“Great resignation” non si traduce “Grande rassegnazione”
di La Fionda (Aristoteles)
Una volta mi venne il pensiero che se si volesse schiacciare del tutto un uomo, annientarlo, punirlo con il castigo più terribile, di modo che il più tremendo assassino rabbrividisse all’idea di un simile castigo e ne avesse paura fin da prima, allora basterebbe soltanto conferire al lavoro un carattere di autentica, totale inutilità ed assurdità.
Dostoevskij
Come molti sapranno, il principe Harry ha dichiarato di voler lasciare il lavoro per mettere al primo posto la felicità. Invece di sprecare i suoi anni migliori a inseguire il profitto, Harry – da qualche tempo CEO di una start-up dedicata al vivere in armonia con se stessi, BetterUp – sceglie una vita più umana.
“D’ora in avanti – commenta caustico Stefano Azzarà – si accontenterà dello stretto necessario, assecondando i ritmi del suo cuore: staccherà soltanto cedole e dividendi azionari, limitandosi per il resto ad attendere – sereno e in pace con la natura che ci è madre – il momento in cui incassare l’eredità meritata”.
Per quanto possa sembrare paradossale, la scelta del principino non è affatto controcorrente e si colloca all’interno di un fenomeno che interroga aziende e studiosi. Un fenomeno che ruota intorno al concetto stesso di lavoro, rappresentando un nucleo di riflessione non trascurabile per chi a sinistra ancora si affanna a ragionare su questo tema.
Che la pandemia potesse essere assieme un catalizzatore e un acceleratore delle trasformazioni sociali è un assunto che non ci sembra il caso di questionare. Il diffondersi del Covid-19 è un fenomeno troppo impattante, globale, totalizzante, gigantesco. Le conseguenze della gestione della pandemia lo sono ancora più dell’evento pandemico in sé e per sé.
In fondo, in che cosa consisteva la normalità pre-covid? Nel poter uscire di casa, andare a lavoro, ricevere uno stipendio che serviva ad acquistare merci e tener ben oliata e attiva la macchina del profitto: se consumi prodotti favorisci il lavoro, l’occupazione, e alla fine tutti staranno meglio perché avranno da lavorare e poi da consumare, un circolo virtuoso.
Pochi avevano una vita agiata. Alcuni una vita decente, molti una vita misera, caratterizzata dalle privazioni e dall’impossibilità di sentirsi realmente felici.
Il primo lockdown ha congelato la normalità delle nostre inerzie e dei nostri automatismi, e ci ha permesso di interrogare e mettere in discussione ciò che consideravamo ovvio, scuotendo alle fondamenta un mondo apparentemente inamovibile.
Secondo un curioso articolo del Corriere della sera, uscito pochi giorni dopo la dichiarazione di Harry e da cui intendiamo partire per sviluppare il nostro ragionamento, gli sconvolgimenti che la pandemia ha portato nel mondo del lavoro sono legati (anche) ad una nuova consapevolezza: «la gente per la prima volta non è potuta andare a lavorare e si è resa conto di quanto il mondo continuasse a girare senza la quantità di lavoro che faceva abitualmente»[1].
La domanda che ci ha smossi dalla nostra stipsi espressiva, è dunque la seguente: ma perché diavolo lavoriamo così tanto? In fin dei conti, perché lavoriamo?
Il senso di tutto questo lavoro.
Più che una consapevolezza piena, il “movimento” degli “Anti-work” segnala l’esistenza di risposte abbozzate, parziali, frammentate a interrogativi ancora del tutto aperti. Le domande da cui partono questa e altre similari “sacche di pensiero” sono in realtà due, intrecciate: quanto lavoro? Quale lavoro?
Il fenomeno, indubbiamente, esiste: lo dicono fatti e numeri. Non solo, contro-intuitivamente, moltissime persone hanno cambiato lavoro durante una crisi pandemica, ma una buona percentuale ha dato le dimissioni senza avere già in mano un impiego alternativo.
