Lo sviluppo capitalista nell’era della crisi ecologica
di LE PAROLE E LE COSE (Maura Benegiamo)
[Anche in Italia, come nel resto d’Europa e del mondo, gli ultimi mesi hanno visto centinaia di migliaia di persone scendere in piazza contro il cambiamento climatico. Importanti sono state le piazze oceaniche di Fridays For Future il 15 marzo e quella dei comitati a Roma, il 23 dello stesso mese. Dopo il secondo Climate Strike del 24 maggio, oggi va in scena il terzo atto. Per comprendere le sfide che attendono il movimento globale per la giustizia climatica proponiamo il seguente testo di Maura Benegiamo, che parte da una riflessione presentata al convegno Ambientalismo Operaio e Giustizia Climatica tenutosi presso il Centro Studi Movimenti di Parma il 14 giugno 2019. (el)]
1. L’astrazione è sempre estrazione
La connessione tra crisi ambientale e crisi economica che ha caratterizzato il panorama globale negli ultimi anni si è tradotta in un’intensificazione dei processi di mercificazione e sfruttamento applicati al mondo naturale. L’epoca post-fordista è stata caratterizzata da intense trasformazioni del lavoro e dei processi di sussunzione. Le logiche che hanno sotteso tali trasformazioni si sono estese al di là della produzione umana, implicando anche una trasformazione delle relazioni tra capitale e natura. In particolare, il crescente trasferimento sull’ambiente dei costi e delle funzioni della riproduzione sociale ha reso le funzioni riproduttive dell’universo non-umano – e la conseguente codificazione dei processi biologici – un elemento centrale nello sviluppo del capitalismo. In questo modo, le più recenti forme di captazione del valore, incentrate sulle dimensioni apparentemente più immateriali o cognitive della produzione ed attente a processi di cattura e monetarizzazione dei flussi di informazioni e di conoscenza, sono state applicate all’ampliamento delle dinamiche di estrazione e sfruttamento della natura (e dei corpi). Le stesse enclosures e la mercificazione della natura sono venute così ad articolarsi con i nuovi processi di accumulazione.
In questo contesto, le derive ecologiche che hanno contribuito alla crisi del modello fordista possono essere riviste alla luce dei nuovi saperi ambientali e del progresso tecno-scientifico, che però a loro volta sono serviti a costituire una specifica grammatica ad uso della governance neoliberista. Tutti questi processi si accompagnano infatti a politiche di sfruttamento intensivo dei territori ed estrazione delle risorse che sostengono traiettorie differenziali di inclusione ed esclusione. Si può sostenere quindi che gli aspetti contemporanei della produzione della natura e dell’affermarsi di ontologie che insistono sulle logiche creative e produttive del vivente rafforzano ed intersecano le forme più coercitive ed escludenti inscritte nello sviluppo del capitalismo. Forme che sottendono nuovi processi di spoliazione ed emarginazione e che esplicitano le ibridazioni attuali tra governamentalità e sovranità.
L’affermarsi di una geografia variabile dell’inclusione ed il carattere coercitivo di questi processi possono essere letti inoltre nei termini di un’evoluzione della governance neoliberale che diventa una logica di potere sempre più estrattiva e necropolitica, in grado di assumere i tratti della sovranità o di qualcosa collegata ad essa. L’espandersi del modello estrattivista che caratterizza e sostiene la chiusura dei beni naturali, la loro estrazione e messa in circolazione, evidenzia infine un nuovo ruolo del territorio quale punto di attracco dei processi di differenziazione sociale, oltre che di specchio delle trasformazioni della relazione tra stato e mercato.
2. Il capitalismo visto dal Sud
Nei contesti post-coloniali il capitalismo si è storicamente presentato con il suo volto più estrattivista e mortifero. Nella crisi ecologica globale, che è prima di tutto una crisi di riproduzione del sistema, l’incapacità del capitale di garantire ricchezza, reddito e benessere ha portato le democrazie occidentali a rompere il patto welfaristico, rendendo il modello post-coloniale l’unico applicabile anche nell’occidente post-fordista. Ciò conferma l’idea che l’economia politica propria al mondo post-coloniale non possa essere letta nei termini di un ipotetico passato del capitale, superabile in una dinamica di sviluppo progressista. Ne costituisce, piuttosto, l’avanguardia, il laboratorio politico dell’accumulazione a venire.
