Netanyahu e il sogno (incubo) sionista
di GLI ASINI (Maurizio Braucci)
Jean Pierre Filiu, docente di Storia del Medioriente all’Istituto di studi politici di Parigi, ha pubblicato nel 2018 il libro dal titolo Main Basse sur Israël. Netanyahou et la fin du rêve sioniste (A mani basse su Israele. Netanyahu e la fine del sogno sionista, Éditions La Découverte), non ancora tradotto in italiano.
Lo storico francese è noto in Italia come co-autore – insieme a David B. – del saggio a fumetti Il mio migliore nemico (Rizzoli Lizard, 2012) ma ha prodotto almeno una dozzina di libri sul Medio Oriente e sulla sua relazione con gli Stati Uniti.
Questo è il suo primo lavoro su Israele, 223 pagine da leggere per capire le cause della situazione attuale in Palestina. Dopo i massacri del 7 ottobre e mentre nella Striscia di Gaza si perpetua una delle più grandi tragedie della storia contemporanea, la lettura di questo libro conferma che la visione del mondo presente ha bisogno di interpretazioni aggiornate.
Come racconta Filiu, «Il progetto di questo libro nasce il 20 ottobre 2015. Quel giorno, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu parlò davanti al Congresso sionista mondiale a Gerusalemme, alla vigilia di una visita ufficiale in Germania. Egli presentò in questi termini l’udienza concessa da Adolf Hitler, il 28 novembre 1941, a Hajj Amine al-Husseini, gran mufti di Gerusalemme, esiliato fuori dalla Palestina dal 1937: “Volò a Berlino. Hitler allora non voleva sterminare gli ebrei. E Hajj Amine al-Husseini andò da Hitler e disse: ‘Se li espelli, verranno tutti qui’. ‘Cosa dovrei fare con loro’, chiese. Lui rispose: ‘Bruciateli!’”.
Questa menzognera versione dei fatti venne subito confutata dentro e fuori Israele, e lo fece con arguzia anche Zehava Gal-On, presidente del partito di sinistra Meretz, quando dichiarò: “Forse i 33.771 ebrei assassinati a Babi Yar [nei pressi di Kiev] nel settembre 1941, due mesi prima che il mufti incontrasse Hitler, dovrebbero essere riesumati e informati che i nazisti non volevano distruggerli!”. Questa menzogna rinforza le convinzioni di chi ha sempre creduto che la violenza contro i Palestinesi avesse una motivazione etica.
Uno dei padri di questa visione è stato Zeev Jabotinsky (1880-1940), promotore del revisionismo sionista in contrasto con i gruppi sionisti di sinistra, al tempo maggioritari, e fondatore nella prima metà del ’900 del gruppo paramilitare Irgun, composto dai delusi dalla politica britannica verso le prime colonie ebree in Palestina e autore di attentati e stragi. Il padre di Benjamin Netanyahu, Benzion, era stato uno stretto collaboratore di Jabotinsky e nel 2006 suo figlio, divenuto Primo Ministro, ha commemorato con l’apposizione di una targa l’attentato di sessant’anni prima all’Hotel King David di Gerusalemme in cui morirono 91 persone, in maggioranza britannici e arabi, per mano dell’Irgun.
Notevole è la strategia di giustificazione di Netanyhau alle accuse di aver celebrato il terrorismo sionista proprio mentre scriveva libri e teneva conferenze contro il terrorismo internazionale. L’esplosione del 22 luglio 1946, che causò un’ondata repressiva britannica verso le colonie ebraiche e il ripudio della lotta armata da parte del sionismo di sinistra capeggiato da Ben Gurion, venne annunciata pochi minuti prima da una telefonata alla reception dell’hotel da parte dell’Irgun. Per questo Netanyahu ha dichiarato in un’intervista: «È essenziale non confondere i gruppi terroristici con i combattenti per la libertà, l’azione terroristica con l’azione militare legittima. […] Immaginate che Hamas o Hezbollah chiami il quartier generale di Tel Aviv e dica: “Abbiamo piazzato una bomba e vi chiediamo di evacuare la zona”».