Lo hanno fatto per motivi di repulsione dalla loro attività corrente, in qualche misura. Difatti i “fattori tradizionali” di attrazione verso un posto di lavoro alternativo – aumenti di retribuzione, progressione di carriera, benefit, miglior bilanciamento tra vita privata e lavorativa – non valgono se questo posto non c’è o perlomeno non si ha ancora in mano una lettera di assunzione.
Uno studio recente di McKinsey, che ha avuto una certa risonanza, afferma che il 40% dei lavoratori a livello mondiale ha intenzione di cambiare lavoro entro 4-6 mesi, mentre il 53% dei datori di lavoro ha affermato di avere un turnover volontario maggiore rispetto agli anni precedenti e quasy due datori di lavoro su tre si aspettano che il problema continui nei prossimi sei mesi, oppure che peggiori.
Proprio questa indagine, che ha coinvolto circa 6mila persone in età lavorativa di Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti, ha registrato che il 36% di chi si è licenziato, quando lo ha fatto, non aveva ancora in mano un nuovo lavoro.
È proprio questo che caratterizza il nuovo fenomeno: diversamente dai precedenti cicli di regressione e ripresa, le persone sembrano propense a fare un salto nel buio, e sta evidenziando probabilmente uno scollamento tra dipendenti e imprese che si è acuito enormemente nel periodo dello smart-(remote)working pandemico.
Ci sono poi altre tendenze da prendere in considerazione, come afferma la società di consulenza, quale la Yolo Economy (You only live once), che sta portando i Millennials e la Generazione Z ad abbandonare il posto fisso per avviare nuove attività, in cui trovare una più adeguata soddisfazione personale rispetto alla loro esperienza come lavoratori dipendenti e subordinati.
È interessante, a proposito dello scollamento di cui dicevamo, notare che da questa analisi emerge una differenza marcata tra le motivazioni reali che spingono le persone a cambiare e quelle che pensano i loro datori di lavoro.
I primi tre fattori citati dai dipendenti sono il non sentirsi apprezzati – dalle loro organizzazioni (54%) o dai loro manager (52%) – e il non sentire un senso di appartenenza al lavoro (51%).
I datori di lavoro, piuttosto, ritengono che i dipendenti si stiano licenziando per la insoddisfacente retribuzione, lo scarso equilibrio tra lavoro e vita privata e la non attenzione alla salute fisica ed emotiva. Questi problemi sono sì stati indicati dai dipendenti, ma non con lo stesso peso a loro attribuito dai datori di lavoro.
Si noti come – pur se la motivazione specifica “Doing meaninful work” è apparentemente tra le cause meno importanti per cambiare lavoro rispetto a quelle prima elencate (ma è citata, comunque) – non si possa non notare che gran parte delle questioni attengono il senso delle relazioni che viviamo ed in qualche modo è evidente che il senso di appartenenza al lavoro (sense of belonging) sia strettamente correlato al senso di quello che si fa lavorando. Anche in Italia, in un contesto sociale e culturale profondamente differente, il fenomeno delle dimissioni volontarie ha un peso che non pare del tutto indifferente (circa il 20% delle cessazioni dei rapporti di lavoro nel primo semestre 2021).
L’approfondimento conseguente e necessario sarebbe indagare queste storie, non solo da un punto di vista quantitativo e non solo con lo sguardo di una società di consulenza in ambito di gestione delle risorse umane. Con quale motivazione hanno davvero sbattuto la porta del loro vecchio ufficio (che magari, nel frattempo, era diventato la loro sala da pranzo)? In nome di che sogno, progetto imprenditoriale, aspettativa? Cosa hanno fatto dopo le dimissioni, a tre mesi, sei mesi, un anno?
Soprattutto… Di cosa hanno vissuto o stanno vivendo? Di incentivi aziendali per ridurre la forza lavoro, in caso di ristrutturazioni aziendali? Di sussidi statali, nei paesi in cui ciò è previsto (ma per quanto e a quali condizioni, visto che non esiste un reddito universale di cittadinanza in nessun paese)? Di altre fonti di reddito (ma quali?) e così via.
