Il merito è una fantasia
di DOPPIO ZERO (Marco Viscardi)
L’introduzione del ‘merito’ accanto all’istruzione nel nome di un ministero che da decenni ha perso quel bellissimo aggettivo che era pubblica è una cosa che mi spaventa perché la scuola democratica dovrebbe essere il contrario del merito. Merito è una parola bastarda: non ci si può fidare. Riferito alla scuola, fa pensare all’oleografia del libro Cuore, a Sardi, a Garrone. A masse di poverelli che, nelle soffitte, sporchi di polvere e calcina, alla fiochissima luce di fioche candele, passavano le sere su quaderni logori a riscrivere sempre le stesse lettere, a migliorarsi, a trovarsi un posto in società. A diventare qualcuno attraverso il merito.
Ma il libro Cuore, che a suo modo è un capolavoro, è il libro borghese per la nuova Italia: il grande dispositivo tranquillizzante che presenta ad un pubblico di maestri e impiegati, bottegai e professionisti, una nazione mite e unita dove l’armonia delle classi sociali rende impensabile il conflitto.
Fuori dalle pagine del libro Cuore quel merito non serviva a granché. Una pacca sulla spalla, una medaglietta di ferro, e tutto restava come prima, ce lo ha insegnato, fra gli altri, Umberto Eco nel suo Elogio di Franti.
Perché il merito nella vita reale non esiste: è una illusione ottica, e quando si considera vero quello che è un’ombra, quando si reifica una fantasia in una cosa, si rischia moltissimo, nella psiche individuale e nella vita collettiva della nazione.
Il merito è uno di quei fantasmi di cui ci fanno credere l’esistenza. Lo studente bravo, disciplinato, ostinato e attivo, partecipativo e civico, che con pazienza, metodo e dedizione raggiunge traguardi e merita dunque il premio che era follia sperar che ottiene menzioni, lodi, medaglie di Alfiere della Repubblica, inni e bandiere. Peccato che questa parabola crescente, trionfante regga solo sulla carta, nei romanzi, nelle storie rassicuranti dove si narra di quelli che ce l’hanno fatta, gli uomini fatti da soli. Ma nessuno si crea da solo. Tutti siamo come ci hanno plasmato le nostre relazioni, le nostre reti, i nostri rapporti. Messo accanto all’istruzione, il merito ci riporta a quel tempo in cui a scuola si usava, riferito ad esseri umani!, il verbo ‘distinguere’ preceduto dal pronome impersonale: ‘si distingue’, svetta, è riconoscibile in una massa grigia.
Il merito e la massa incolore sono il primo germe di una scuola che non include, non mette insieme. Ancora oggi, quando presentiamo le classi quinte all’Esame di Stato siamo abituati a dividerle in fasce di rendimento che, fatalmente, sono sempre tre: i bravi, i mezzi e gli scarsi. Ma in quale realtà umana non è così? In quale gruppo non ci stanno quelli che si impegnano, quelli che sono pigri ma capiscono le cose e quelli a cui è meglio non affidare compiti delicati se si vogliono evitare disastri? A volte nei colloqui coi genitori mi pare ci sia un senso di sollievo quando suona la frase ‘è intelligente ma non si applica’. Puoi fare tutti i giri che vuoi, prendere tutto il tempo ma a volte si aspetta solo che venga pronunciato quel giudizio.
Almeno così mi è capitato: intelligente ma non si applica. Perché in queste poche parole c’è forse un’idea della scuola che nella ritualità di quei colloqui deve emergere. I riti hanno le loro sequenze e le loro formule che sono invariabili, se si salta un passaggio si rischia il disastro! Ma questo è un problema enorme, proprio perché, come dicevo prima, stiamo mettendo da parte la multiforme realtà per una parola astratta, il merito, che, confesso, mi fa sempre pensare al Kaiser Guglielmo, alle medaglie date pour le Mérite, alla prima guerra mondiale e ai morti per la patria.
Messo così, acriticamente, accanto all’Istruzione nel nome del ministero che si occupa della formazione e dell’educazione, il merito non racconta altro che una prova muscolare, l’espressione di un nuovo mito dell’individuo e delle sue capacità. Il merito non serve se è la versione grottesca e aggiornata dell’umanista fabbro della propria fortuna. Perché il punto è sempre quello: viviamo nel caso, sottoposti ai rovesci della fortuna e nessuno sceglie dove e quando nascere. Allora, in questo caos, senza una serie di interventi, di progetti, di finanziamenti, il merito è possibile quasi esclusivamente – quasi – per chi nasce in famiglie e contesti che possono permettersi quel merito.
Famiglie che quel merito ce l’hanno già nelle mura di casa, dove ci sono libri, tempo, possibilità di viaggiare, conoscenza dell’italiano. Dove vivono persone stimolanti, con storie da raccontare. Senza un progetto a lungo termine, che nasca da una visione del mondo, il merito è di pertinenza delle ztl, vive nei centri storici e nei quartieri residenziali, è balsamico come l’aria mattutina di chi va a scuola camminando sotto i tigli e i platani ma non nelle strade rotte, respirando lo smog dei pulmanini convulsi.