Sperimentazioni quali quelle in atto nella Nuova Rivoluzione Verde africana – dove l’espandersi delle monoculture agro-industriali si associa alla promozione di tecnologie smart, green financing e biogenetica, generando una più profonda precarizzazione e distruzione del lavoro e delle economie locali – testimoniano la trasformazione e l’evolversi delle relazioni storiche tra sfruttamento ambientale, sviluppo capitalistico e geografie sociali dell’inclusione differenziale. All’interno delle attuali traiettorie di valorizzazione della natura, caratterizzate da estrazione e spoliazione, una quota crescente di popolazione diventa qualcosa che è prodotto direttamente come surplus. Le molteplici dinamiche di esclusione che caratterizzano i percorsi di sviluppo nel Sud globale – dove il capitale ha storicamente accumulato le risorse utili alla sua riproduzione – non evidenziano unicamente gli aspetti mortiferi ed escludenti che caratterizzano il biopotere del capitale. Rappresentano al contempo le frontiere per una sperimentazione biopolitica e governativa basata su vecchie e nuove logiche di territorializzazione e su emergenti gerarchie tra umani e non umani.
Le lotte contro l’estrattivismo portate avanti dalle contadine, dai popoli indigeni e dagli abitanti del Sud globale hanno evidenziato già da molti anni come la posta in gioco nei percorsi di colonizzazione della natura sia riconducibile a quel processo di negazione e strumentalizzazione del ruolo del lavoro vivo, umano e non umano, che caratterizza in maniera generale l’insieme delle dinamiche capitaliste. A partire dai processi di resistenza, adattamento e captazione che qui si danno, inizia ad emergere una critica radicale alle risposte capitalistiche alla crisi ecologico-riproduttiva che ne mette in luce i presupposti ontologici, basati sulla riduzione della vita ad un artefatto e sul sacrificio dei corpi eccedenti, che non possono essere messi a lavoro. Ancora oggi è dunque la tensione inerente al divenire di tale ontologia capitalistica, incentrata su processi di mercificazione ed astrazione del vivente, che richiede di essere governata e sulla quale si ergono le geografie differenziali dell’inclusione e dell’esclusione, a loro volta sostenute da specifici regimi di conoscenza e di potere.
3. Necropolitica dello sviluppo
Il capitalismo può essere compreso sulla base degli specifici rapporti di produzione che mette in campo e che si risolvono in un’organizzazione sociale del lavoro votata alla valorizzazione del capitale investito. La comprensione dello sviluppo del capitalismo implica invece di spostare l’attenzione sulle condizioni socio-politiche necessarie alla sua riproduzione, e quindi alle trasformazioni operate all’interno della società. Lo sviluppo – ovvero la modalità attraverso cui l’economia avanza, assimilando ed investendo nuovi ambiti, sociali e spaziali, materiali ed immateriali – è sempre incarnato nelle relazioni storiche, sociali e culturali dei contesti in cui opera. Ne consegue che l’analisi dello sviluppo del capitale non può essere ricondotta unicamente ad un’analisi dell’evoluzione del mercato o della proprietà privata, ma deve essere osservata attraverso un’analitica del potere che metta in gioco i rapporti di forza che vi intervengono, le riconfigurazioni sociali e le razionalità ad esse sottese.
Possiamo prendere in prestito la nozione di necropolitica, coniata dal filosofo post-coloniale Achille Mbembe, per ottenere alcune indicazioni utili ad esprimere le particolari configurazioni di sfruttamento ed esclusione che si strutturano all’interno dei contesti estrattivi, dove il territorio e le risorse servono, ma le persone no. Si coglie con più facilità il significato della nozione di necropolitica mettendola a confronto con quella di tanatopolitica di matrice agambeniana e da cui il filosofo camerunese muove. A differenza di questa, la necropolitica non esprime l’idea di un potere sovrano che si ricompone come potenza nell’eccezionalità, bensì un potere il cui progetto è il “sistematico uso strumentale dell’esistenza umana e la distruzione materiale delle popolazioni e dei corpi”. Il passaggio da thanatos, la morte, a necros, i morti, sposta dunque il discorso da un’ontologia del potere ad una pratica di soggettivazione; consente inoltre di evidenziare come il soggetto contro cui il potere si scaglia non sia mai realmente nudo, ma sempre incarnato in rapporti che sono materiali e di soggettivazione.
Lo spazio, scrive Mbembe, è il modo principale in cui opera il potere di morte. Rilevante è il riferimento alla descrizione di Frantz Fanon della città coloniale come divisa in due tra una zona abitata dai coloni ed un’altra abitata da quelli che Fanon definisce appunto come morti viventi. Qui il dispositivo territoriale ha la funzione di operare, cristallizzandola, la condanna all’impossibilita ontologica che il colono getta sul colonizzato. L’uomo nero, scrive Fanon è privato di esistenza ontologica agli occhi del bianco. La necropolitica non va allora identificata semplicemente con l’azione del far morire o mettere a morte, là dove la biopolitica avrebbe come compito la promozione della vita per poterla meglio gestire. Al contrario, anche la necropolitica, seppur in maniera perversa, si esprime in un rapporto funzionale con un’istanza produttiva che agisce nei soggetti producendoli, o cercando di produrli, come morti viventi. Crea letteralmente death worlds: forme di esistenza sociale in cui vaste popolazioni sono soggette a condizioni di vita che conferiscono loro lo status di morti viventi, esse equivalgono alla “capacità di definire chi conta e chi non conta, chi è eliminabile e chi non lo è”.
