La crisi del sistema politico: parlamentarismo, ordoliberismo, tecnocrazia
di La Fionda (Federico Giusti)
La crisi del sistema politico non investe solo il parlamentarismo o la tenuta delle istituzioni sono piuttosto i rappresentati, le classi sociali meno abbienti i soggetti maggiormente colpiti dall’ordoliberismo e da una democrazia plasmata sui principi tecnocratici.
Capovolgere la narrazione mainstream sulla crisi della democrazia può essere uno slogan generico ma tutto dipende dagli argomenti trattati e dalla finalità della critica politica. Più di crisi della rappresentanza dovremmo parlare della crisi dei rappresentati con quella tecnocrazia ordo-capitalista che ha cancellato ogni riferimento a rappresentanza politica e interessi di classe, e nel nome della governabilità nel rispetto dei dettami di Maastricht i diritti sociali sono stati gettati nel dimenticatoio.
La crisi dei rappresentati e la fine del sogno riformista social democratico
La crisi della rappresentanza politica , un po’ come la crisi delle classi dirigenti, è stato il classico specchietto per le allodole al fine di indirizzare l’analisi del reale su un binario a fondo chiuso. Gli scenari attuali sono dominati dalla assenza di una prospettiva di cambiamento radicale della società e del modo di produzione ma la crisi investe da tempo non solo le ipotesi radicali e conflittuali ma anche le classiche social democrazie piombate, con l’avvento del neo liberismo e della tecnocrazia europea, in una sorta di riformismo senza riforme, di supina accettazione delle regole che hanno cancellato ogni forma di sovranità politica, monetaria ed economica. Non è casuale che l’approccio stesso alla Carta Costituzionale sia finalizzato a una sorta di conservatorismo degli equilibri esistenti dimenticando che una idea di democrazia progressiva necessita di pratiche conseguenti e di un rigore analitico che produca anche politiche conseguenti. Se si pensa di difendere la Costituzione pacifista e poi sostieni per 30 anni le guerre della Nato, se ci si nasconde dietro alla democrazia fondata sul lavoro quando il lavoro è stato svilito e precarizzato, sarà assai difficile scongiurare una revisione della Carta in senso neo presidenzialista.
La stragrande maggioranza del centro sinistra si è identificata da tempo con la salvaguardia delle politiche di “austerità temperata” sancite dalla crisi pandemica che ha contratto anche gli spazi residui di democrazia e libertà individuale e collettiva, accelerando i percorsi che portano ad una società controllata e pronta a reprimere ogni forma di dissenso individuale e collettivo. I parametri di Maastricht sono stati sospesi solo temporaneamente, sul PNRR in futuro dovremo avanzare qualche considerazione in più. Fermiamoci a questo punto e proviamo a entrare nel merito della crisi dei rappresentati.
Dove e quando nasce la crisi dei rappresentati
Il dogma della governabilità ha portato all’avvento del maggioritario ma prima ha cambiato drasticamente partiti e sindacati; l’avvento di essa risulta incomprensibile senza guardare alla svolta dell’euro e dell’Ue, alla politica dei sacrifici, all’accettazione della Nato e alla perdita progressiva di ogni indentità culturale fino al tramonto della sovranità monetaria, economica e politica occultata dietro alla acritica opposizione verso i cosiddetti populismi di destra.
Gli eredi della sinistra da tempo sono diventati alfieri della lotta al “sovranismo” confondendo abilmente il concetto di sovranità con esso, criticando quel confuso patrimonio ideologico populista delle destre che strizza l’occhio a scelte razziste e comunque funzionali alla tecnocrazia Ue. Nella opinione pubblica è radicata la convinzione che sia la destra a ostacolare le politiche di austerità imposte da Bruxelles; questo comune sentire anche nei ceti popolari è frutto della identificazione tra centro sinistra e parametri di Maastricht.
Le destre invocano la nazione mentre in Parlamento hanno favorito privatizzazioni e delocalizzazioni produttive, si dicono europeiste perchè sognano un esercito europeo pronto a scorrazzare in ogni parte del Globo a sostegno degli interessi forti delle multinazionali europee. Quante volte ci è stato detto che le riforme liberiste erano richieste dalla Ue? E’ diventato una sorta di mantra per impedire ogni forma di confronto reale sulle politiche economiche e sociali, siamo finiti nel vortice della riduzione delle tasse a favore solo dei capitali e delle classi abbienti quando si portava avanti lo smantellamento del welfare e la precarizzazione del lavoro. Se la sinistra riduce le aliquote fiscali per i redditi elevati, se ci si riduce al reddito di cittadinanza e si evita di parlare della perdita di potere d’acquisto dei salari italiani si finisce con il regalare alle destre argomenti dirimenti e anche di facile impatto mediatico.
