CNEL e salario minimo
DA LA FIONDA (di Federico Giusti ed Emiliano Gentili)
L’Assemblea del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) ha approvato un documento complesso che avvia la «fase istruttoria tecnica sul lavoro povero e il salario minimo», documento varato inizialmente con la sola astensione della UIL e il voto contrario della CGIL, poi con la contrarietà di entrambi. Originariamente CGIL e UIL avevano accordato il proprio assenso, salvo poi trovarsi in disaccordo con l’analisi finale. Questo induce ad alcune riflessioni sul ruolo stesso del CNEL e sullo strumento che rappresenta nelle mani del Governo: ergo, non basta dissociarsi dai contenuti senza rimettere in discussione ruolo e funzione del CNEL stesso. E in effetti è su richiesta del Governo che il CNEL aveva presentato, nel Luglio 2023, una memoria sul lavoro povero e il salario minimo (che allora venne approvata all’unanimità). Il mese successivo il Governo aveva allora chiesto anche un documento di sintesi per poter agevolmente disporre di un’analisi complessiva e di una proposta sul tema, da fornire entro 60 giorni. Il documento prodotto finora, dunque, è una scrittura istruttoria a cui seguirà una seconda parte, dedicata alle proposte, da consegnare ai Consiglieri entro il 6 ottobre. Il documento complessivo e finale sarà discusso in Assemblea CNEL nella seduta del 12 ottobre.
In questi mesi sul salario minimo si è scatenata una autentica bagarre, anche per via della nuova proposta del centro-sinistra, decisamente peggiorativa rispetto ai contenuti espressi dalla proposta di legge sulla quale era stata avviata una raccolta di firme (promossa da varie realtà, tra le quali USB). Tra le due opzioni non vi è solo la differenza sull’importo che dovrebbe costituire il salario minimo (quella di USB per capirci è di 10€/ora mentre il centro-sinistra si ferma a 9, sopra ma comunque vicino al costo orario di molti contratti già siglati dai cosiddetti sindacati rappresentativi): la versione del centro-sinistra non prospetta di legare il salario minimo all’inflazione, esponendo perciò il cosiddetto “lavoro povero” al rischio di diventare progressivamente più povero negli anni a seguire, per di più come conseguenza dell’applicazione di una riforma che, al contrario, dovrebbe tutelarlo (e questa sarebbe una posizione difficile da cui lanciare ulteriori rivendicazioni).
Sul fronte opposto, il CNEL si trova a dover contestare una sentenza della Corte di Cassazione[1] recentissima ma allo stesso tempo storica, che afferma come la contrattazione collettiva non possa (mai) considerarsi al di sopra dell’articolo 36 della Costituzione. Quest’ultimo indica chiaramente che la paga del dipendente debba essere «proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Nel caso specifico, dunque, era stato applicato il contratto nazionale dei servizi fiduciari ma il giudice ha ritenuto che ciò infrangesse i parametri dell’articolo costituzionale, in quanto il lavoratore (vigilante in un supermercato Carrefour) si trovava a percepire une retribuzione più bassa che in passato, a parità di mansioni e orario, perché ad ogni cambio appalto era stato fatto passare da un contratto nazionale all’altro, ritrovandosi via via con uno stipendio sempre più basso. Una sentenza, dunque, che in quanto promulgata dalla Corte di Cassazione potrebbe fare giurisprudenza per molti altri CCNL “da fame”. Purtroppo, per quanto sia palese che innumerevoli contratti siglati da CGIL, CISL e UIL siano in antitesi ai dettami costituzionali, resta il fatto che non li si potrà rimettere in discussione con gli attuali rapporti di forza esistenti nella società. Anche la stessa CGIL ne è, in un certo senso, vittima: dissente dalla sintesi del CNEL ma non può rinunciare a farne parte, pena il crollo dell’impalcatura sulla quale si sorregge il modello concertativo.
