La trasparenza è un idolo che non vogliamo venerare
Di INTELLETTUALE DISSIDENTE (Maria Castellitto)
La trasparenza viene oggi richiesta a gran voce. In politica come nel mondo dell’informazione. E guai ad opporsi a questo idolo. Ma noi abbiamo deciso di farlo con l’aiuto del filosofo sudcoreano Byung-chul Han docente di teoria della cultura all’Universität der Künste di Berlino, nonché autore del saggio “La società della trasparenza”, edito in Italia per Nottetempo.
L’ opera di Byung-chul Han è una lucida e serrata disanima quanto mai attuale che parte da una premessa fondamentale: “la società della trasparenza si manifesta in primo luogo come società del positivo”. Il filosofo di Seul parte dalla constatazione di una fine; la richiesta di assoluta trasparenza nella società contemporanea è conseguenza di “un cambio di paradigma”, che coincide con la fine della negatività a favore della positività, ritenuta di gran lunga più vantaggiosa. Tutto ciò è avvenuto in un tempo che si è reso trasparente, ovvero ridotto “ alla successione di un presente disponibile” , di un presente da ottimizzare così come il futuro è “positivizzato”, in un tempo “senza destino e senza eventi”. Oggi che l’evento sembra esserci – ed è la pandemia del Coronavirus – vediamo accendersi un faro sulle conseguenze della società della trasparenza che non ha gli strumenti per “soggiornare nel negativo”: il terrore che è improvvisamente tornato ad avvolgere il mondo occidentale ha qualcosa di umano, ma molto di psicotico: non essendo più autorizzata “la corsa nel positivo” non sappiamo come comportarci. Serviva una brusca e tragica frenata per rendersene conto? Forse sì.
E’ il denaro, nella società del positivo, a dare il colpo di grazia alla negatività: le cose diventano trasparenti quando sono “livellate” e “spianate”, inserite nei circuiti monetari, banalizzate rinnegano la loro “singolarità” e “si esprimono interamente attraverso un prezzo”. Inoltre, trasparenza e verità non sono sinonimi; la verità è “negatività”, nega ciò che non afferma. Per questo motivo, “più informazione o soltanto un accumulo di informazioni non producono di per sé una verità”. Il mondo dell’informazione ha abolito ogni forma di dialettica e di ermeneutica, è divenuto un mondo di sole informazioni (mai più interpretazioni!), e si limita a rincorrere l’attualità. Chi considera la frettolosa circolazione di sole informazioni “comunicazione”, equipara essa ad “una macchina”, abbraccia quel “mondo di morte” in un linguaggio fintamente espressivo. Eppure relegare il dominio della trasparenza al solo mondo dell’informazione non basta: tutti i processi sociali sono oggi esposti “a un obbligo di trasparenza”, ignorando il non ignorabile: l’uomo non è mai trasparente, è opaco e questa sua “opacità” è la sua forza o più semplicemente fa parte della vita. I contrari che abitano in noi, l’Io che nega l’inconscio, la volubilità della natura umana, vengono messi da parte in nome della trasparenza. Così, la confidenza non esiste più e ci si abbandona allo svelamento collettivo, il segreto è diventato un lusso per cuori solitari e coraggiosi. L’amore non concepisce più negatività e quindi neanche più passione, privato della sua aura, diventa pornografia nei siti di incontri: dal “sedurre” al “produrre” il passo è stato repentino e violento. “L’Altro” trasparente rende morte le relazioni, e viene a mancare “la delicatezza del rispetto per quell’alterità che non può essere completamente eliminata”. “L’Altro” scompare del tutto, pensiamo alla decadente retorica che conferiva all’altro, all’estraneo, una superiorità a priori. Han ci invita a fare un passo in avanti nella società della trasparenza; l’altro non è migliore di noi, ma è uguale a noi. E non per bontà o purezza d’animo, e non in termini di diritti, ma piuttosto perché il freddo disegno trasparente teme e ripugna ogni diversità e nella sua veloce opera di standardizzazione e di omologazione, preferisce la macchina alle sfumature della vita, sceglie “il calcolo” piuttosto che il pensiero, e cerca di imporre come realtà “un inferno dell’Uguale”: una catena – per l’appunto infernale- in cui “l’Uguale risponde all’Uguale”. Non a caso i parametri occidentali vengono issati a universali e utilizzati per decifrare le dinamiche di qualsiasi cultura o religione, come se il mondo fosse una piattaforma monocromatica.