Il fine di questa lotta sionista, teorizzata da Jabotinsky e trasmessa da Benzion Netanyahu a suo figlio Benjamin, è quello della creazione di uno stato “ebraico” su una o ambedue le sponde del fiume Giordano, ed è la linea politica guida del partito Likud dalla fine del secolo scorso.
Filiu non si limita a indagare le radici nel revisionismo sionista, ma mette in luce anche la strategia militare contro il terrorismo e le Jihad palestinesi adottata da Netanyahu. L’evento scatenante di questa strategia è il dirottamento di un aereo Air France in volo da Parigi a Tel-Aviv il 27 giugno del 1976 da parte di due terroristi della RAF tedesca e di altri due di un gruppo dissidente del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (l’OLP condannò subito l’azione), che presero in ostaggio quasi 150 persone. I dirottatori costrinsero i piloti ad atterrare ad Entebbe in Uganda e da qui chiesero la liberazione di 53 prigionieri politici, detenuti tra la Germania dell’Ovest e Israele.
Il Primo Ministro laburista Yitzhak Rabin affidò l’azione di intervento all’unità militare Sayeret Matkal, di cui aveva fatto parte fino a pochi anni prima Benjamin Netanyahu insieme ai suoi fratelli. Il commando che atterrò all’aeroporto ugandese era guidato dal fratello maggiore di Benjamin, Jonathan, il quale perse la vita nell’azione che portò alla liberazione di 102 ostaggi su 105 e all’uccisione di tutti i terroristi.
La morte del fratello segna profondamente il giovane Benjamin che, dopo aver creato una fondazione intitolata a Jonathan molto attiva nelle relazioni politiche con gli Stati Uniti, decise di entrare in politica nel 1988. Diventerà leader del Likud nel 1993.
Molto attento alla propaganda mediatica, Bibi Netanyahu dimostrerà da sempre massima intolleranza verso le azioni militari palestinesi, secondo la linea per cui bisogna “combattere il terrorismo come se non ci fossero negoziati, negoziando come se non ci fosse il terrorismo”. Giunto ai vertici del Likud mentre era Primo Ministro il laburista Yitzhak Rabin, impegnato negli accordi di pace di Oslo voluti dal Presidente Usa Clinton, Netanyahu si mette a capo di una crociata contro quello che ritiene un tradimento del sogno sionista: «La firma a Washington, il 28 settembre 1995, di un nuovo accordo tra Israele e l’OLP, denominato “Oslo 2”, infiammò ancora di più gli animi. La Cisgiordania, da cui Gerusalemme Est resta esclusa, è infatti divisa in aree di teorica esclusiva autorità palestinese (A), giurisdizione condivisa (B) ed esclusivo controllo israeliano (C). La Zona A rappresenta solo il 3% del territorio rispetto al 24% della Zona B, che lascia tre quarti della Cisgiordania, compresi tutti gli insediamenti, sotto l’occupazione israeliana. Ma Netanyahu sta conducendo una campagna virulenta contro le concessioni che ritiene colpevoli e sta costringendo Rabin ad accontentarsi di un voto di approvazione molto risicato alla Knesset, con 61 deputati contro 59. Il fatto che i parlamentari arabi in questa occasione abbiano salvato il governo laburista permette a Bibi di insistere ora sul fatto che non c’è mai stata una maggioranza ebraica e sionista ad approvare “Oslo 2”».
La campagna di Netanyahu contro gli accordi di Oslo firmati da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, è violenta e conta soprattutto sulla mobilitazione dei coloni più agguerriti: «Benyamin Ben-Eliezer, uno dei ministri più vicini a Rabin, fu violentemente aggredito non lontano dalla Knesset. Ben-Eliezer incontrò Netanyahu il giorno dopo per indurlo ad assumersi la responsabilità di questi eccessi: “Devi trattenere la tua gente altrimenti finirà con un omicidio”. Il leader del Likud, però, non dà seguito a questo avvertimento, mentre ascolta solo le richieste di moderazione trasmesse in via eccezionale dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano. Il 1° novembre 1995 Rabin denunciò in televisione la malafede di Netanyahu e ritenne inutile dialogare con lui in queste condizioni. Tre giorni dopo, il primo ministro israeliano fu assassinato a bruciapelo, all’uscita di una riunione pacifista, da Yigal Amir, un fanatico sostenitore di Eretz-Israel, che giustificò così il suo crimine: “Ho ucciso per salvare lo Stato di Israele. Chiunque mette in pericolo il popolo ebraico merita la morte”. Netanyahu ovviamente si unisce all’unanimità nazionale nel rendere omaggio al defunto leader. Ma la vedova di Rabin accettò solo con riluttanza le sue condoglianze e lo “rimproverò” pubblicamente di aver contribuito al “clima” detestabile che precedette, e senza dubbio incoraggiò, l’omicidio».
