L’ISTAT distrugge la Meloni: perché il record dell’occupazione è una cagata pazzesca
di OTTOLINATV (Giuliano Marrucci)
Ottoliner, fermi tutti che qui c’abbiamo lo scooppone eh? Incredibile ma vero, l’ultimo rapporto ISTAT sulla produzione industriale italiana è letteralmente roba da strapparsi i capelli: a ottobre 2024, infatti, l’Italia avrebbe registrato un bel 3,6% in meno rispetto all’anno precedente che, a sua volta, aveva registrato un bel -1,1 rispetto all’anno ancora precedente che, ancora a sua volta (indovinate un po’), aveva registrato un bel -1,6% rispetto all’anno ancora precedente. Strano. Appena una settimana fa, infatti, il sempre puntualissimo Ufficio Studi della CGIA di Mestre aveva pubblicato il suo ormai celebre rapporto sull’occupazione in Italia e, a prima vista, i risultati sembravano decisamente incoraggianti: Più 847 mila occupati tra i dipendenti titolava il comunicato stampa; Boom di occupati al sud. Giorgia meloni spiana i gufi esultava Libero; Opposizioni ammutolite: “Se si torna ad assumere significa che l’economia sta ripartendo” è il commento della sorella d’Italia Maria Immacolata (detta Imma) Vietri, un commento che potremmo prendere come paradigmatico soprattutto per il pulpito dal quale proviene. L’onorevole Vietri, infatti, viene spesso presentata come la classica rappresentante del mondo del fare che poi decide di dedicarsi alla politica per sciogliere i nodi coi quali la burocrazia di Roma e di Bruxelles prova a ostacolare la gente che vorrebbe solo rimboccarsi le maniche, a partire dal Mezzogiorno: Imma la salernitana, infatti, stando al suo curriculum disponibile sul sito del Ministero degli Interni, ha un passato da imprenditrice (o, almeno, da quello che la retorica reazionaria della gente che si fa da sola, oggi tanto di moda, spaccia come attività imprenditoriale); dal 1995 al 1998, si legge, è stata titolare della ditta Conti Pelle, impresa individuale specializzata in confezioni e vendita al dettaglio e all’ingrosso di articoli di vestiario in pelle ed accessori. Vent’anni dopo, poi, avrebbe dato vita ad un’altra impresa individuale dal nome Vietri Intermediazioni Assicurative; insomma: vendeva assicurazioni, anche se per poco (appena due anni), dopodiché si sarebbe data alla consulenza per attività istituzionale da libera professionista. Dal 2009 al 2014, inoltre, avrebbe fatto da consulente a varie società e istituzioni in materia di turismo; ma perché ci siamo soffermati a raccontare così nel dettaglio il curriculum della povera Imma? Molto semplicemente perché è paradigmatico del punto di vista adottato da questo governo quando si parla di economia, soprattutto al Sud: una nazione fondata sui lavoretti, come un Paese del Sud globale qualsiasi.
E’ così che si spiega questa apparente anomalia di un Paese che mentre vede aumentare gli occupati oltre le aspettative, rimuove ogni prospettiva di crescita; che è esattamente quello che ha certificato (per l’ennesima volta) di nuovo sempre l’ISTAT pochi giorni prima l’uscita delle buone notizie della CGIA, quando ha letteralmente dimezzato in un colpo solo le stime sulla crescita del PIL per il 2024: dall’1 allo 0,5%. Come sottolineano Alessandro Bellocchi e Giuseppe Travaglini dell’università di Urbino sul sito di Sbilanciamoci, il PIL che cala mentre l’occupazione cresce altro non è che “il segnale dell’avvenuta transizione da un’economia deindustrializzata a un’economia basata sui servizi poveri come il food delivery o l’over-tourism che devasta le città”. Lo conferma anche l’osservatorio INPS: “L’occupazione è cresciuta nei settori a bassa produttività e a basso salario dove è più intenso lo sfruttamento del lavoro povero”, mentre l’Italia che produce davvero valore aggiunto, quella che investe, che innova e che crea occupazione stabile e di qualità, arranca come non mai. Se può aiutarvi a tenere un po’ su il morale, non è certo un problema solo nostro, anzi! Il vanto della propaganda filo-governativa è proprio quello: ma cosa c’avete mai da lamentarvi che, per la prima volta in oltre 30 anni, Germania e Francia se la passano decisamente peggio? Tant’è che ormai la Meloni viene riconosciuta universalmente come l’unica politica europea a non essere sull’orlo del disastro: nella classifica dei 28 leader politici europei più influenti redatta un paio di giorni fa da Politico, Giorgia si è aggiudicata in scioltezza il gradino più alto del podio. La propaganda filo-governativa, ovviamente, s’è subito esaltata: Riconoscimento alla Meloni titolava ieri Il Giornanale; è la più potente d’Europa. La donna più potente d’Europa rilanciava entusiasta Libero; forse gli conveniva prima leggere l’articolo.