Tutto partì dalla fine degli anni Settanta
Da tempo ragionare collettivamente sulla Ue è diventato una sorta di tabù , da qui risulta impossibile comprendere come si sia materializzata l’Europa di Maastricht lungo un percorso involutivo che ha ridotto i sindacati a stampelle dei governi tecnocratici. La supina accettazione delle regole che hanno sancito la libera circolazione dei capitali sono partiti proprio dalla delegittimazione di ogni intervento statale, ergo pubblico, nell’economia, dal ridimensionamento del potere di acquisto e di contrattazione salariale.
Un cammino lento ma inesorabile iniziato con la separazione della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro; correva l’anno 1981 quando l’allora ministro Andreatta (padre politico dell’attuale segretario Pd Enrico Letta) pose fine all’acquisto illimitato dei titoli di Stato da parte della nostra banca centrale.
Fino ad allora lo Stato poteva decideva la propria politica economica e la Banca d’Italia a seguire le indicazioni del Ministero del Tesoro , da qui l’obbligo di finanziare la spesa pubblica con l’acquisto dei titoli di Stato la cui libera emissione aveva permesso all’Italia ampi margini di spesa pubblica e l’ampliamento dei diritti sociali dei quali oggi non si parla, a beneficio solo di una sinistra attenta ai diritti civili o di genere.
Dal 1981 siamo passati, tra manovre finanziarie con tagli alla spesa pubblica e la egemonia del pensiero unico tecnocratico, al pareggio di bilancio in Costituzione, governi tecnici sono stati imposti dalle burocrazie europee che hanno costruito e decostruito come le costruzioni del Lego maggioranze Governative, di centro sinistra e centro destra che su innumerevoli materie si sono mosse all’unisono.
Basterebbe avere la pazienza di guardare ai voti a favore delle missioni di guerra o delle controriforme in materia di lavoro, pensioni e welfare per comprendere come alcuni obiettivi, al di là della strillata retorica a uso social, siano trasversali agli schieramenti che in teoria dovrebbero essere invece alternativi e tali si presentano all’opinione pubblica in vista delle elezioni. In realtà tanto il centro sinistra quanto il centro destra non assumeranno mai decisioni in aperto contrasto con la Ue , per non trovarsi nella situazione del 2011 quando Draghi e Trichet scrissero la famosa lettera al Governo italiano che spianò la strada prima all’arrivo di Monti alla presidenza del Consiglio e poi alla svolta a destra nel Pd con l’ascesa di Matteo Renzi. E da quella lettera scaturiscono l’innalzamento dell’età pensionabile il Jobs Act.
Urge prendere atto che a partire dalla fine degli anni ottanta, con la stagione di Mani Pulite che ha accelerato i processi decisi a tavolino a Bruxelles, sono tramontati non solo i partiti di massa ma sono venuti meno perfino i riferimenti ideologici tradizionali, la politica si è ridotta a teatrini mediatici che l’hanno portata alla progressiva e inesorabile crisi. Se fai politica sui social e non vai nei quartieri popolari vuol dire che alle classi meno abbienti hai poco o nulla da dire, anzi li escludi da ogni protagonismo nel portare avanti rivendicazioni tali da ampliare i diritti sociali. Se i partiti si sono ridotti a convitati di pietra di interessi forti dal canto loro i sindacati rappresentativi sono divenuti così moderati dal sottoscrivere ogni accordo con i Governi arrivando a sostenerli direttamente come avvenuto con l’esecutivo Draghi e dimenticando che i salari italiani negli ultimi 25 anni hanno perso potere di acquisto al contrario di tutti gli altri paesi Ue.
Non si tratta di rimpiangere i bei tempi che furono, perchè in fondo così belli non sono mai stati nè di riproporre un neokeynesismo acritico e fuori dal contesto storico, occorre invece comprendere una volta per tutte che l’avvento del maggioritario, la nascita della Ue e ancor prima la svolta dell’Eur (la linea dei sindacalti confederali del febbraio 1978 volta al contenimento salariale) e il compromesso storico sono figlie di una stagione controversa che ha visto la sconfitta dei movimenti massa e il venir meno dei legami tradizionali tra forze politiche e interessi materiali. E la crisi ha investito indistintamente i comunisti e i loro eredi quanto il cosiddetto centro moderato che per sopravvivere oggi cavalca le posizioni più retrive dei padroni.
