L’assedio di Capitol Hill ha scioccato il mondo intero, rimasto basito a guardare l’assalto a quello che viene considerato il tempio della democrazia occidentale.
La folla, aizzata dal Presidente Trump, è riuscita, per ben sei ore, a tenere sotto scacco il Congresso, impedendo, anche solo momentaneamente, la votazione che ha sancito la vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali. Questo sarebbe già sconcertante, ma è stato aggravato da un bilancio ben più pesante: 5 morti.
Molti di noi hanno auspicato che al Tycoon fosse impedito di continuare la sua campagna d’odio e menzogne contro il risultato elettorale che lo ha visto sconfitto.
Durante la sua presidenza non sono mai mancati post contro minoranze, immigrati, donne e contro chiunque avesse una visione del mondo diversa dalla sua. Per avvalorare le sue posizioni, Trump ha fatto un uso massivo di notizie false, culminate con la rivendicazione dellasua vittoria elettorale e l’incitamento, rivolto ai suoi sostenitori,ad impedire la nomina di Biden, sfociata nell’assalto al Parlamento.
Naturalmente i messaggi “Ci hanno rubato le elezioni”, “Siete dei patrioti”, “Rendiamo di nuovo grande l’America” sono stati diffusi attraverso i social network, che dopo la sommossa sono corsi ai ripari bloccando gli account del Tycoon.
L’ostracismo nei confronti di Trump da parte di Facebook e Twitter è una storia più vecchia; infatti risale al 27 maggio dello scorso anno quando Jack Dorsey, CEO di Twitter, ordinò la rimozione di due post del Presidente in cui si scagliava contro il voto postale. Da quel momento sia la società di San Francisco sia Facebook hanno cominciato a segnalare, con degli avvisi, i post presidenziali come fraudolenti, fino ad arrivare a sabato scorso, quando l’account personale di Trump è stato bannato definitivamente da Twitter.
Questo tipo di azione, però, solleva problemi per la democrazia. I social media, infatti, sono spesso stati elogiati come una nuova sfera pubblica, un luogo di confronto e aggregazione per ogni tipo di persona a prescindere da idee, credo religioso, etnia o genere.
È vero che hanno permesso una maggiore visibilità anche a gruppi estremisti, come nel caso americano dell’alt-right e dei suprematisti bianchi che compongono lo zoccolo duro del trumpismo. Ma il rischio è che la censura non faccia altro che alimentare il vittimismo della nuova destra che così può presentarsi come martire delle élite globali.
In questo quadro sorge spontaneo chiedersi se l’affidarsi ai social come “agorà” risponda realmente ai principi democratici sui cui si basa il nostro sistema politico.
Il fatto che le multinazionali del web si siano arrogate il libero arbitrio sulla censura crea un pericoloso precedente, in quanto un personaggio inviso a Zuckerberg, piuttosto che a Dorsey, potrebbe essere ostracizzato dalla comunicazione social in qualsiasi momento. Di fatti ben prima del caso Trump, molte pagine e canali di movimenti sia di sinistra che di destra sono state chiuse, spesso senza spiegazioni.
Il problema non si risolverebbe nemmeno nel caso in cui vi fosse un controllo pubblico sulle compagnie di internet. La censura potrebbe essere strumentalizzata in ogni direzione, ad esempio a servizio del politico del momento.L’errore di fondo sta nell’aver reso i social media i principali mezzi di comunicazione politica.
Partiti, leader più o meno importanti si basano su internet per raggiungere il maggior numero possibile di utenti, cercando di ampliare spasmodicamente la propria base di consenso. Per fare questo, spesso abbandonano l’elaborazione di un pensiero politico affidandosi al trend del momento, abrogando la morale e la coerenza.
La mole di dati in possesso delle grandi società della Silicon Valley sono una manna per la politica proprio perché, con il giusto investimento, permettono di avere un target di potenziali elettori a portata di click. È a rischio la nostra privacy, ma anche la nostra capacità di autodeterminazione.
Difatti veniamo costantemente sottoposti a stimoli e a scelte di tipo rapido. È proprio nell’immediatezza dell’azione che l’utente perde la razionalità affidandosi a quell’istinto che fa il gioco delle piattaforme.
È noto che la simpatia sia un fattore determinante nella nostra scelta dei personaggi da seguire, che favoriamo il politico o chiunque abbia fatto qualcosa di cui abbiamo beneficiato; che l’opinione di una persona autorevole ha su di noi maggiore influenza rispetto a quella di un cittadino qualunque. Il sentirsi parte di un gruppo predispone ad accettare le proposte della leadership.
La politica sfrutta i processi mediatici dei social per influenzare le masse e crea strumenti propri per interagire con la base. L’interazione e la partecipazione democratica sono reali? In realtà no, l’elettore/utente viene semplicemente influenzato per vincere questa o quella competizione elettorale. I politici infatti attuano sui social due principali strategie per accaparrarsi il consenso ossia il broadcasting, quindi delle comunicazioni calate dall’alto senza discussione e il monologo autocelebrativo del partito o del leader.
Spesso non è nemmeno il politico in persona a dare questo tipo di comunicazione, ma qualcuno per lui, il cosiddetto ghostwriter o spin doctor. I contenuti vengono, in molti casi, infarciti di fake news in modo da suscitare il maggior numero di reazioni istintive sia favorevoli che contrarie per attirare l’attenzione.
Si genera un quadro sconcertante in cui una scelta politica non è più fatta dall’utente social in maniera democratica, discussa e partecipata, ma viene influenzata da algoritmi, fake news, sponsorizzazioni e decisioni arbitrarie. Stiamo perdendo la nostra capacità decisionale sull’altare del business di pochi. Questo viene sapientemente sfruttato dalle élite che non vedevano l’ora di trovare mezzi così potenti per il perseguimento dei propri scopi. Quando questi non coincidono con quelli degli amministratori dei social, molto semplicemente basta bloccare un account.
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