L’articolo di Politico – che è una testata totalmente allineata al vecchio establishment liberale – è infatti la riproposizione su scala europea della vecchia retorica anti-berlusconiana che ha definitivamente distrutto quel che rimaneva della sinistra socialdemocratica in Italia, un lungo piagnisteo su tutte le misure antidemocratiche portate avanti da questo governo, anche se in realtà sono in perfetta continuità con tutte le misure antidemocratiche portate avanti da tutti i governi di tutto l’Occidente collettivo negli ultimi 30 anni, a partire da quelli che Politico ha sempre sostenuto senza se e senza ma in quanto paladini della democrazia contro l’ascesa dei nuovi regimi totalitari. Al netto dell’ingiustificata puzza sotto al naso dei soliti frignoni analfoliberali, però, la cosa importante è che comunque questo riconoscimento è arrivato, anche se in chiave negativa; ma come ha fatto la Giorgia nazionale a scalare così rapidamente la classifica? Nell’ambito del sistema imperiale nell’era della grande guerra contro la transizione a un nuovo ordine multipolare, la Meloni ha innegabilmente il merito di aver contribuito senza se e senza ma all’unica vittoria che Washington ha portato a casa dalla guerra per procura contro la Russia in Ucraina e, cioè, la definitiva distruzione dell’economia europea; questo merito, però, Giorgia lo dovrebbe condividere con tutti gli altri capi di governo del vecchio continente, a partire – in particolare – da quelli del vecchio asse che fino a ieri rappresentava il cuore del progetto europeo: Scholz e Macron che però, giustamente, nella classifica non compaiono (e ci mancherebbe altro). I due leader francese e tedesco, infatti, la totale sottomissione a Washington la stanno pagando con la fine non proprio onorevole delle rispettive carriere politiche, ma Giorgia no, anzi: gode di un consenso che tutti i leader politici italiani degli ultimi 30 anni, dopo oltre 2 anni di governo, si sognano; eppure il collasso del tessuto produttivo italiano è sotto gli occhi di tutti e, come ampiamente prevedibile e previsto, va ben oltre il dato del -3,6% di produzione industriale rilevato dall’ISTAT. Diciamo che quello è l’antipasto; a limitare i danni, infatti, ci sono un paio di voci che difficilmente potranno tenere botta nei prossimi mesi: i beni di consumo e la produzione e distribuzione di energia elettrica che, in controtendenza con tutto il resto, sono diminuiti entrambi solo dello 0,8%.
Il fatto è che per continuare a produrre beni di consumo c’è bisogno di qualcuno che li consumi (come anche per continuare a produrre e distribuire energia), due condizioni che pare piuttosto difficile si presentino nel prossimo futuro: come rivela sempre il rapporto ISTAT, infatti, le altre due macro-famiglie della produzione industriale che hanno il compito ingrato di tirarsi tutto il resto dietro (e, cioè, la produzione di beni strumentali e di beni intermedi) sono crollate ben oltre quel 3,6 per cento.