La domanda è fondamentale, perché non siamo ancora riusciti a livello concettuale a slegare il reddito dal lavoro e per molti di noi questo è vero innanzitutto a livello pratico. Al giorno d’oggi, “la disoccupazione è solo per i ricchi” parafrasando uno dei motti del forum “Anti-work”, sorta di fucina di questo nuovo fenomeno. La nostra generazione piuttosto conosce la realtà dei working poors.
Pur senza indagare nel dettaglio tutti questi aspetti, dovremmo iniziare a fare qualche congettura e qualche ipotesi di riflessione, sulla base di un fenomeno che in realtà non è assolutamente del tutto sconosciuto, ma che somma criticità tanto dal punto di vista più classicamente “sindacale” quanto dal punto di vista delle relazioni[2].
Siamo fermamente convinti che le criticità “sociali” avvertite dai lavoratori non si esauriscano in una questione di comunicazione, modalità di gestione delle risorse umane, strutture organizzative. Se sono vere le ricerche a cui abbiamo fatto testé riferimento, un fattore che porta i dipendenti ad allontanarsi dalle loro realtà aziendali, dalle proprie mansioni, è rappresentato dalla mancanza di senso delle stesse – e questo aspetto ha un portato radicale e rivoluzionario, soprattutto dal punto di vista di un paradigma che potremmo definire di “antropologia filosofica”.
Delineare un’altra antropologia filosofica è il primo presupposto per fondare un’altra politica: mettere in discussione le nostre categorie (filosofiche, economico e politiche), per mostrare che non sono naturali, che sono storiche, che hanno delle ambiguità, e che queste ambiguità devono essere non solo mostrate, ma possono essere agite, è l’obiettivo che ci poniamo nella conclusione di questo breve articolo.
In virus veritas.
In un’opera con ampiezza d’analisi e limpidezza di visione, l’antropologo anarchico David Graeber ha definito la categoria dei bullshit-jobs (“lavori-stronzata”) come occupazioni così inutili, superflue o dannose che nemmeno chi le svolge riesca onestamente a giustificarne l’esistenza (seppure si senta obbligato a farlo). Attenzione, non parliamo di shitty-jobs (“lavori di merda”): i lavori-stronzata solitamente sono ben pagati ed offrono anche buone condizioni di lavoro, ma sono inutili (e quindi ampiamente frustranti); i “lavori di merda” sono “shitty” perché sottopagati e perché implicano difficili condizioni lavorative, ma normalmente hanno una grande utilità sociale (pensiamo, banalmente agli addetti alle pulizie).
Se vogliamo parlare di percezione sociale del fenomeno bullshit-jobs, le statistiche fornite dallo stesso autore documentano una diffusione preoccupante per chi sia minimamente interessato all’efficienza dei processi o al benessere dei membri di una comunità: tra i britannici solo il 50% dei partecipanti ad un sondaggio di YouGov riteneva che il proprio lavoro desse un contributo alla comunità nazionale, mentre in un sondaggio analogo il 40% dei lavoratori olandesi affermava che il proprio lavoro non meritava proprio di esistere.
A ciò vanno poi sommati i lavori parzialmente senza senso: gli impiegati delle aziende statunitensi lamentano di sprecare tempo con e-mail, riunioni anti-economiche, obblighi ammnistrativi per il 37% della giornata lavorativa, mentre le principali mansioni legate al proprio lavoro vengono svolte per il 39% del tempo.
I lavori senza senso sono stati riassunti da Graeber in cinque categorie (ci scusiamo per lo schematismo):
a) I tirapiedi (quali ad esempio gli addetti alla reception: Graeber spiega che i sottoposti sono utili per questioni di immagine o anche per sgravare i capi, svolgendo piccoli – o poco più che fittizi – compiti di routine);
b) Gli sgherri (come lobbisti, addetti alle pubbliche relazioni o al marketing: esistono concettualmente innanzitutto perché i competitor impiegano le stesse figure, in molti casi con finalità manipolatorie o aggressive);
c) I ricucitori (l’organizzazione assume determinate figure, invece di affrontare e risolvere i propri problemi, per dimostrare a sé stessa o ad altri che li sta gestendo, tramite alcuni ruoli di controllo, revisione, testing, eccetera);
d) I barracaselle (qui sta la gran parte dei certificatori dediti a qualità o compliance, che mirano a produrre documenti formali quali checklist, report, ecc. che non hanno la funzione di risolvere problemi, ma semplicemente di indagarli e documentarli, per infondere l’illusione del controllo);
e) I supervisori (lavori senza senso perché non svolgono dei compiti, bensì assegnano lavori ad altri e nel tempo restante verificano che questi li eseguano… talvolta assegnando quegli incarichi senza senso che rientrano nelle categorie precedenti).
