Citizen Donald
Di: Il pedante
L’esclusione dell’allora presidente uscente degli Stati Uniti d’America Donald Trump dai più importanti social network ha suscitato critiche, entusiasmi e sconcerto. La purga, partita da Twitter il 7 gennaio durante i disordini di Capitol Hill, ha poi coinvolto anche Facebook, Instagram, Twitch, Tik Tok, Snapchat, YouTube, Shopify e, indirettamente, anche piattaforme non allineate come Parler, affondato dalla decisione di Apple, Google e Amazon di non fornire più le infrastrutture tecniche necessarie al suo funzionamento. Gli alternativi Telegram, Signal e Gab resistevano, e di conseguenza imbarcavano milioni di nuovi utenti incassando l’accusa di ospitare pericolose orde di ultradestra.
È noto che il motivo addotto di questi oscuramenti a catena sarebbe la presunta diffusione di incitamenti alla violenza e di notizie false o controverse sull’esito elettorale. È però vero che già nel primo video censurato da Twitter, Trump invitava i riottosi del Campidoglio ad
“andare a casa, ora. Abbiamo bisogno di pace. Dobbiamo rispettare la legge e l’ordine. Dobbiamo rispettare le persone straordinarie che difendono la legge e l’ordine. Non vogliamo che ci si faccia male. È un momento molto difficile… è un’elezione fraudolenta, ma non possiamo fare il gioco di queste persone. Abbiamo bisogno di pace. Perciò andate a casa.”
E che dopo dodici ore l’account @realdonaldtrump veniva brevemente riattivato e poi sospeso in via definitiva il giorno seguente, l’8 gennaio, a motivo, spiegava una nota dell’azienda, di due tweet nel frattempo pubblicati in cui l’ex presidente prometteva ai suoi sostenitori (nel primo) che non sarebbero stati «trattati senza rispetto o ingiustamente, in ogni forma e modo» e annunciava (nel secondo) che non avrebbe presenziato alla cerimonia di insediamento del suo successore. I censori di Twitter interpretavano questi messaggi come una «glorificazione della violenza» leggendo, ad esempio, nell’annuncio di non partecipare all’inaugurazione del nuovo mandato presidenziale la volontà di non agevolare una «transizione ordinata» dei poteri, se non addirittura un «incoraggiamento rivolto ai potenziali violenti» perché l’evento «sarebbe un bersaglio sicuro, non essendo egli presente». O ancora, nell’espressione «patrioti americani» un sottinteso «supporto a coloro che hanno commesso violenze in Campidoglio».
La tenuità del merito getta luce sul metodo. Diversi esponenti del giornalismo, della politica e del pensiero hanno espresso preoccupazioni fondate sull’entrata «a gamba tesa» delle aziende informatiche nella massima istituzione della massima potenza mondiale. Perché da lì, in effetti, è tutta in discesa, chiunque può essere colpito. Solo pochi giorni dopo, l’amministratore delegato di Twitter Jack Dorsey avrebbe infatti confermato in una conversazione trapelata online che «la faccenda andrà ben oltre un singolo account e si protrarrà ben oltre questo giorno, questa settimana e le prossime settimane, e anche dopo l’insediamento [del nuovo presidente]». Gli oltre settantamila account sospesi per avere diffuso o rilanciato tesi favorevoli a Trump, la rimozione di due messaggi dell’ayatollah Ali Khamenei in cui si definivano «inaffidabili» i vaccini prodotti in Occidente, le limitazioni imposte al canale Youtube (Google) della testata giornalistica di Claudio Messora, il ban della seguita pagina satirica “Le frasi di Osho” da Facebook, per citare solo i casi più discussi, potrebbero insomma essere la prova generale di una più sistematica operazione di reshaping in tempo reale dell’informazione e dell’opinione pubblica.
Restando nei termini istituzionali, è evidente il problema della mancata regolazione di mezzi di comunicazione che ormai si qualificano oltre ogni dubbio come servizi pubblici de facto, senza però sottostare agli obblighi e alla vigilanza riservati ad altri settori. I margini di autoregolazione di cui godono gli oligopolisti telematici stridono con la fitta trama di standard tecnici, commerciali e contrattuali con cui le authority nazionali si sforzano altrove di imbrigliare il mercato dei servizi essenziali. Questa lacuna oggi è ancora più drammatica perché le comunicazioni a distanza, dovendosi rispettare i diktat sanitari del distanziamento, sono anche imposte per legge e perciò irrinunciabili, non sono più una comodità o un passatempo. Se sui software chiusi e sotto gli occhi giudicanti di queste aziende si diffondono messaggi personali, politici e istituzionali, ci si istruisce, si siglano atti ufficiali, si celebrano processi e si riuniscono i parlamenti, non può non preoccupare che l’autorità pubblica costringa la popolazione ad alimentarne sempre più la penetrazione senza pretendere garanzie speciali.[1]
Ed è sconsolante che una parte della popolazione accetti questa assenza di garanzie nell’incredibile convinzione che lo status privatistico degli operatori conferisca loro la stessa discrezionalità del pizzicagnolo o della massaia. Perché allora non lasciare che le compagnie elettriche stacchino la corrente di chi spreca energia? O che quelle telefoniche tolgano la connessione a chi diffonde messaggi contrari ai valori aziendali? O che quelle autostradali non alzino la sbarra a chi ne critica la gestione? Le organizzazioni statali nascono precisamente per mettere in equilibrio i vantaggi di ciascuno per il massimo vantaggio di tutti.[2] Chi non riconosce questa funzione può accomodarsi nella giungla e sperare che l’orso, avendo oggi divorato il lupo, risparmierà domani i polli che lo acclamano.