Nel 1996 Netanyahu viene eletto primo ministro, il più giovane della storia di Israele, e lo sarà per altri sei mandati fino ad oggi, stringendo coalizioni politiche con i leader dei partiti di estrema destra. Il più importante è Avigdor Lieberman di Israel Beytenou, più volte ministro nei governi di Netanyahu che rivendica di essere il vero erede di Jabotinsky.
Nel 2009 Nicolas Sarkozy chiede a Netanyahu di sbarazzarsi di questo ultranazionalista, autore tra l’altro di una legge per cui ogni non ebreo che voglia chiedere la cittadinanza deve giurare fedeltà allo stato israeliano in quanto stato ebraico. A questo si somma la vicinanza opportunistica del primo ministro agli ebrei ultraortodossi, che supporta con leggi e provvedimenti che prevaricano le altre correnti religiose ebraiche e ancor più i laici e le donne.
Nella sua lotta contro il terrorismo, Netanyahu provoca una grave crisi con re Hussein di Giordania: «Quando i commandi di Hamas colpirono Gerusalemme due volte nell’estate del 1997, il primo ministro israeliano aveva appena concluso le operazioni antiterrorismo e di eliminazione “mirata” in Cisgiordania e Gaza. Decise quindi di vendicarsi del massimo leader di Hamas allora in libertà, Khaled Mechaal, capo dell’Ufficio Politico (lo sceicco Ahmed Yassine, fondatore e leader supremo di Hamas, è imprigionato in Israele dal 1989). A Netanyahu non importa che Meshaal non abbia autorità diretta sulle brigate Qassam, il braccio armato di Hamas, responsabili degli attentati, né che sia cittadino giordano, residente ad Amman dal 1990. Il primo ministro israeliano pianifica con il boss del Mossad, Danny Yatom, l’assassinio di Mechaal, senza che lo stato maggiore ne fosse informato. Una squadra di otto spie israeliane si recò ad Amman nel settembre 1997 e due di loro, con passaporti canadesi falsi, riuscirono a inoculare a Mechaal un veleno ad azione lenta. Il piano era quello di consentire all’intera squadra di ritirarsi dalla Giordania prima della morte clinica del leader islamista. Ma due criminali del Mossad vengono intercettati dalla sicurezza giordana e le loro identità vengono rivelate. Solo due dei loro complici riescono a fuggire in Israele, mentre gli altri quattro agenti segreti trovano rifugio nella loro ambasciata ad Amman. Re Hussein, informato molto rapidamente, era tanto più furioso per questa violazione della sovranità della Giordania in quanto lui stesso aveva appena trasmesso a Israele un’offerta di tregua da parte di Hamas per un periodo di trent’anni».
La visione di Netanyahu per quanto riguarda i Palestinesi è molto chiara: nessuno stato per loro ma un regime di apartheid a livelli crescenti: «Netanyahu allarga le divisioni tra quattro categorie di civili palestinesi con diritti sempre più degradati, prima gli arabi di Israele, poi i residenti di Gerusalemme Est, poi gli abitanti della Cisgiordania e infine quelli di Gaza. La punizione collettiva così inflitta alla popolazione di questo territorio sovrappopolato innesca una mobilitazione culminata con l’invio, nel maggio 2010, di una “flottiglia di pace” a Gaza, carica di aiuti umanitari. L’esercito israeliano intercetta una nave turca in acque internazionali e uccide nove persone a bordo. Il primo ministro Erdogan accusa Israele di “terrorismo di Stato”, sospende la cooperazione militare ed espelle l’ambasciatore di stanza ad Ankara. La reazione internazionale è tale che Netanyahu decide di allentare il blocco di Gaza».