Ma l’urgenza di disinnescare questa Sentenza deriva anche dal fatto che essa rappresenta una minaccia alle regole, sottoscritte anche dalla CGIL, che sono alla base dei rinnovi contrattuali (ossia innanzitutto la triennalizzazione, il codice IPCA che esclude i prezzi energetici dai parametri utilizzati per calcolare l’adeguamento dei salari al costo della vita, la stessa nozione di povertà assoluta stabilita dall’ISTAT e l’indennità di vacanza contrattuale). Gli aumenti al di sotto del reale costo della vita, che spetterà al Giudice verificare, sono di fatto indirizzati al soddisfacimento di meri bisogni essenziali ma non permettono quella qualità dignitosa della vita di cui parla anche la Direttiva UE sui salari adeguati[2]. Questa non interviene sulle modalità che determinano il salario minimo, per legge o per contratto collettivo, né può stabilire un tetto minimo valido erga omnes: le Direttive fissano degli obiettivi che sta poi ai singoli Stati membri recepire. In tal maniera questi ultimi rimangono liberi di accogliere e far proprie le indicazioni adeguandole ai contesti locali e perciò anche la nozione di salario minimo, ripresa più volte nella Direttiva[3], muta sulla base delle condizioni economiche dei singoli Paesi: i singoli Paesi membri dovranno, sì, rivedere la normativa sul salario minimo ma lo potranno fare senza vincoli e precise indicazioni di carattere economico. Se così non fosse, la questione potrebbe diventare un fattore implosivo per l’UE, con Paesi in evidente crisi impossibilitati a garantire salari dignitosi.
Sul piano nazionale, comunque, se declinato in certe modalità il salario minimo potrebbe colpire duramente il sistema della rappresentatività su cui si basa il monopolio politico dei sindacati confederali. Del resto, se la contrattazione del minimo è una proposta storica della CGIL, oramai si è scoperto che in tal maniera si è irrimediabilmente innescata una pericolosa rincorsa al massimo ribasso, determinando retribuzioni da fame.
Ciò detto, proviamo a individuare sinteticamente alcuni punti sui quali agire con una valutazione analitica, proiettabile in prospettiva in una dimensione conflittuale e rivendicativa:
- la povertà non è data solo dalla miseria contrattuale e salariale e di questo è consapevole anche il Governo. Questo sta alimentando la politica dei bonus e sta lavorando ad una profonda revisione del welfare, ma con finalità ancorate al rafforzamento dell’austerità salariale e, in sostanza, alla salvaguardia dei profitti d’impresa e alla defiscalizzazione degli oneri contributivi (cosa su cui anche i sindacati rappresentativi concordano). Per rompere con questa impostazione è necessario (e doveroso) rimettere in discussione i sistemi di calcolo degli aumenti contrattuali, istituire una patrimoniale e definire le tasse con criteri progressivi. L’esatto contrario di quanto fanno e propongono, con posizioni diversificate, sindacato e Governo;
- il CNEL, in linea con il Governo, propone «una visione d’insieme di tutte le sue componenti [del lavoro povero] e comunque tale da legare il tema del salario minimo alla più generale questione salariale e al nodo della produttività». La Direttiva europea menzionata nel documento poche righe sopra aiuta a comprendere come tale «visione d’insieme» dovrà tenere conto delle specificità italiane e, quindi, provare a salvare il monopolio della contrattazione al ribasso oggi esistente. Ritagliare allo Stato il ruolo di finanziatore delle imprese; adottare misure temporanee, per la copertura delle quali sarà necessario tagliare qualche risorsa destinata al welfare tradizionale o magari deliberare misure ad hoc rivolte ad alcune fasce di reddito a discapito di altre (senza mai affermare il criterio della progressività del sistema di tassazione): questi, i capisaldi per “salvare capra e cavoli”;
- il dissenso della CGIL rispetto al documento potrebbe essere animato anche da motivazioni ben diverse da quelle evidenziate, come la platea assai ridotta dei contratti pirata che, pur essendo (secondo il CNEL) poco più di 350 in totale, interessando lo 0,4% della forza lavoro, hanno acquisito una centralità nella strategia rivendicativa del sindacato che lascia sorpresi;
- all’indomani del voto contrario al documento CNEL Landini ha dichiarato che «il governo ha fatto un errore nello scaricare [tutto] sul Cnel, che non può sostituirsi né al governo né alle parti sociali, il governo a un certo punto deve dire quello che vuole dare»[4]. Da qui la richiesta di una legge blindata sulla rappresentanza e la dichiarazione di essere a favore di un salario orario minimo sotto il quale nessun contratto deve andare. La strategia, insomma, rimane quella della concertazione a oltranza, sia pur rivendicando il riconoscimento istituzionale di un ruolo più importante per le organizzazioni sindacali “maggiormente rappresentative”.