4. Fuori e dentro il valore
La figura dei morti viventi rimanda ad un’altra metafora: quella usata da Marx nel “Capitale”, dove l’idea del vampiro serve a descrivere l’azione delle macchine applicata al lavoro vivo. Le lotte che si opponevano a tale processo, contestando l’idea del lavoro come merce, vi contrapponevano la vivacità e la materialità dei corpi e delle relazioni. Oggi però i processi di ibridazione in atto nei percorsi di colonizzazione del bios e della natura riconoscono e sussumono tale vivacità unitamente alla consapevolezza della co-partecipazione di elementi vegetali ed animali alla produzione di valore. Karl Polany (1944) evidenziava come le disfunzioni delle società capitaliste fossero sostenute da un lavoro di astrazione in grado di considerare il lavoro merce. Oggi non è tanto l’orologio che scandisce i ritmi di fabbrica, quanto l’algoritmo e la logica computazionale ad essere sottesa alle procedure di assegnazione, misura e scambio del valore. Nel processo di ideazione di nuove entità all’interno dei percorsi delle tecno-scienze, l’astrazione via computazione costituisce il dispositivo chiave che permette ancora una volta di catturare il lavoro vivo e trasformarlo in lavoro che produce valore.
Solo ciò che è calcolabile – e codificabile – può però essere incluso. Se il riconoscimento del lavoro produttivo e riproduttivo ed il suo sdoganamento dalla logica del valore può essere un punto di leva contro una ragione tecnica astratta, la critica di quest’ultima richiede di essere pensata unitamente all’analisi dei processi che esplicitano l’esclusione di ogni alterità non direttamente compatibile o strumentale, o delle dinamiche di governance che ne condizionano l’inclusione solo in quanto sacrificabile. La possibilità dello sviluppo capitalistico nel contesto della crisi ecologica prevede infatti che un numero sempre maggiore di esseri viventi debba andare incontro a processi di emarginazione e, in sostanza, essere “lasciato morire”.
Mbembe scrive che la necropolitica è agita nel presente globalizzato secondo due direttive che muovono verso l’affermarsi di una territorialità determinata da una proliferazione dei confini ed una progressiva privatizzazione della sovranità stessa. Nei contesti di cui stiamo parlando i confini non sono solo quelli definiti dallo Stato-Nazione, ma anche quelli creati dai territori sacrificati e contaminati dello sviluppo capitalistico. Per quanto riguarda il secondo punto, esso è evidenziato dal crescente potere delle multinazionali che informa la plutocrazia neoliberista. Va tuttavia rilevato come Mbembe mantenga, con Agamben, l’idea che il potere si attivi fuori dallo stato di diritto, ovvero nell’eccezione, e operi con la grammatica della sovranità. In questo senso egli riconosce nel dispositivo dell’eccezionalità l’elemento ricostituente della sovranità nella sua forma-Stato, riconducendo la sovranità stessa al principio unitario tipico della concezione moderna. Sembra invece più utile ragionare in termini di un’articolazione tra governamentalità e sovranità – come fanno Sandro Mezzadra e Brett Neilson in Confini e frontiere – dove la prima, in quanto insieme di dispositivi, codici e prassi, diventa sempre più la condizione dell’esercizio della seconda, e la seconda assume sempre più le caratteristiche della prima.
Il percorso che porta un numero ogni volta crescente di elementi necessari alla vita ad essere mediati dal mercato, sottomettendone il valore, la produzione e la distribuzione alle logiche economiche, è però sempre l’esito di un processo sociale, quasi mai pacificato. L’economia infatti non avanza secondo un processo lineare, ma si struttura sempre in uno spazio conteso dal punto di vista politico. Le lotte per la giustizia ambientale stanno in questo senso aprendo la contraddizione ultima del capitale portando il sistema davanti ad un ostacolo che non può più essere sormontato e che richiede piuttosto il totale mutamento del sistema. Queste osservazioni, trasportate all’interno dei conflitti estrattivi e socio-ambientali del Sud globale, rimandano ad un insieme di semantiche di lotta che tendono ad essere costanti in questi contesti. È l’esempio di slogan quali “lotta per il diritto alla vita”, “la vita vale più dell’oro” o nelle rivendicazioni di modi di abitare e produrre che si propongono come alternative alla mercificazione capitalista. Cogliere tali rivendicazioni, come avviene nel quadro dello sviluppo umanitario, quali mere richieste di riconoscimento, rischia di mascherarne la dimensione di lotte materiali, significa riproporre una narrazione sul mondo e nel mondo che sostiene il capitalismo e non evidenzia il carattere conflittuale e propositivo che invece possiedono.
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/?p=36606
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