L’Italia è ostaggio di Confindustria e dei tecnici
di KRITICA ECONOMICA (Luca Giangregorio)
Martedì il Fondo monetario internazionale ha pubblicato le sue stime del Pil per gli anni 2020 e 2021. I numeri per l’Italia sono emblematici: -9,1% di caduta dell’output. Stime basate sull’ipotesi di una perdita di ore-lavorate dell’8%: lo stesso Fmi ammette che l’impatto sarebbe ben peggiore con ipotesi più pessimistiche. Previsioni che se confrontate con i numeri Ocse sembrano persino ottimistiche. L’Ocse indica infatti un calo di circa il 25% del Pil, ma calcola l’impatto immediato della pandemia e non sull’intero anno.
Queste stime, assieme alla risalita del differenziale Btp-Bund, sembrano una manna dal cielo per il gioco politico delle componenti del vecchio governo Monti, che si sono riavvicinate sulle loro posizioni nei confronti del Meccanismo europeo di stabilità e che hanno il supporto non solo di Confindustria, ma anche di ampie parti politiche e accademiche.
Se finora la maggioranza di governo è sembrata compatta sulla strategia politica da perseguire e presentare in Europa – no al Mes, sì agli Eurobond – assieme agli altri paesi del blocco Mediterraneo, ora sembra arrivato il momento del cambio tattico.
Le pressioni di Confindustria alla riapertura, nonostante il D.L. n. 23/2020 garantisca 400 miliardi di liquidità (sotto forma di garanzia statale sui prestiti) quasi-incondizionata alle imprese, sono all’ordine del giorno. In un contesto “naturale” in cui muoiono sul lavoro in media tre persone al giorno e senza l’esistenza di un efficace controllo della messa in sicurezza dei processi produttivi, la fretta di Confindustria dimostra la bulimia di profitto sopra il bene comune.
Inoltre, le proposte politiche di “convivenza” e di riapertura basate su età anagrafica e quindi probabilità di guarigione in questo specifico contesto omettono il fatto che non conosciamo (ancora) qual sia la probabilità di un individuo giovane di essere asintomatico e di diffondere il virus ad altri colleghi-lavoratori. Quello che sappiamo è solo la bassa mortalità anagrafica, ma questa non è sufficiente a garantire la sicurezza di altri individui con diverse probabilità di sopravvivenza al contagio proprio perché non conosciamo le probabilità di diffusione da asintomatici.
Insomma, far “convivere” i più giovani col virus con l’idea che “sono meno colpiti” può facilmente generare un’ulteriore diffusione rapida anche agli altri gruppi anagrafici se non vengono garantiti i necessari standard di sicurezza attraverso riorganizzazione della produzione e fornitura continua dei dispositivi di protezione individuale.
Alle pressioni padronali si sono unite le pressioni dei tecnici come Fornero, Prodi, Cottarelli e altri, che in coro invocano l’utilizzo del Mes e rifiutano l’utilizzo di strumenti fiscali redistributivi (i.e. patrimoniale).
Partendo da quest’ultima, si fa fatica a capire le ragioni del dibattito visto che purtroppo nessuno l’ha realmente menzionata. La proposta da orologio rotto del Partito democratico è, infatti, una ulteriore imposta progressiva sui redditi da lavoro che non ha nulla a che vedere con una patrimoniale, la quale è un’imposta sui patrimoni (per questo tema si rimanda ad un precedente articolo).
Assieme all’opposizione a qualsiasi proposta di azione fiscale, c’è l’invito ad accettare il Mes. All’ultimo summit la proposta è stata di un prestito senza condizionalità solo per un importo pari al 2% del Pil italiano e con vincolo di destinazione, ovvero a coprire le sole spese sanitarie. Tralasciamo il pur fondamentale punto sulle condizionalità assenti o meno, temporanee o durature – il TFUE all’art. 136 comma 3 ricorda come il Mes sia rigorosamente soggetto a condizionalità e lo stesso comunicato dell’Eurogruppo ricorda come al termine della crisi sanitaria i Paesi “dovranno impegnarsi nel rafforzare le loro posizioni economiche e finanziarie”. Il punto cruciale è che circa 35 miliardi da destinare alla sola sanità lasciano scoperto il fronte della ripartenza economica.