Ciò che è da rimarcare è che questi lavori non sono definiti “senza senso” in base a qualche astratto principio etico (ad esempio sulle priorità che una società dovrebbe avere): il primo criterio per definire un lavoro senza senso è che la stessa persona che lo svolge lo avverte come tale. Non la società in sé, non una casta di prelati detentori della morale, non qualche avveduta avanguardia di illuminati: sono gli stessi lavoratori che avvertono come insoddisfacente quello che fanno, definendolo inutile o dannoso.
È sbagliato dire che l’infelicità di questi lavoratori deriva dal non fare niente: la maggior parte degli interessati lavora molto, ma soffre di un “trauma di mancata influenza” e manca loro la “soddisfazione di essere causa”; non avvertono nulla o quasi di quel che fanno come significativo (per loro stessi, per la comunità, per la società in generale, ma molto spesso nemmeno per l’azienda stessa) e rimandano alle ore libere le attività che più li appassionano o che ritengono utili.
Non è difficile trovare, nelle nostre piccole cerchie di conoscenti e familiari, più di un caso analogo (magari meno retribuito) a quello di Hannibal, citato da Graeber, che “scrive rapporti senza senso per agenzie di marketing guadagnando fino a 12mila sterline alla volta” e nel tempo libero “lavora su un algoritmo per la diagnostica a basso costo di pazienti tubercolotici nei paesi in via di sviluppo”: un problema sfidante, quest’ultimo, in cui è possibile collaborare con altri esperti per superare problemi complessi in nome di uno scopo nobile. L’esatta antitesi del lavoro senza senso. In sostanza, Hannibal è ben pagato da ricche aziende per un lavoro inutile e gonfia i loro conti “allo scopo di finanziare un progetto che di fatto salva vite umane”, ma che nessuno finanzierebbe.
Non tutto il lavoro produce valore (sociale) e non tutto il valore viene prodotto da lavoro retribuito. Quanti dei lavori menzionati sopra potrebbero sparire senza che nessuno si accorgesse di niente, qualvolta portando addirittura ad un miglioramento dell’efficienza e del benessere della società?
Sul motivo per cui ci siano così tanti lavori-stronzata o attività senza senso, la spiegazione di Graeber è piuttosto affrettata, appiattita alle radici anarchiche del suo pensiero, almeno per quello che traspare in alcuni passaggi del suo saggio, che banalizziamo (ma non troppo): i “lavori inutili” sarebbero sostanzialmente una palestra di disciplina sociale, per educare le persone alla subordinazione, un po’ come il servizio che prestavano i giovani presso le famiglie aristocratiche nei secoli scorsi. Ciò evidentemente pare del tutto da provare – e contrasta con l’esperienza diretta che molti di noi hanno potuto avere. Davvero gli attori economici – che avranno anche una razionalità limitata ed imperfetta, intrisa di altre dinamiche sociali ben più ampie del mero calcolo economico, e che tuttavia non si può negare ambiscano a essere attori razionali nel senso neoliberale del termine – pagano delle persone solo per educarle a rispettare le gerarchie?
L’esperienza suggerisce piuttosto di concentrarci su altri problemi, quali ad esempio la gestione della complessità e nella definizione delle priorità prima sociali e poi aziendali (che porta a scaricare questa complessità sugli strati subalterni ed intermedi dell’organizzazione), magari abbinate ad una ricerca costante di abbattimento dei costi; una raffinatezza degli apparati che viene dalle dimensioni delle aziende stesse e del mercato ormai globale (strutture di controllo e supervisione ridondanti o comunque sovraccarichi); insicurezze, paranoie e ripensamenti nell’adozione delle strategie, di fronte all’incertezza del mercato, della normativa, del contesto produttivo; la rincorsa di elementi generatori di sofisticazione e apparati parassitari, quali mode e indicatori – certificazioni, eccetera – ritenuti necessari per competere nel proprio settore.