A tal proposito, nel proprio documento il CNEL riporta alcune frasi eloquenti della Direttiva europea, come le seguenti: «il buon funzionamento della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari è uno strumento importante attraverso il quale garantire che i lavoratori siano tutelati da salari minimi adeguati che garantiscano quindi un tenore di vita dignitoso (…). Una contrattazione collettiva solida e ben funzionante, unita a un’elevata copertura dei contratti collettivi settoriali o intersettoriali, rafforza l’adeguatezza e la copertura dei salari minimi»[5]. Le differenze tra CNEL e CGIL, in fondo, non sono molte: la principale è legata al fatto che una legge sulla contrattazione per Landini deve essere fatta con la CGIL[6], secondo quel modello concertativo divenuto da anni la spina dorsale del maggiore sindacato italiano, che vede ogni critica all’attuale sistema di contrattazione come un tentativo di estrometterla dai processi decisionali. In sostanza siamo in presenza di approcci diversi dovuti a obiettivi politici differenti ma contingenti, tattici: per il Governo ridimensionare il ruolo dei sindacati rappresenta un obiettivo storico; per la CGIL, rompere con CISL e UIL determinerebbe la crisi di quel modello concertativo (alimentato da sanità e previdenza integrative, per non parlare di quegli organismi paritetici istituzioni-sindacati-imprese nei quali si consuma l’erosione dello stesso contratto nazionale a favore del secondo livello di contrattazione).
È quindi assai contraddittorio, per la CGIL, fare riferimento alla Direttiva (senza per altro rimettere in discussione il ruolo della stessa UE). Citiamo ancora il CNEL:
Nel caso della adozione di un salario minimo legale (e solo in questo caso) la direttiva impone agli Stati membri il ricorso a “valori di riferimento indicativi per orientare la loro valutazione dell’adeguatezza dei salari minimi legali. A tal fine, possono utilizzare valori di riferimento indicativi comunemente utilizzati a livello internazionale, quali il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio. Altri elementi valorizzati dalla direttiva, anche in termini di obbligo, per una effettiva garanzia di salari minimi adeguati riguardano:
– agli oneri posti a carico del sistema delle piccole e medie imprese: “nell’attuare la presente direttiva gli Stati membri dovrebbero evitare di imporre inutili vincoli amministrativi, finanziari e giuridici superflui, in particolare se ostacolano la creazione e lo sviluppo di micro, piccole e medie imprese.” (considerando 39 della direttiva);
– alla tutela dei lavoratori nel caso di appalti pubblici o contratti di concessione (art. 9), posto che la direttiva europea si applica non solo al settore privato ma anche al settore pubblico;
– alla presenza di affidabili sistemi di monitoraggio della contrattazione collettiva, degli andamenti dei salari e del tasso di copertura della contrattazione collettiva (art. 10);
– alla trasparenza dei salari sul presupposto che i lavoratori dovrebbero avere facile accesso a informazioni complete sui salari minimi legali e sulla tutela assicurata dal salario minimo prevista da contratti collettivi universalmente applicabili per garantire la trasparenza e la prevedibilità per quanto riguarda le loro condizioni di lavoro (considerando 34 e art. 11)».
Queste considerazioni, o meglio indicazioni, restituiscono al Governo ruoli e compiti che potrebbero scardinare il ruolo della concertazione e, vista la maggioranza di centro-destra, relegare in un angolo la CGIL.