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Al di là delle simpatie politiche, la censura dell’esuberante Donald dovrebbe far suonare la sveglia per tutti. La prima lezione è che i grandi attori politici non istituzionali esistono, agiscono e sono tutto fuorché occulti. Hanno ragione sociale e partita IVA, operano alla luce del sole e sfidano in campo aperto la più alta carica mondiale brandendo i codicilli dei propri «termini di servizio». Anche senza intrattenersi sui moventi e sui diritti dei censori, l’episodio basterebbe in sé per misurare lo stato comatoso dei poteri politici nelle cosiddette democrazie occidentali, in cui i dispositivi costituzionali si lasciano battere sul tempo dai contratti online e dallo spontaneismo degli «imperativi morali».
La seconda lezione è che urge mettere una pietra finalmente tombale sulla neutralità di un terreno dove più o meno tutti, per scelta e per necessità, abbiamo affondato le radici. Stiamo giocando in casa d’altri secondo le regole e le inclinazioni di chi ci ospita, per di più in una fase storica dove la critica legittima ai messaggi più accreditati e «corretti» non tocca solo il diritto di esprimersi, ma per molti anche quello alla salute, al lavoro, alla dignità e alla sussistenza. È perciò pessima, davvero pessima, l’idea di smaterializzarsi e comprimere per decreto la vita pubblica, sociale e professionale nei feudi di pochi signori digitali. Perché ciò che è autorizzato solo nello spazio informatico esiste solo in virtù del suo essere ammesso in quello spazio. In queste condizioni, chi gestisce il palcoscenico virtuale è investito di un potere poietico che nel concedere la riproduzione ammessa delle cose non discrimina tra il vero e il falso, ma tra ciò che è e ciò che non è. Non distribuisce patenti di verità, ma certificati di esistenza. La rappresentazione del mondo diventa mondo e chi vi partecipa lo spendibile ologramma di un quarto potere che sovrasta gli altri riplasmando la cognizione con una facilità e un’efficienza che nessun governo potrebbe eguagliare.
L’ultima evoluzione della rete internet, quella di un servizio pubblico obbligato e occupato da pochi operatori che intervengono nel flusso della rappresentazione secondo regole proprie, segna insieme un punto di normalizzazione del nuovo e di superamento del vecchio. La concentrazione dei mercati telematici ha trasformato una manciata di prodotti in agorà, in luoghi pubblicamente e anche legalmente riconosciuti dove si assembrano miliardi di persone. Coi musi perennemente incollati alle schermate delle solite app, queste moltitudini replicano nella rete le dinamiche già proprie del medium televisivo: pervasività, dominio dei grandi network, omologazione dei palinsesti e dei messaggi «buoni».
Dal luogo anarchico delle origini al sogno libero della sua adolescenza, il web maturo si è allineato alla fruizione televisiva e di quest’ultima ha reclamato il ruolo anche politico, attirando a sé le attenzioni, le preoccupazioni e le brame di chi vuole incidere nell’opinione delle masse organizzandone le emozioni e i discorsi. Ma non si ferma qui. Come quella immaginata da Orwell, la televisione-rete risolve l’asimmetria soggetto-oggetto del suo antenato coinvolgendo gli spettatori e assorbendone l’identità per restituire contenuti e servizi personalizzati. E come quella, non si può spegnere. Ma può spegnere chi non accetta i suoi copioni.
- Con il Digital Services Act (DSA) presentato in bozza lo scorso 15 dicembre, la Commissione Europea si è riproposta di definire le prerogative e i doveri in carico agli operatori e introdurre nuovi obblighi di servizio, anche contro la moderazione arbitraria. In astratto, il provvedimento va nell’unica giusta direzione possibile, ma impiegherà anni prima di tradursi in legge e potrebbe persino introdurre nuovi rischi. Nel frattempo il ruolo dominante delle piattaforme continuerà a crescere e a influenzare i dibattiti, la percezione del pubblico e inevitabilmente anche il processo di definizione delle nuove regole. Degna di nota è la scelta del governo polacco di dotarsi a breve di una normativa propria per contrastare le azioni censorie dei grandi social media. Il fatto che l’iniziativa parta da un Paese a guida conservatrice assai disallineato dalla Weltanschauung progressista generalmente abbracciata dall’industria digitale (ad esempio sui diritti degli omosessuali, o sull’aborto) illustra molto bene il punto ultimamente politico di queste tenzoni nominalmente incentrate sulla «libertà», la «verità», la «sicurezza» ecc.
- Se è vero che per la nostra Costituzione «l’iniziativa economica privata è libera», essa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41).
Fonte: http://ilpedante.org/post/citizen-donald
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