Ci mancava la peste suina africana
da SCIENZA IN RETE (Laura Scillitani)
In Piemonte, lo scorso 6 gennaio è stato per la prima volta confermato il caso di una carcassa di cinghiale positiva al virus della peste suina africana genotipo II. Una malattia non pericolosa per l’uomo ma letale per i suini, che può avere gravi ricadute socioeconomiche e la cui origine è legata alle attività antropiche.
Ormai da due anni la nostra vita è scandita da informazioni sui virus, a causa della pandemia siamo bombardati da notizie su varianti, contagiosità e letalità. SARS-COV-2 certo è un virus che sta prendendo tutte le attenzioni mediatiche, a causa degli evidenti drammatici impatti sulle nostre vite. Molto più subdolo e meno sotto ai riflettori, per lo meno dei media nazionali, è invece un altro virus che malauguratamente ha fatto il suo ingresso nel nostro Paese: si tratta del virus responsabile della Peste Suina Africana (PSA), genotipo II, la cui presenza è stata registrata lo scorso 6 gennaio per la prima volta con il ritrovamento, nel comune di Ovada, in provincia di Alessandria, di una carcassa di cinghiale positiva al virus.
Il virus responsabile della PSA è un virus a DNA appartenente alla famiglia degli Asfarviridae, ed è responsabile di una febbre emorragica con un elevato tasso di letalità nei suini (sia maiali domestici che cinghiali). Non si tratta di una zoonosi, quindi non è trasmissibile alle persone, né ad altre specie animali, è specifica dei suini, ma ha sicuramente un importante impatto sulle attività umane perché a causa della sua devastante contagiosità e pericolosità è in grado di provocare ingentissimi danni economici a carico del settore suinicolo, oltre a limitazioni e ricadute di natura commerciale. Non esistono vaccini che mettano al sicuro i maiali, né cure, quindi nel caso di infezione è necessario provvedere all’abbattimento di tutti i capi dell’allevamento e alla distruzione delle carcasse. La prassi viene estesa alle aziende circostanti. Ma ovviamente le ricadute commerciali possono estendersi ben al di là della zona colpita, nel caso in cui Paesi terzi dovessero decidere di vietare l’ingresso a tutte le produzioni suine italiane, non riconoscendo il principio di regionalizzazione, comportando un crollo delle esportazione di carni e prodotti a base di carne suina.
Un virus persistente
I primi sintomi della malattia si manifestano dopo circa quattro giorni dal contagio. La peste suina africana provoca febbre alta, edema polmonare, gastrite emorragica, vomito e diarrea, linfonodi ingrossati e edematosi, epistassi, lesioni sottocutanee. Come risultato, gli animali malati fanno fatica a respirare, tendono a non alimentarsi, hanno difficoltà nel compiere movimenti coordinati (atassia), sono disorientati e letargici. Tra il 95 e il 100% di chi si infetta è destinato a morire. Ma non è solo la severità dei sintomi e la contagiosità che rende il virus della PSA così temibile. È anche, forse soprattutto, la sua incredibile resistenza ambientale. Il virus rimane infatti quiescente al di fuori di un ospite, può resistere fino a 15 settimane a temperatura ambiente, mesi a 4°C e indefinitamente nelle carni surgelate. Poiché servono altissime temperature tenute a lungo per neutralizzare il virus, gli insaccati fatti da carni infette sono anch’essi fonti di infezione virale per i suini. Il virus resiste su diversi substrati: coltelli, vestiti, scarti di cucina contaminati, terreno e anche vegetali contaminati dalla saliva di animali infetti.