Il rapporto tra Netanyahu e gli Stati Uniti è un altro aspetto importante del libro. Filiu racconta come attraverso la lobby dell’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) le relazioni del politico israeliano siano più strette con i Repubblicani, mediocri col presidente Clinton e pessime con Obama, fino al punto di cercare in tutti i modi di boicottare l’accordo di quest’ultimo sul nucleare con l’Iran.
Dal canto loro, gli Usa decidono l’aumento dei fondi per l’aiuto militare verso Israele ma allo stesso tempo permettono nel 2016 di far passare una risoluzione dell’Onu che condanna la creazione di nuove colonie nei territori palestinesi. Con Donald Trump l’idillio è completo. A partire dal 2016 la Casa Bianca non è più mediatrice, ma schierata sul campo israeliano con Netanyahu. Il presidente palestinese Abbas interrompe le relazioni diplomatiche con gli USA dopo che Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e ha sanzionato l’UNRWA, l’agenzia che supporta umanitariamente il popolo palestinese.
Il proposito di Netanyahu è portare la maggioranza degli ebrei del pianeta a vivere in Israele. Attraverso la “legge del ritorno” è stata concessa la cittadinanza a discendenti di ebrei o congiunti di ebrei fino alla seconda generazione. Ma questa politica è zeppa di contraddizioni nei confronti dell’antisemitismo.
Una di quelle raccontate nel libro di Filiu riguarda il miliardario ebreo ungherese Soros che, con la sua Human Rights Watch, sostiene il popolo palestinese. Suo grande avversario è anche il primo ministro dell’Ungheria Orban. Scrive Filiu: «Il governo ungherese del molto populista Viktor Orban accusa Soros di sostenere i gruppi di opposizione (attraverso la sua fondazione Open Society), di promuovere l’immigrazione musulmana (favorendo l’accoglienza dei rifugiati mediorientali) e di minare la stabilità del paese (osando criticare Budapest all’estero). L’offensiva anti-Soros ha assunto connotati antisemiti e cospiratori nell’estate del 2017, con una campagna di manifesti governativi che proclamava “Non lasciare che Soros rida per ultimo”, sullo sfondo di una fotografia del miliardario che sorride. L’ambasciatore israeliano a Budapest, sostenuto dalla sua gerarchia, ha protestato contro una campagna che “non solo evoca tristi ricordi, ma semina odio e paura”. Ma Netanyahu, che è il ministro degli Esteri di se stesso, ha costretto il suo corpo diplomatico a sconfessare e questa volta ad accusare Soros di “minare i governi israeliani democraticamente eletti finanziando organizzazioni che diffamano lo Stato ebraico”».
L’ultimo capitolo è dedicato ai dossier giudiziari contro Netanyahu. Mentre il laburista Rabin si era dimesso da capo di governo nel 1977 solo perché si era scoperto che sua moglie aveva un conto bancario negli Stati Uniti, il leader del Likud naviga da anni tra continue inchieste giudiziarie.
Si tratta di accuse di concussione, corruzione, frode e abuso d’ufficio che potrebbero costargli fino a 10 anni di carcere. A gennaio 2023, il governo israeliano ha avviato una radicale riforma giudiziaria che favorisce il potere politico nelle questioni spettanti oggi alla magistratura e che, tra l’altro, influirebbe sui processi a carico del leader Likud. Le proteste di piazza contro questo piano di riforme sono state le più grandi agitazioni di base nella storia del Paese. I fatti del 7 ottobre e il conseguente attacco a Gaza hanno distratto l’attenzione mediatica dalle tensioni interne.
Nell’epilogo del libro, Filiu scrive «Giunti alla fine di questo libro, non si può fare a meno di rimanere turbati dalla combinazione di perversità e mediocrità che caratterizza il personaggio principale, Benjamin Netanyahu. Che un popolo pieno di intelligenza, talento ed energia come il popolo di Israele si sia arreso e si arrenda ancora a un tale ciarlatano è profondamente inquietante. Certamente, l’America di Trump ci ricorda che le grandi democrazie possono andare alla deriva sotto l’influenza di un demagogo. Ma è in Medio Oriente che Netanyahu fomenta odio e paura, che se ne nutre e a sua volta li nutre».
FONTE:https://gliasinirivista.org/netanyahu-e-il-sogno-incubo-sionista/
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