È evidente come la proposta CNEL miri a riscrivere le regole della concertazione prevedendo uno stretto collegamento tra condizioni di lavoro, salari e produttività che è niente altro che l’essenza più profonda della funzione della contrattazione collettiva. Ma è proprio il legame tra salario e produttività a dover essere analizzato criticamente, se pensiamo che ogni incremento stipendiale nella contrattazione di secondo livello è legato all’aumento dei ritmi e dei tempi di lavoro e sancisce nei fatti un aumento dell’estorsione di plusvalore, accordando briciole ai salariati. Purtroppo di questo e di molto altro la CGIL non parla, perché dovrebbe rimettere in discussione decenni di politiche al ribasso che l’hanno vista o complice (con UIL e CISL) o protagonista assoluta. E nonostante il CNEL aggravi ulteriormente il carico, dichiarando che un eventuale salario minimo dovrà in qualche modo tenere conto di tutta la retribuzione complessiva, il che andrebbe a vanificare ogni ipotesi di reale aumento del potere di acquisto.
Entrando nel merito del concetto di “adeguatezza” in senso stretto dei trattamenti retributivi stabiliti dai contratti collettivi si è già detto della non uniformità di vedute tra i componenti della Commissione sulle voci retributive da prendere in considerazione per la definizione del minimo contrattuale. Questo anche in ragione del fatto che la struttura della retribuzione in Italia non è pensata in funzione di una tariffa oraria e che, diversamente che in molti altri Paesi, esistono voci retributive sui generis come la tredicesima, la quattordicesima, l’elemento di garanzia rispetto alla contrattazione decentrata di produttività. In merito ai rinnovi contrattuali, negli ultimi decenni le stesse parti sociali hanno avallato, specie in alcuni comparti, la concentrazione delle risorse concesse sempre più sulle nuove forme di distribuzione del valore economico (quali la valorizzazione della produttività, della flessibilità organizzativa, del welfare contrattuale e della bilateralità) e sempre meno sul minimo tabellare. Nel fare ciò hanno contraddetto alcune delle loro stesse rivendicazioni, come quella che la professionalità e le competenze vadano riconosciute al livello delle scale retributive. Il sistema di contrattazione collettiva italiano si muove dunque, nel complesso, in una direzione diversa da quella della tariffa oraria e del potenziamento minimo tabellare.
Difatti le conclusioni del CNEL sono tali da disinnescare ogni rivendicazione sul salario minimo… la soluzione sarebbe quella di accrescere le giornate lavorate in determinati comparti e settori, fra l’altro tirando strumentalmente in ballo la questione del lavoro nero: «Altro dato da tenere in considerazione, rispetto al problema del salario minimo e del lavoro povero, è quello delle giornate medie retribuite che, in Italia, sono 235 (ISTAT). (…) Una scarsa quantità di giornate di lavoro è uno degli elementi più rilevanti che concorrono a determinare il lavoro povero e si espone altresì a possibilità non quantificabili di lavoro nero».
In ultimo meritano attenzione le considerazioni finali del CNEL, che riportiamo integralmente:
Accanto a un generale problema di riallineamento tra perimetri contrattuali e trasformazioni del lavoro, in termini di aggiornamento dei codici ATECO e dei codici CNEL prima ancora che in termini di giurisdizione intersindacale che è questione delicatissima, resta infine da segnalare l’elevata incidenza sui trattamenti retributivi minimi di prassi fraudolente e abusive con connotazioni geografiche e settoriali e con penalizzazione delle componenti più vulnerabili della forza lavoro. L’assenza di efficaci controlli impone pertanto di porre particolare attenzione, quale che sia la fonte di fissazione del salario minimo (legge o contratto) al problema di adeguati meccanismi di enforcement della normativa vigente.
