’azione, che indica una nuova azione. Dewey non vuole screditare il ruolo del pensiero, non è un irrazionalista. Citando una sua famosa espressione, Dewey vuole capire quali sono gli interstizi in cui il pensiero emerge. Questi interstizi sono le situazioni problematiche. Se non ci fossero state e se non ci fossero ancora situazioni problematiche, il nostro pensiero non servirebbe a niente. O meglio: non sarebbe niente.
Questa idea filosofica ha delle conseguenze politiche potentissime: 1) i problemi non sono dati immediati. Non troviamo problemi camminando nelle strade nello stesso modo in cui troviamo le lumache camminando nel bosco; 2) eppure i problemi non sono puramente costruiti dal nulla. I problemi sono tentativi di definire le situazioni problematiche, in modo che esse possano essere risolte. Le situazioni problematiche ci toccano, ci chiamano in causa, ci interessano. Eppure spesso sono vaghe, incerte, insicure. Quindi tendiamo a definirle, e ad articolarle in vista della risoluzione della loro problematicità. Solo in quel momento abbiamo a che fare con un problema. I problemi sono dunque il risultato di un processo di costruzione che non parte dal nulla, da una tabula rasa. Il punto di partenza è la situazione problematica. La situazione problematica è incerta, potenziale, vaga, ma non è vuota. Può essere sviluppata, definita e articolata in vari modi, ma non in tutti i modi. Il problema deve in qualche modo dare conto della situazione problematica, deve in qualche modo corrispondergli.
Due approcci sbagliati ai problemi sociali
Al giorno d’oggi i problemi sociali e politici vengono affrontati in due modi differenti. Due modi che Dewey troverebbe entrambi insoddisfacenti, perché non tengono conto della distinzione tra situazione problematica e problema. Da un lato, c’è chi prende automaticamente per buoni e reali i problemi più sentiti e più diffusi. “La politica deve andare in strada a raccogliere i problemi”, nello stesso modo in cui si raccolgono i funghi. Ma i problemi non si trovano, piuttosto si articolano. Più precisamente: i problemi sono articolati a partire da situazioni problematiche. Il fatto che la situazione problematica sia reale, non significa che il modo in cui viene sviluppata sotto forma di un determinato problema sia indiscutibile e inesorabile.
Ad esempio, nelle nostre società c’è una sensazione generale e diffusa di insicurezza. Si tratta indubbiamente di un’innegabile situazione problematica. Il fatto che venga articolata sotto forma del “problema della sicurezza”, “il problema degli immigrati”, “il problema dell’ingiustizia”, “il problema della sovranità economica” non è immediato, né automatico. Tutti questi problemi sono varie possibilità di definizione e articolazione della stessa situazione problematica.
La lotta sociale e politica non consiste solo nella risoluzione dei problemi, ma anche e soprattutto nella loro definizione. In alcuni casi, una certa versione di problema è talmente diffusa e condivisa, da apparire come naturale, immediata, innegabile. E chi sostiene questa versione tenterà in tutti i modi di fare apparire il proprio problema come il problema di tutti e tutte, il problema scontato. Oggi i populismi di destra si trovano in questa situazione. Sono loro a definire i problemi, ciò di cui parliamo e discutiamo tutti i giorni. Scrivono la nostra agenda di discussione giornaliera, formulano questioni politiche sotto forma di sondaggi ai quali possiamo rispondere: sì o no. Se qualcuno spunta la risposta sbagliata, o se ancora peggio si rifiuta di prendere parte del sondaggio, è tacciato di distanza dal popolo e dalle sue esigenze. Ma i loro problemi sono solo un’articolazione possibile di una situazione problematica. Non esiste nessuna legge naturale secondo la quale una situazione problematica di insicurezza sociale debba essere tradotta nel “problema dell’immigrazione”. E anzi, nulla esclude che questa versione del problema non solo non aiuti a risolvere l’insicurezza che caratterizza la situazione problematica originaria, ma anzi tenda ad aggravarla in vari modi: mettendo in secondo piano le altre possibili cause di questa insicurezza, ad esempio le cause economiche; mettendo in circolo ulteriore odio, ulteriore risentimento, e quindi ulteriore insicurezza, in una spirale infernale. Alcuni problemi non risolvono la situazione problematica, ma la cronicizzano. Un meccanismo simile a quello delle mafie: contribuire a generare insicurezza, ponendosi poi come gli unici soggetti in grado di risolvere il “problema della sicurezza”.
Altrettanto sbagliato dal punto di vista di Dewey è l’atteggiamento di chi nega l’esistenza stessa della situazione problematica. Dalla critica della definizione del problema si deduce il fatto che dietro al problema non ci sia niente, se non un’entità cospiratrice, oppure l’ignoranza e la creduloneria delle persone. Questa deduzione tuttavia è fallace e pericolosa. Il fatto che l’articolazione della situazione problematica sotto forma del “problema dell’immigrazione” sia contestabile non significa che non vi sia un senso di insicurezza che pervade la società. Il fatto che questo senso sia in linea di partenza vago e indefinito è qualcosa con cui bisogna fare i conti, piuttosto che negarne l’esistenza. Fare i conti significa qui due cose: riconoscere l’esistenza della problematicità, e il suo carattere inizialmente vago, confusionario e indefinito; agire e pensare affinché questa problematicità trovi un’articolazione piuttosto che un’altra.
Sullo schema di questi due atteggiamenti sbagliati rispetto alla natura del problema, oggi si oppongono due fazioni nella politica europea, e forse occidentale. Da un lato ci sono i “populisti”, per cui ogni problema che esiste allo stato attuale è un problema giusto e inevitabile, perché lo ha voluto la gente. E quindi se critichi la formulazione di questo problema, di conseguenza odi la gente, non fai parte del popolo, e sei un radical chic. Dall’altro ci sono i “tecnocrati”, secondo i quali la gente non dovrebbe mettere bocca né nella risoluzione, né nella formulazione dei problemi. Solo agli esperti tocca infatti il triplice compito di definire i problemi, risolverli, e giudicare dell’esistenza di una situazione problematica – “le persone non dovrebbero sentirsi insicure, perché il PIL è cresciuto dello 0,1%”.
Da entrambe le prospettive, risulta impossibile quell’operazione che secondo Dewey caratterizza la democrazia nel senso pieno del termine: articolare una situazione problematica sotto forma di un problema, tenendo conto di quali interessi e bisogni verranno toccati, favoriti e ostacolati dalla risoluzione di tale problema.
Qualcuno potrebbe pensare che la proposta di Dewey sia ingenua. Chissà, forse lo è. Ma mai quanto è ingenua la posizione di chi pensa che dall’opposizione tra “populisti” e “tecnocrazia”, tra “democrazia” e “scienza”, possa uscirne qualcosa di buono per tutti e tutte noi.
[1] Ho trovato questa frase in https://www.ilsussidiario.net/news/cultura/2009/4/24/filosofia-dewey-quel-mare-di-paura-che-separa-il-pensiero-dalla-realta/18030/.
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/?p=35823
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