Se vogliamo un esempio calzante di come la politica si sia involuta pensiamo alla lobby nuclearista che non ha bisogno di un partito di riferimento, sa bene di potere contare tanto sui centristi quando sulle destre e alla occorrenza anche su settori del centrosinistra che per “salvare il paese dalla crisi energetica” potrebbero operare scelte innaturali magari per coprire gli effetti nefasti delle sanzioni alla Russia. Siamo arrivati al punto che intellettuali di centro sinistra propongono di non fare la doccia quotidiana contro gli sprechi dell’acqua dimenticando che il problema è invece rappresentato da una rete idrica che per metà della sua estensione è ferma a 50\60 anni fa.
La sinistra tecnocratica e le rivoluzioni passive
Giulio Di Donato, in un bel libro pubblicato da pochi mesi (Pass costituzionale a cura di Geminello Preterossi), si sofferma sulle cause della crisi dei rappresentati e fa intendere che le rivoluzioni passive gramsciane (americanismo, fordismo e fascismo) potrebbero riprodursi oggi nel nome di tecnocrazia, transizioni digitale e transizione climatica per rinnovare le gerarchie ma al contempo conservando i rapporti sociali ed economici dominanti.
Non sarebbe la prima volta che il capitalismo interpreta emergenze reali non tanto per fornire risposte convincenti e durature a favore dell’interesse generale ma solo per scongiurare la sua crisi, è accaduto con la liquidazione del modello taylorista e l’avvento del toyotismo e anni dopo con gli algoritmi che fanno muovere i lavoratori alla stregua di robot. Ricordiamoci invece di come le fabbriche giapponesi sono state celebrate da molti sociologi di sinistra, si narrava la fine della catena tradizionale e l’automatizzazione era considerata una vantaggio innegabile per le classi lavoratrici che avrebbero visto diminuire la loro fatica fisica migliorando al contempo la qualità della vita e degli ambienti di lavoro. Ma lo sfruttamento è invece accresciuto e oggi ci sono gli algoritmi applicati nella logistica e non solo. E lo stesso ragionamento potrebbe investire la precarizzazione del lavoro tanto che dal centro sinistra è arrivata la spinta per favorire l’interinale e la moltiplicazione dei contratti a uso e consumo delle parti datoriali.
Se vogliamo uscire dall’impasse urge capovolgere la narrazione apologetica e acritica costruita per giustificare e magnificare i processi di ristrutturazione del Capitale.
Davanti ad una vera e propria Restaurazione Progressiva torna l’incubo del pilota automatico di cui parlò, un decennio fa, Mario Draghi all’indomani delle elezioni che seguirono il governo Monti, ossia un insieme di regole dettate dalla Ue che avrebbero spinto la tecnocrazia dominante a richiamare all’ordine ogni Governo che, a prescindere dal colore delle maggioranze, avesse smarrito la “retta via” dettata dall’ordoliberalismo.
La crisi endemica del capitale non è uno slogan né può essere una comoda narrazione per giustificare l’incomprensione della realtà, resta innegabile che l’assenza di una critica all’esistente produce anche la crisi della rappresentanza. E in questa situazione i soggetti più a rischio sono proprio le classi subalterne che oggi potrebbero votare il centro destra ed esultare davanti alla flat tax pur sapendo che questo sistema fiscale, tanto caro ai Chicago Boys, farebbe solo la fortuna dei grandi capitali. Dopo decenni di esaltazione della riduzione delle tasse non si comprende la finalità, e la pericolosità, della flat tax o della riduzione delle aliquote fiscali.
Ma allo stesso tempo se qualcuno pensasse di votare il centrosinistra si troverebbe insieme agli artefici delle politiche di austerità, della guerra che rivendicano il venir meno di ogni sovranità economica in nome dell’Europa dei capitali diventando fautori della Bussola europea.
Il dirigismo tecnocratico dall’alto, la Ue di Maastricht, il neo keynesismo di guerra con il quale il Vecchio Continente si incammina sulla stessa strada aperta dagli Usa, le rivoluzioni passive dei nostri giorni non troveranno alcun spazio nella campagna elettorale come del resto non troveranno spazio alcune semplici rivendicazioni quali aumenti salariali in linea con il reale costo della vita, automatismi sul modello della scala mobile, una critica dirompente ala tecnocrazia della Ue, la cancellazione del jobs act e della Fornero e il ritorno a una sovranità che, ripetiamo, non va confusa con il sovranismo delle destre.
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