Le carcasse dei cinghiali morti a causa della malattia sono un enorme serbatoio virale pronto a infettare qualche malcapitato suide che si avventuri a perlustrarle; non è ancora molto chiaro invece il ruolo dei necrofagi che si cibano delle carcasse infette, in parte possono agire da trasportatori del virus, attraverso zampe e pelo, in parte possono contribuire all’eliminazione delle carcasse dall’ambiente, consumandole ed essendo immuni all’infezione. Infatti la trasmissione del virus può avvenire sia per contatto diretto con gli ammalati, sia in maniera indiretta, attraverso un ambiente contaminato per la presenza di carcasse o resti di animali infetti, feci e liquidi corporei, o nel caso soprattutto degli allevamenti, oggetti contaminati. Ma il più subdolo mezzo di propagazione del virus è la contaminazione: aderendo a vestiti, oggetti, alle suole di stivali e scarponi, o ancor peggio alla superficie degli pneumatici, consente al virus di essere trasportato su lunghe, a volte lunghissime distanze, alla ricerca di nuovi suini in cui proliferare. E infatti qui entra in scena la presenza umana: è grazie a questi meccanismi che il virus è in grado di viaggiare e raggiungere luoghi sicuramente non raggiungibili “a bordo” di un cinghiale.
Ancora una volta, una conseguenza dell’Antropocene
Il virus della PSA è un caso da manuale del legame tra perturbazioni ambientali di origine antropica e la diffusione di un patogeno. Come ricostruito in un recente articolo, il virus originariamente viveva nell’Africa subsahariana e compieva un ciclo vitale completo tra due ospiti: le zecche del genere Ornithodorus e il facocero (conosciuto da molti come il Pumba del Re Leone). La letalità nel facocero è molto bassa e la malattia è asintomatica, perché la maggior parte delle infezioni avviene nei piccoli che sviluppano una resistenza al virus. Quindi, in questo suo ciclo selvatico, il virus passa da zecche a facoceri e viceversa, senza creare particolari problemi ai suoi ospiti.
Poi però sono arrivati altri ospiti a casa delle zecche portatrici dell’Asfivirus: i maiali domestici, per nulla resistenti alla malattia, al contrario dei facoceri. I maiali si commerciano, si scambiano, sia vivi che come carni, e il virus, lo abbiamo visto prima, è molto duraturo anche fuori dai suoi ospiti. E così ha rapidamente trovato un modo per vivere, infettare e moltiplicarsi saltando a piè pari le zecche, un ulteriore cambiamento del suo ciclo virale. I maiali sono molto sociali, vivono insieme negli allevamenti, e se non si contagiano tra loro viene trasportato dalle attività umane. Ed ecco che il virus si diffonde in Africa ben al di là della sua presenza naturale.
L’ulteriore passaggio è l’arrivo sul continente Eurasiatico, precisamente nel 2007 in Georgia, nel Caucaso. Da qui il fronte epidemico si diffonde velocemente a Russia, Bielorussia, Ucraina. Nel corso di tutti questi passaggi trova un altro ospite idoneo per la sua moltiplicazione: il cinghiale. Altra specie molto sociale, con individui che formano gruppi molto numerosi che interagiscono di continuo con contatti diretti, e presenti ad alta densità un po’ ovunque in Europa. Con l’infezione dei cinghiali, la gestione della malattia diventa ancora più complessa, perché travalica i confini, decisamente più facili da indagare e gestire, degli allevamenti, e arriva nei boschi, praterie e arbusteti, nei campi di mais con le pannocchie magari destinate agli allevamenti suini, sotto le suole di chi per vari motivi, lavoro, caccia o sport, calpesta i terreni naturali.
La diffusione del virus in Europa e nel mondo
Esistono 23 diversi genotipi dell’Asfivirus responsabile della peste suina africana. A onor del vero, questa non è la primissima volta che il virus in quanto tale approda in Italia: nel 1978, attraverso carni contaminate era arrivato in Sardegna il virus di genotipo I. Il virus è stato eradicato nel sud dell’isola, mentre è endemico altrove, favorito dalla presenza di maiali allo stato brado. Invece, il genotipo I non è molto contagioso per i cinghiali sardi, con una prevalenza del 10% e animali positivi solo in aree in cui si trovano allevamenti infetti. Una storia simile si è verificata nella penisola iberica. Diverso il discorso per il genotipo II, che è appunto arrivato nel Caucaso nel 2007, diffondendosi rapidamente grazie alla sua infettività nel cinghiale, presente ad alte densità nell’area, ma anche grazie a una gestione delle carcasse di maiale infette e a una gestione venatoria del cinghiale inadeguata per questo virus. Contrariamente al virus di genotipo I, la malattia è altamente contagiosa e letale per i cinghiali, e può causare un declino fino al 90% della popolazione.