Qualche giorno fa, Alberto Prunetti notava in una intervista come il modello della trasformazione e del successo, la parabola del bravo ragazzo di umili origini che ce la fa, sia un modello reazionario e conservatore. È una morale tranquillizzante, come ha detto a proposito Pasquale Palmieri, che serve a insabbiare come, nella vita reale, questi bravi ragazzi semplicemente non ce la fanno e restano tutta la vita nella loro stessa condizione. E non perché non meritino la felicità.
Il merito potrebbe avere valore quando tutti potessero accedervi. Ma il quel momento l’idea stessa di merito, per fortuna, sparirebbe. Sparirebbero quelli che si distinguono e quelli che si perdono, si farebbe semplicemente scuola e scuola finalmente liberata dalla competizione. Che sia competitivo il mondo fuori – e a mio parere non è che la competizione stia dando chissà quali risultati per il benessere della società – ma non la scuola.
La chimera del merito, coi suoi premi per i ‘bravi’, non fa altro che escludere gli altri, quelli appunto che non ce l’hanno fatta. Allora il contrario del merito non è il demerito, ma la rete – come ho già detto – il contrario del merito sono le relazioni, simmetriche e asimmetriche, che ogni esperienza di insegnamento e di apprendimento dovrebbe comportare. Il contrario del merito non è la sciatteria, ma l’inclusione, la prospettiva di una scuola radicalmente democratica dove Franti ha la stessa attenzione di Enrico Bottini, per tornare alla mitologia di De Amicis (e fra parentesi, forse i miei coetanei ricorderanno che nello sceneggiato Rai degli anni ottanta tratto da Cuore era Carlo Calenda – lui! – a interpretare uno snobbissimo Enrico, lui il nipote del regista Luigi Comencini… perfetta immagine di quanto il merito e la bravura siano essenziali per fare carriera in un paese che abborre le dinamiche del familismo immorale…).
La distruzione del merito porterebbe con sé anche la dissoluzione di quell’altro mito che è l’eccellenza. Le scuole di eccellenza finiranno per distruggere il sistema ordinario dell’istruzione senza peraltro garantire davvero una formazione più adeguata e approfondita, ma solo l’abitudine per chi le frequenta a ritmi e moli di lavoro impegnative in tempi rapidi e attitudini alla competizione che porteranno i nostri intellettuali e professionisti a una grande specializzazione nel loro campo e a una visione sempre più semplificata del loro lavoro.
Merito ed eccellenza rischiano di staccare intellettuali e professionisti da quello che un tempo si chiamava il tessuto vivo della società, crescendoli nell’ossessione della performance che si accontenta di sé e non si pone problemi.
Anche l’eccellenza, come il merito, acceca: crea una specie di recinto dove vanno gli aristocratici, i migliori, i bravi.
Che vuol dire essere bravo? Da qualche anno provo a fare un esperimento coi miei studenti: ho abolito tutto il lessico della bravura, se qualcuno dice qualcosa che ci aiuta a capire qualcosa o se voglio comunicargli la mia soddisfazione per il suo lavoro che ha svolto faccio sempre molta attenzione a non dire: che bravo! Perché dire a qualcuno che è bravo è fargli una violenza esattamente come dargli dell’asino o dello scemo. Chi sono io per dire che sei bravo? Che vuol dire esserlo? Dare del bravo a qualcuno è come doparlo, costringerlo ad una dipendenza. È un atto di potere nei suoi confronti perché lo metti, magari involontariamente, nella condizione di aspettare la tua prossima approvazione che è una approvazione a lui e non al suo lavoro.
A quello che è e non a quello che fa. Per questo da qualche anno, anche se a volte mi confondo e mi scappa un ‘bravo!”, provo a dire ‘è bella questa cosa’ o ‘mi convince quello che hai fatto o detto o scritto’, o magari ‘questo compito è una schifezza!’, ma non tu, non la tua persona che non ho diritto di giudicare, come non ho diritto di giudicarne nessuna, ma quello che mi proponi, il tuo lavoro che sta in mezzo a me e te e sul quale possiamo riflettere come tu puoi riflettere sulle mie lezioni, che magari ti angosciano o ti annoiano, ma senza esprimere un giudizio su di me.
Il merito è quello dell’individuo, giudica la persona, si nutre di mitologie rassicuranti dove l’eroe povero vince sempre purché abbia la volontà di farcela. Il merito è dopante perché non ci fa vedere che nel mondo delle cose e delle relazioni, la volontà non serve a nulla se non sei nel posto giusto, se nessuno ti sogna tu non esisti, per citare una frase famosa. E allora il tuo merito è comportarti come quei personaggi dei videogiochi che stanno contro la parete e continuano a muoversi come volessero attraversarla senza riconoscere che in quel punto manca una porta.
Il merito è solitario, mesto e persino un po’ sinistro. Soprattutto il merito giudica le persone come entità assolute, come se tutte le responsabilità delle loro esistenze ricadessero su di loro e basta e se non ci riesci sei un testone, basta un po’ di volontà, guarda il compagno com’è bravo. La scuola sempre più in crisi forse, nelle sue convulsioni violente anche se spesso invisibili, forse arriverà a non pensarsi più in termini di bravura e di successo, ma a lavorare su quello che gli studenti fanno e non su quello che sono o potrebbero essere. Possiamo diventare come degli artigiani che fanno coppe e sedie non perché sono importanti in sé, ma perché servono a bere e a sedersi. Il merito rischia di essere come una di quelle sedie antiche che si trovano nei musei: sono belle ma non servono a niente.
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