L’artificiale impalcatura regge perché la società della trasparenza ha attuato profondi mutamenti alla radice attraverso la de-narrativizzazione del mondo: l’orizzonte circoscritto della trasparenza ci obbliga a muoverci in uno spazio che oblitera qualsiasi forma di cerimonia, che non concepisce “metamorfosi”. La narrazione è stata rimpiazzata dall’iper-informazione e dall’iper-comunicazione, ed è quell’ “iper” che si rende merce ad essere volgare e incapace di gettare “luce nella tenebra”. Han analizza la cascata di immagini che ci travolge, con una forte influenza del pensiero di Walter Benjamin: la bellezza, piena soltanto del suo “valore di esposizione”, svelata e mai interrotta da un segreto, non possiede più nulla di erotico ma è pornografia. Non è più bellezza, perché non può essere bellezza ciò che è inodore, che arriva subito agli occhi producendo una reazione tempestiva:
“La temporalità del bello non è il rapido susseguirsi di avvenimenti o di stimoli. La bellezza è un’educanda, una ritardataria.”
Tutto ciò si unisce ad un proliferare di fotografie “uniformi”, che possiedono soltanto lo “studium”- ovvero quello spazio da studiare che finisce poi per ridursi al giudizio del mi piace/ non mi piace – e sono prive del “punctum”, che invece è “una crepa”, è “abitato da qualcosa d’indefinibile”, e “non produce piacere, ma una ferita”. In questo senso, è facile pensare a quanto le fotografie di tragedie in corso vengano utilizzate per provocare un’immediata reazione emotiva, capace di immobilizzare la platea in una paralisi di indignazione, e che poi alla fine scivola via senza procurare una ferita ma piuttosto assuefazione. La soluzione, secondo Han, non sta soltanto nella “decelerazione”, ma anche in un ritorno a narrazioni complesse perché “solo formazioni complesse, narrative emanano odore”.
Si potrebbe obiettare, però, che la trasparenza sia fondamentale in politica. Al grido di “trasparenza!”, il Movimento 5 Stelle riuscì a canalizzare un enorme consenso popolare. Eppure, la politica non è mai stata trasparente perché si basa sull’arcano. La politica trasparente supera la politica e diviene “transpolitica”. La fiducia si fonda sempre su un non-detto, su un’oscurità che non si conosce ma che si accetta. Senza fiducia, il patto che rende legittimo l’accordo tra governati e governanti non ha più senso. In più, “la tirannia dell’intimità” – che in politica sposta l’interesse dalle azioni alla persona – conduce all’obbligo di partecipazione alla perenne mise en scène del sé. La dimensione pubblica diventa una vetrina che “si allontana sempre più dallo spazio dell’agire comune”. Lo spettacolo trasparente non ha nulla del teatro e tutto del mercato; la rappresentazione cede il posto all’esposizione. Ed eccoci immersi nel “panottico digitale”, che è come la livella di Totò: nessuno è escluso. Diverso dal panottico benthamiano, il panottico digitale conduce i suoi liberi prigionieri all’ambizione del massimo interesse, profitto e autosfruttamento. I suoi detenuti sanno di essere costantemente osservati, e sono isolati l’uno dall’altro, “gli abitanti del panottico digitale si credono liberi” nel controllo più assoluto, e comunicano tra di loro in continuazione. E’ un capolavoro del paradosso: la comunicazione si lega al profitto, e libertà e controllo coincidono perfettamente:
“La sorveglianza oggi non si realizza, come si ritiene normalmente, nella forma di un attacco alla libertà. Piuttosto, ciascuno si consegna volontariamente allo sguardo panottico. […]. La libertà si rivela controllo.”
I disagi creati dalla società della trasparenza sono numerosi: l’eccesso del positivo è andato di pari passo con il proliferare di disturbi psichici. L’eccesso del positivo ha generato analfabetismo emotivo; non sappiamo dare un nome alla tristezza che proviamo. In posa e sorridenti, ci troviamo a fare i conti con l’assenza dello spirito. Il panottico digitale ci permette di dialogare con tutti, tranne che con noi stessi. E se è vero che il mondo digitale concede l’ostentazione soltanto della felicità- perché possiede valore di interesse– è ancor più vero che quell’ostentazione è una formula mercificata che nulla contiene del reale, che nulla restituisce del complesso: in fondo non possiamo essere neanche felici, sono accettati solo i sentimentini secchi. L’iper-connessione illumina per sfruttare, l’iper-positività sputa su quell’attimo profondo che è la felicità mentre finge di dargli un degno involucro.
Ecco che al di là degli inganni della società della trasparenza, diffidiamo – come ci invita a fare Byung-chul Han – della contemporaneità e del suo movimento che svanisce nell’accelerazione piuttosto che nell’immobilità. L’opacità non è un pericolo da cui fuggire, ma la migliore difesa contro la trasparenza che ci svuota e che siamo chiamati a subire. Difesa che – per suo vizio e come una sfida – è dentro di noi e quasi mai fuori. Nella tragedia a cui stiamo assistendo, piuttosto che rendere trasparente persino la quarantena, esercitiamoci nel “pathos della distanza”.
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