Nel 2014 l’epidemia raggiunge la Lituania e la Bielorussia, e si diffonde in Estonia, Polonia e, nel 2020 in Germania, al confine polacco. Nel frattempo, nel 2017 la PSA si è diffusa in Repubblica Ceca e nel 2018 in Belgio, Slovacchia, Ungheria, Romania e Serbia. E purtroppo, a gennaio 2022 il nord dell’Italia si aggiunge a questa lista. La causa della dispersione su lunghe distanze è di natura umana, probabilmente attraverso il commercio di carni o carcasse contaminate. Il cinghiale è infatti una specie piuttosto sedentaria, anche se alcuni metodi di caccia possono provocare una maggiore mobilità, che non arriva mai alle centinaia di chilometri con cui si è spostato il virus. Anzi, migliaia, dato che la malattia è approdata anche in Asia, precisamente in Cina, Vietnam e Cambogia.
Per far fronte al diffondersi della peste suina, l’UE ha predisposto linee guida oltre a misure legislative, tra queste regolamento europeo 429/2016 sulle malattie animali trasmissibili e il 605/2021 che indica le misure speciali da adottare in caso di peste suina. Tra queste misure c’è la zonazione, cioè l’individuazione di zone soggette a restrizioni (tre livelli di restrizione) che regolamentano misure da adottare negli allevamenti e i commerci di prodotti suinicoli.
In Italia, la gestione della malattia è sotto la direzione del Ministero della Salute. Il regolamento stabilisce nel caso di ritrovamento di cinghiali positivi al virus, la segnalazione tempestiva al servizio Veterinario competente e l’attivazione da parte del Ministero della Salute di una Unità di Crisi nazionale, che fa affidamento su un gruppo di esperti in materia, oltre a trasmettere Comunicazione alla Comunità Europea e all’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale. Al momento, in Piemonte e Liguria è stata definita la zona infetta PSA, in cui si applicano i divieti approvati con ordinanza del Ministro della Salute, d’intesa con il MIPAAF. All’interno di questa zona sono infatti vietati la caccia, gli sport outdoor, la ricerca funghi e tutte le attività che potrebbero portare le persone a contatto con cinghiali infetti o con terreno contaminato. Queste limitazioni sono necessarie per cercare di arginare il contagio e delimitare la zona infetta, anche se le regioni limitrofe si stanno già attivando per attuare misure preventive, per esempio l’Emilia Romagna ha vietato la caccia al cinghiale nelle province di Piacenza e Parma, e ha avviato un protocollo per la ricerca attiva di eventuali carcasse di animali infetti nel territorio. In tutte le regioni è stato istituito un numero telefonico dedicato alle segnalazioni di carcasse o resti.
Un approccio One health per la gestione dell’epidemia
La peste suina africana ha quindi impatti sanitari, ecologici, socio-economici e di sicurezza alimentare. Come anche la pandemia di Covid ci ha mostrato, dietro la diffusione dei patogeni c’è la rottura di un equilibrio ecologico. I virus e i batteri fanno parte del nostro pianeta, ma la loro diffusione va al di là di quanto la natura consentirebbe loro a causa delle alterazioni degli ecosistemi, della presenza di allevamenti intensivi in luoghi prima naturali e della gestione del bestiame domestico, in alcune aree del mondo praticata in assenza di protocolli di biosicurezza adeguati, e a ciò si aggiunge un mondo sempre più globalizzato e dove gli spostamenti umani sono incredibilmente rapidi. La salute del pianeta è la nostra salute, ed è necessario rimuovere i confini tra le discipline e avere un approccio multidisciplinare alla gestione delle malattie, insomma un approccio One health, da tempo invocato ma ancora lungi da una sua vera attuazione.
FONTE: https://www.scienzainrete.it/articolo/ci-mancava-peste-suina-africana/laura-scillitani/2022-01-19
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