La salus del mondo
di Gazzetta Filosofica (Maddalena Tommasi)
Voglio salvare il mondo” è una frase che si sente spesso. Ma in che senso intendiamo qui il termine salvezza?
Nel momento in cui si pensa di salvare il mondo è necessario pensare anche da cosa si voglia salvarlo e soprattutto cosa intendiamo con il termine salvezza.
Uno può dire: “Voglio salvare il mondo dal male, dalla miseria” ma davvero sappiamo cos’è il male, la miseria? Se conoscessimo il male, non lo dovremmo fare. Per poter salvare il mondo, in questo senso, dovremmo conoscere noi stessi, conoscere ciò che andiamo a salvare, quindi il mondo, cioè tutti coloro che lo abitano, conoscerli fino in fondo, conoscerne le relazioni e ovviamente conoscere il male e conoscendo il male non dovremmo in alcun modo commetterlo. Così dovremmo essere consci del fatto che a quel punto il mondo sarebbe nelle nostre mani, e che, a quel punto, avremmo poteri superiori e saremmo dio. Questo però non è, perché siamo “solo” uomini.
Ma allora è possibile intendere la frase “voglio salvare il mondo” in un altro modo?
Dire che pensiamo di “salvare il mondo” in questo senso è proprio un’utopia, è qualcosa di sbagliato perché facciamo finta di trasformarlo in qualcosa che ci illudiamo di poter controllare.
Salvare significa sottrarre qualcuno/qualcosa da qualcos’altro (da un danno, dalla distruzione, dalla morte) da qualcosa che ha sempre una connotazione negativa. Esempio: un bagnino vede in acqua una persona che sta per annegare, si tuffa, la raggiunge e la salva; in questo caso A sottrae B dalla morte, dalla morte, però, in quel momento. Altro esempio: dando la vita per qualcuno, salvarlo, non significa negargli la morte, significa negargliela in quel momento. La salvezza intesa così ha un senso, che possiamo denominare, “puntuativo” cioè vale e ha senso per quel caso specifico in quel momento.
Il termine salvezza deriva dal latino salus, utis che vuol dire anche salute, e forse dovremmo intendere l’idea di “salvare il mondo” non nel senso di sottrarlo dal male, perché quella è utopia, e manda proprio fuori strada chi ne parla e chi ascolta, ma intenderla in senso “continuativo”, di salvezza come “salute”. Chi cerca di salvare il mondo è da questa prospettiva che dovrebbe guardare: quello di dare salute al mondo, di prendersene cura, di accudire, custodire dove siamo, chi siamo.
Ecco che allora questa frase è vista in un’ottica completamente diversa. Se, però, la intendiamo nell’altro senso, è chiaro che perdiamo la voglia di ascoltare chi ne parla; il rifiuto che ne abbiamo, infatti, è corretto, poiché è dato dal rendersi conto dell’impossibilità che emerge: trasformare noi uomini in non-umani e trasformare il mondo in un oggetto su cui abbiamo un potere assoluto, ottenendo però di non comprendere noi stessi, con chi ci stiamo rapportando e cosa dovremmo fare in realtà.
Noi non siamo dio, siamo “parti dell’Assoluto”; nel momento in cui ci immoliamo a paladini, immaginando di poter strappare la miseria, l’ingiustizia, il cancro del mondo in uno sbattere di ciglia, ci consideriamo quasi dio e perdiamo la via che ci permette di conoscerci come uomini.
Un passo tratto da I fratelli Karamàzov ci può aiutare a esplicitare meglio la questione. Mìtja, dopo essere stato interrogato, esausto, si addormenta e sogna di essere su un carro portato da due cavalli guidati da un contadino; fa freddo e vede in mezzo alla neve molte donne, una in particolare, magrissima, con un bambino in braccio il quale piange dal freddo, dalla fame, e allora chiede al vetturino perché piange e lui risponde:
“Ma perché questo? Perché?” continua lo sciocco Mìtja.
“Perché sono poveri, sono sopravvissuti all’incendio; pane non ce n’è qui, chiedono la carità per il paese bruciato.”
“No, no” sembra che Mìtja ancora non capisca “dimmi: perché stanno qui queste madri misere? Perché la gente è povera? Perché il piccinino è misero? Perché questa nuda steppa? Perché non si abbracciano, non si baciano, perché non cantano canzoni allegre? Perché sono diventate così nere per la nera miseria, perché non allattano il piccinin?” E sente dentro di sé che, sebbene faccia domande da pazzo e da stupido, è proprio quello che vuole chiedere e che è necessario chiedere. E sente anche che nel cuore gli cresce una commozione mai provata prima, che ha voglia di piangere, che vuole fare qualcosa per tutti, perché il piccinin non pianga più, perché non pianga più la sua nera madre emaciata, perché nessuno pianga più da quel momento, e lo vorrebbe fare subito, senza rimandare e senza tenere conto di niente, con tutto l’impeto dei Karamàzov” »
È chiaro che questo passo all’interno del racconto, del capitolo, ha un senso che qui non si vuole analizzare o approfondire, ma si vogliono prendere a prestito le parole di un grande uomo, quale era Dostoevskij, “usarle” per ciò che stiamo cercando di dire.
Ognuno reagisce in modo diverso alla miseria del mondo, alle sue ingiustizie c’è chi le ha provate poche volte nella vita, chi le ha solo viste, chi invece le vive per una vita intera e conosce solo quelle. Chi le dimentica, chi cerca di starci indifferente, chi non riesce ad affrontarle, chi le vuole risolvere come fossero problemi di matematica. Alcuni come Mìtja si chiedono il perché, che come dice Dostoevskij, appare stupido, insensato e invece alla fine si rivela essere ciò che è necessario chiedersi, ciò che è necessario chiedersi oggi, perché, anche se quello che scrive Dostoevskij riguarda un sogno di un personaggio inventato, egli ha visto ciò che ha scritto, ed è quello che ancora oggi accade.
Non significa che, poiché la tecnologia sia cresciuta ad un livello così elevato, la miseria sia cessata; non è tanto la domanda che non ha senso quanto quello che accade e farsi domande è l’inizio per cercare di cambiare le cose in meglio, si spera. Cambiare le cose però non con “impeto”, come avrebbe voluto fare in quel momento Mìtja, perché, sebbene esso possa essere il sentimento originario, non può prevalere, dal momento che porterebbe a pensare di “salvare il mondo” nel primo senso analizzato, cioè quello di voler sradicare, di eliminare subito la miseria, e questo perché è doloroso vedere, vivere le ingiustizie. Il problema però è che la “salvezza del mondo” vista da quest’ottica non ci appartiene. Ci appartiene, invece, il fatto di chiedersi il perché una cosa avviene così e non altrimenti, il pensare come poter cambiare le cose, il ragionare sul bene e sul male, sulla sofferenza, per comprenderli e non farli, questo è essere uomini, è così che possiamo intendere di “salvare il mondo”, è così che possiamo prenderci cura della sua salute, per tenerlo in salute, e non immolarci a paladini… Questo lasciamolo a dio.
Fonte: https://www.gazzettafilosofica.net/2021-1/maggio/la-salus-del-mondo/
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