Bulimia Sistemica, Sinofobia e Biopotere nell’Era Pandemica
da SINOSFERE (Tommaso Previato)
Nei Tristi Tropici, Claude Lévi-Strauss sostiene che in seno alle società cosiddette “primitive,” l’altro – il prigioniero di guerra, l’estraneo, il traditore o semplicemente colui che devia dalla norma del gruppo – venga consumato in pasti antropofagi attraverso i quali il gruppo riafferma a viva forza sé stesso, azzerando le differenze interne. Le società “moderne”, che pure adottano simili meccanismi di radicale annichilimento dell’identità altrui, si mostrerebbero tuttavia più propense ad espellere bulimicamente l’alterità, ovvero se ne abbufferebbero in maniera compulsiva per colmare il proprio vuoto interiore ma la rigetterebbero prima di averla interamente digerita.1) La metafora della “crisi bulimica” ben si presta a descrivere il complesso rapporto che lega il blocco delle liberal-democrazie occidentali – Italia in primis – con la Repubblica Popolare Cinese. L’atmosfera di grave tensione geopolitica creatasi attorno alle odierne vicende pandemiche rende il rigurgito ormai inevitabile, ma fino a soltanto un paio di anni fa, quando l’ascesa cinese godeva ancora del favore dei tecnocrati dell’alta finanza mondiale e il nostro paese aveva appena sottoscritto il memorandum d’intesa sulle “Nuove Vie della Seta”, le economie appartenenti a suddetto blocco continuavano a “cibarsi” avidamente di Cina poco o nulla curandosi della propria “immagine fisica” e delle possibili ricadute sulla credibilità del proprio sistema politico. L’emergenza sanitaria in corso ha drasticamente, forse irrimediabilmente, alterato la percezione della Repubblica Popolare all’estero, costringendo in particolare l’Europa a una presa di coscienza della gravità della propria patologia e a ricevere una diagnosi nelle cliniche di Washington. Il risveglio geopolitico europeo, favorito dalla ricetta atlantica che il giugno scorso, in occasione del vertice del G7, ha ricompattato le tradizionali reti di alleanza in chiave anti-cinese, se da un lato ha fatto emergere la paura del proprio “dismorfismo” politico-istituzionale fra gli aderenti all’alleanza stessa, dall’altro sarà destinato a moltiplicare i già allarmanti episodi di sinofobia a detrimento delle comunità della diaspora.
Venuti meno tutt’a un tratto i presupposti della pacifica convivenza che un tempo facevano del mondo un sistema integrato, perlomeno sul piano economico ed infrastrutturale, assistiamo oggi a una nuova guerra fra imperi, con USA e Cina come principali protagonisti. Al pari delle altre grandi guerre della storia, in special modo la guerra fredda del secolo scorso, quella bipolare dell’era pandemica ha in sé una forte componente ideologica che, spostando lo scontro nell’arena del simbolico, esclude, almeno per il momento, l’eventualità dell’uso della forza. Si presenta per questo come una forma estrema di “alterizzazione” che deumanizza l’altro – nel caso in questione il fantomatico “untore cinese” che vive in mezzo a noi e insidia la comunità – per rivendicare, epurandola, l’identità di gruppo. Essa si contrappone, ciò nonostante, alle esperienze belliche del passato per i metodi di mobilitazione delle coscienze. La condizione di iperconnettività, posta in essere dall’avvento e dalla diffusione sempre più pervasiva delle nuove tecnologie digitali, ha infatti non solo trasformato il rapporto con l’altro, ma privato l’essere umano in quanto tale di ogni legame solidale con la comunità di appartenenza, al punto che questa resta sorretta soltanto dalla forza coesiva di odio, paura e sentimenti xenofobi verso l’altro.
Come dimostra Valentina Pedone nella sua recente indagine sull’ondata sinofoba che travolse social network e media italiani all’indomani della dichiarazione dello stato di pandemia globale, l’alterità viene spesso silenziata, reificata e nei momenti di crisi razzializzata e più o meno consapevolmente condannata. Talvolta, ci rammenta con un velo di amarezza Daniele Cologna, pure da coloro i quali di alterità se ne occupano per mestiere.2) Invece di coinvolgerla nell’agire quotidiano lasciando così spazio a nuovi modelli identitari capaci di mobilitare il capitale culturale – e prima di tutto “umano” – necessario a superare la crisi, la prassi biopolitica ora prevalente ne ha fatto a tutti gli effetti uno strumento di governance che è venuto affinandosi proprio grazie alla crisi. Obbligando gli uomini a vivere in base a modelli che violano la loro stessa natura e negano ogni progettualità comunitaria che non sia fondata su relazioni, appartenenze o identità contrastive, alienanti ed ingannevoli, le nuove tecniche del “biopotere” applicate alla pandemia hanno plasmato un’umanità surrogata di individui, comunità e culture iperconnesse ma fra loro non dialoganti. Questi semplici “apparati” della rete si auto-celebrano nei loro tweet attraverso cortei sacrificali e pratiche di “espulsione vittimaria,” in modi per niente dissimili da quelli prescritti nei cerimoniali cannibali delle società “primitive” studiate da Lévi-Strauss e René Girard.3)
L’inasprirsi dello scontro fra USA e Cina per la supremazia economica, unito all’accelerazione in senso digitale imposta dalla pandemia, ha reso le comunità di ambo gli schieramenti, o ciò che ne resta di esse, incapaci di cogliere quale sia la reale contraddizione del nostro tempo: l’organizzazione tecnologica rigida e capillare dell’esperienza umana che, come già aveva con gran lungimiranza inteso Emanuele Severino ben quarant’anni fa in clima di piena guerra fredda, spinge al tramonto non soltanto ideologie e valori tradizionali, ma l’umanesimo su cui questi si poggiano nonché la dignità dell’essere umano.4) Perdutosi nella tecnica, oggi venerata con rinnovata tensione emotiva alla stregua di una moderna divinità antropofaga, l’uomo sta subendo una mutazione strutturale di fronte alla quale non può che assistere impotente. Egli cessa di essere sintesi fra biologia e cultura per ridursi a materia inorganica producibile e consumabile secondo il paradigma tecno-economico imperante, le cui leggi inderogabili sfuggono a ogni tentativo di razionalizzazione. A prescindere da quale schieramento uno scelga di sostenere, la guerra dell’era pandemica – direbbe a tal riguardo Diego Fusaro – è innanzitutto una guerra fra potere tecno-economico e difensori della natura umana.5) Una cosa è certa, che sia il modello americano o quello cinese a prevalere, il mondo tornerà ad essere ricco di merci, scambi e relazioni ma resterà pur sempre povero di progetti di convivenza e spazi di dialogo.
Dottorato nel dicembre 2012 con un programma di cotutela presso l’Università Sapienza di Roma (Civiltà, Culture e Società dell’Asia e dell’Africa) e la Minzu University of China (Etnologia), Tommaso Previato è ricercatore postdoc all’Istituto di Storia e Filologia dell’Academia Sinica. I suoi interessi di ricerca si rivolgono all’antropologia della Cina occidentale, in particolare alla trasmissione di culti eterodossi lungo i cosiddetti “Corridoi Etnici”. Alcune delle sue pubblicazioni recenti riguardano l’ecologia di genere nelle tradizioni indigene dello Yunnan settentrionale, le confraternite sufi nel Gansu dell’epoca Qing, e più in genere la storia dell’Islam in Cina.
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