Altrettanto importante, per i componenti della Commissione, sarebbe poi una attività ricognitiva sistematica rispetto alle implicazioni pratiche dei meccanismi giuridici che sono da tempo utilizzati dalla nostra magistratura, con consolidata giurisprudenza, per conseguire l’obiettivo di garantire salari adeguati. Questo avviene, come noto, attraverso l’applicazione, in via parametrale e indicativa, dei trattamenti retributivi contenuti nei contratti collettivi di lavoro che così assumono, nei fatti e in assenza di una legge di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, efficacia generalizzata verso tutti i lavoratori. Vero è tuttavia che la magistratura non rinvia integralmente al contenuto economico del contratto collettivo ma solo alla cosiddetta “paga base“ (minimi tabellari, indennità di contingenza e tredicesima) con ciò riducendo, in termini anche significativi, i trattamenti retributivi per quei lavoratori a cui non si applica direttamente un contratto collettivo. Allo stesso modo pare attentamente da indagare il rapporto tra i dati raccolti da INPS,
attraverso le denunce dei mensili dei datori di lavoro in merito alle retribuzioni corrisposte ai dipendenti e tutte le altre informazioni necessarie per il calcolo dei contributi, e i trattamenti retributivi effettivamente corrisposti al singolo lavoratore in busta paga. È qui infatti che è possibile verificare concretamente il tasso di copertura della contrattazione collettiva qualificata, e cioè dei contratti collettivi sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi, che l’analisi dei flussi Uniemens colloca a livelli elevatissimi (pari al 97% della forza lavoro).
Per tutti questi motivi i componenti della Commissione dell’informazione sono concordi nel sottolineare, quale che sia la decisione politica in merito alla introduzione o meno nel nostro ordinamento giuridico di un salario minimo fissato per legge, l’urgenza e l’utilità di un piano di azione nazionale, nei termini fatti propri della direttiva europea in materia di salari adeguati, a sostegno di un ordinato e armonico sviluppo del sistema della contrattazione collettiva in termini di adeguamento strutturale di questa fondamentale istituzione di governo del mercato del lavoro alle trasformazioni della domanda e della offerta di lavoro e quale risposta sinergica, là dove condotta da attori qualificati e realmente rappresentativi degli interessi del mondo del lavoro, tanto alla questione salariale (per tutti i lavoratori italiani e non solo per i profili professionali collocati agli ultimi gradini della scala di classificazione economica e inquadramento giuridico del lavoro) quanto al nodo della produttività.
Il tema da discutere nella Assemblea straordinaria del CNEL del prossimo 12 ottobre, a parere della Commissione dell’informazione, non è dunque quanta parte della retribuzione debba mantenersi in capo alla contrattazione collettiva, bensì invece come estendere le migliori pratiche di contrattazione alla generalità del lavoro. In questo quadro rientrano a tutti gli effetti anche i provvedimenti, di competenza del CNEL, volti alla implementazione dell’archivio dei contratti, a partire dall’aggiornamento dell’attuale articolazione in macro aree e settori, la cui riconfigurazione dovrà essere parallela alla attività di revisione dei codici ATECO promossa da ISTAT e funzionale ai nuovi compiti richiesti da ANAC e CONSIP in materia di individuazione dei contratti collettivi di riferimento così come previsto dal Codice dei contratti.
Altrettanto importante, per la quantità di risorse pubbliche investite, è infine un attento monitoraggio della contrattazione di produttività di secondo livello e delle misure di sostegno al welfare aziendale di modo che i benefici della fiscalità generale vadano effettivamente a favore di quelle imprese che investono sulla qualità del lavoro e garantiscono trattamenti retributivi minimi e complessivi adeguati nel rispetto dei principi costituzionali (art. 36 Cost). A parere della Commissione passi avanti in questa direzione possono essere fatti se il sistema delle Comunicazioni Obbligatorie sarà allineato al codice CNEL-INPS ed esteso al repository della contrattazione decentrata.
[1] Sentenza n. 27711 della Corte Suprema di Cassazione.
[2] Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 (preceduta dall’atto COM(2020)68, proposta di Direttiva).
[3] Leggasi in particolare il “considerando 7”.
[4] Intervista a Maurizio Landini, l’Avvenire, 5 ottobre 2023.
[5] Considerando 22 della Direttiva.
[6] Come ha dichiarato Landini dal palco della manifestazione del 7 ottobre: «si lavori con la Cgil e non contro di noi!».
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