Argomentazioni che traspaiono, frammentate, anche dal pensiero di Graeber, ma che non vengono sistematizzate ed indagate per definire meglio la relazione tra lavori senza senso e loro genesi. Viene difficile pensare, mentre le nostre giornate sono pervase fin nei più intimi pori da compiti di tutti i tipi (per la maggior parte inutili o svolti in maniera poco sensata), che tali attività vengano inventate per rispondere alla necessità della società di insegnarci che siamo nati per fare i “paggi” ed ubbidire al “signore”.
Capire la ragione di questa insensatezza indubbiamente aiuterebbe a costruire una corretta diagnosi: finora abbiamo descritto sommariamente segni e sintomi, ma non l’eziologia. Una volta resa possibile una diagnosi più robusta, dovremmo poter individuare più facilmente quale terapia prescrivere, per rimanere alla metafora medica. Purtroppo, la prematura scomparsa di Graeber gli impedirà di aggiungere tasselli ad una ricerca che comunque non può essere trascurata, se vogliamo intercettare disagi, ansie ed esigenze di trasformazione che sono presenti attorno a noi e rappresentano un’opportunità da cogliere.
Come evidenziava Thomas Kuhn, il riconoscimento di un’anomalia non è sufficiente, di per sé, a provocare una rivoluzione. Esso da perlopiù luogo a una situazione di crisi, nella quale la comunità cerca di negare o di ridimensionare l’anomalia stessa, sforzandosi di introdurre degli aggiustamenti nel paradigma in modo da renderne ragione. Quanto questo sia sterile è chiaro a chiunque sia cresciuto nel trentennio che Alain Badiou definisce giustamente “Seconda restaurazione”.
Non possiamo continuare ad accogliere la catastrofe come rumore di fondo. Non possiamo far finta di non vedere. Abbiamo bisogno di nuove osservazioni e analisi, di nuovi termini e di nuovi quadri concettuali utili a comprendere un contesto storico-politico che non ha precedenti.
Nonostante la sofferenza che ha prodotto nella carne viva di un corpo sociale già debilitato, il Covid può rivelarsi un’occasione da non perdere. Non permettiamo che la formazione sociale catastrofica che ci ha condotto alla catastrofe si riaffermi immutata. Sta a noi individuare i mezzi per sopravvivere alla loro catastrofe.
Perché, come scriveva un anonimo writer su un muro parigino, un’altra fine del mondo è ancora possibile.
[1] Come recita l’incipit dell’articolo: “Lo slogan con cui il forum [Anti-work] si presenta su Reddit è «Disoccupazione per tutti, non solo per i ricchi!». Ma è solo una provocazione. Il gruppo anti-lavoro, cresciuto sul social network americano fino a diventare una comunità di 1,4 milioni di persone dalle 150 mila dello scorso autunno, non è contro il lavoro, ma per un lavoro governato da regole diverse, che ci permettano di vivere meglio[…] È una nuova consapevolezza, sempre più diffusa, che contribuisce a spiegare, in parte, le motivazioni della Great Resignation, il fenomeno di dimissioni di massa spontanee che hanno colto di sorpresa non solo il mercato del lavoro americano, ma anche quello di casa nostra”.
[2] “Nel mirino degli anti-workers ci sono la stagnazione degli stipendi, le troppe ore di straordinario, la reperibilità continua. In generale, emerge la frustrazione delle persone con la struttura gerarchica al lavoro e del modo in cui sono trattate, spiega Rockcellist [uno dei moderatori del forum]” [G. Ferraino, Dalla Great Resignation agli anti-workers, cit.]
Fonte: https://www.lafionda.org/2022/03/04/great-resignation-non-si-traduce-grande-rassegnazione/
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