Se da un lato è chiaro che dovremo riorganizzare il sistema sanitario sia con spesa corrente (assunzione di nuovo personale medico) che con spesa in conto capitale (nuove strutture/macchinari), dall’altro è necessario sostenere i redditi dei lavoratori esclusi dai programmi di cassa integrazione, dei precari, dei disoccupati, nonché sostenere la ripresa della produzione – anche con interventi di nuova pianificazione e produzione di Stato. Purtroppo, in questo senso non sembra esserci molta preoccupazione dalle parti del governo che, al contrario, pensa di allentare i vincoli ai contratti a tempo determinato previsti dal Decreto Dignità. Lavoratori che, come sottolinea Banca d’Italia, non sono tutelati dai recenti interventi della maggioranza e che avranno scarse possibilità di essere presto occupati. Il ricorso alla Naspi non è sufficiente visto che lavoratori a termine hanno carriere discontinue e prestazioni sociali ridotte.
In questo senso i programmi addizionali offerti dall’Europa (SURE e BEI) non sono abbastanza. Inoltre, tenendo conto che i prestiti ricevuti in chiave Mes sono contabilizzati come debito pubblico questo rischia solo di aggravare ulteriormente la nostra capacità di auto-finanziamento sui mercati finanziari, incapaci di prezzare correttamente i fondamentali di ogni Paese (nonostante il mito della loro efficienza), generando ulteriori problemi di liquidità e supporto per le politiche sociali.
Al problema di definizione degli interventi e relativi finanziamenti, si aggiunge la task force: a questa vengono date le chiavi della riapertura dell’Italia. Nonostante non sia ancora chiaro quali siano i suoi reali poteri, se meramente di indirizzo/consulenza o più apertamente decisionali, c’è chi si augura che questa commissione abbia “pieni poteri”.
Tra questi Romano Prodi che, in deroga a qualsiasi principio di rappresentanza democratica, ci suggerisce una forma di elitismo per cui dovremmo affidarci completamente ad una commissione di tecnici. Sempre più spesso il mondo politico e la democrazia liberale si affida completamente ai tecnicismi siano essi astratti come i “mercati” o siano essi espressione del mondo accademico-manageriale. Emblematico è l’intervento di Andrea Guerra, ex ad di Luxottica che propone poco meno che un “commissariamento dell’Italia per la durata di 24 mesi prima di indicare un percorso politico”. Insomma una “dittatura tecnica” o “dittatura dei competenti”, a seconda di come preferite.
Questo rovesciamento logico con la tecnica che domina la politica e non viceversa è spiegabile in chiave di processo di egemonia culturale in senso gramsciano. Gli intellettuali e i tecnici della classe dominante sono riusciti nell’obiettivo di rovesciare il rapporto logico tra tecnica e politica con l’idea di una direzione neutrale e secondo competenza. Tuttavia, la politica per definizione non è un campo neutro e nemmeno i rappresentanti della tecnica sono privi di orientamento ideologico, anzi. Sono appunto espressione intellettuale-competente della classe dominante e di essa ne persegue gli interessi. Lasciare pieni poteri a una task force significa non solo derogare ai principi democratici, ma anche ammettere semplicemente di quali interessi ci vogliamo prima di tutto occupare nel definire le vie della riapertura.
Infatti, dovrebbe preoccupare che all’interno di questa task force non ci sia nessun rappresentante del mondo del lavoro, come se i lavoratori fossero privi di un loro interesse e si debbano semplicemente adeguare alle linee guida definite da un’entità superiore. Eppure sono proprio i lavoratori che si ritrovano all’interno delle fabbriche, sono loro il potenziale veicolo di trasmissione del Covid-19 e sono loro che garantiscono i livelli produttivi. Come stiamo vedendo in questo periodo, senza il lavoro (vivo) il capitale rimane solo lavoro morto. Senza i lavoratori che vengono di norma tacciati di “bassa produttività e basso valore aggiunto” e per questo “meritevoli di bassi salari” non saremmo in grado di mantenere adeguati livelli di approvvigionamento, si pensi ad esempio ai lavoratori della logistica, ai cassieri, ai rider, alla filiera agroalimentare.
Tuttavia, questo pare non essere sufficiente per una reale democratizzazione della riorganizzazione dei processi produttivi e della gestione della riapertura.
FONTE:https://www.kriticaeconomica.com/litalia-e-ostaggio-di-confindustria-e-dei-tecnici/
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