I beni intermedi – e, cioè, tutti quei prodotti che non sono destinati al consumo diretto, ma diventano parte integrante di un prodotto finito e che da soli pesano per poco meno di un terzo dell’intera produzione industriale italiana – continuano ad essere il grande malato e arrivano a perdere un devastante 5,2%: parliamo, per fare qualche esempio, di beni come acciaio, prodotti chimici e componentistica meccanica, prodotti che, ovviamente, in buona parte vendevamo in Germania o in altri Paesi che fanno parte delle filiere produttive che hanno al centro la Germania (almeno fino a quando l’economia tedesca ancora teneva botta); un’altra parte consistente, per quanto non comparabile in dimensioni, la esportavamo pure in Francia che però, nelle ultime settimane, è diventata il nuovo grande malato dell’economia europea. E, infine, un altro mercato che importa una buona quantità di prodotti intermedi italiani sono gli USA che però, nonostante le moine che la Giorgia nazionale ostenta per ingraziarsi Trump e Musk, ha annunciato dazi e tariffe che rischiano di colpirci in modo drammatico due volte perché andrebbero a colpire in modo diretto le nostre esportazioni verso gli USA, ma – cosa ancora più grave – andrebbero a colpire in modo ancora più drammatico tutto il gigantesco polo industriale che ruota attorno alla Germania e del quale siamo parte integrante. Per tutte queste ragioni, il crollo di 5 punti nella produzione di beni intermedi è destinato inesorabilmente ad aggravarsi, come dimostrano in modo drammatico i dati sull’indice PMI dell’Italia di novembre; un altro bagno di sangue e, anche a questo giro, decisamente più feroce del previsto: l’indice PMI composito (che tiene insieme manifatturiero e servizi), a ottobre, infatti, aveva registrato un incoraggiante 52,4, 2,4 punti oltre la soglia dei 50 punti che determina se un’economia è in espansione o in contrazione. Ovviamente, come i dati sull’occupazione, il governo l’aveva sbandierata come l’ennesima clamorosa smentita delle gufate dei disfattisti e delle zecche rosse; da vere zecche rosse, però, avevamo già avvisato che in realtà c’era ben poco da esultare: a tenere in piedi l’indice, infatti, erano i servizi, mentre il manifatturiero era crollato ulteriormente a quota 46,9 (che significa, appunto, piena contrazione). Come avevamo sottolineato allora, con una contrazione industriale del genere il crollo anche dell’indice relativo ai servizi sarebbe stato solo questione di tempo; diciamo che è arrivato anche un po’ prima del previsto e con più violenza. Il consenso, infatti, aveva puntato a un calo contenuto, verso quota 51,1; il dato reale è stato quasi due punti sotto, a 49,2. L’indice manifatturiero, nel frattempo, dai 46,9 di ottobre è crollato di altri 2,4 punti a quota 44,5 e non c’è nessuna luce in vista in fondo al tunnel, anzi: l’indice specifico degli ordini, infatti, è crollato addirittura di altri 3,2 punti, da un già pessimo 45,1 a un catastrofico 41,9.
“Gli ordini stanno letteralmente crollando” ha commentato Jonas Feldhusen, uno degli economisti della Hamburg Commercial Bank che hanno curato il rapporto: “La situazione è grave” ha dichiarato: “Il settore manifatturiero italiano sta precipitando”. Dall’osservatorio privilegiato di Feldhusen, infatti, si percepisce con chiarezza anche un altro fenomeno che per ora nei dati sulla produzione industriale era rimasto un po’ sotto il tappeto: un altro terzo scarso della produzione industriale, infatti, riguarda quelli che vengono definiti beni strumentali e, cioè, le macchine che servono per produrre altre cose, che sono il vero fiore all’occhiello di un sistema produttivo avanzato e dove l’Italia, nonostante il declino generalizzato, ha continuato a dire la sua; al netto di tutto, infatti, l’Italia continua ad avere un tessuto di piccole medie aziende specializzate proprio nella produzione di beni strumentali che si sono ricavate un ruolo di leadership assoluta a livello globale. Aziende come l’IMA Group di Ozzano nell’Emilia, la Coesia di Bologna o il Gruppo Marchesini di Pianoro, ad esempio, sono i leader indiscussi a livello globale di tutti i macchinari per il packaging: parliamo di macchinari ultra-sofisticati che raggiungono spesso il costo anche di svariati milioni per singolo esemplare e che esportiamo letteralmente in ogni angolo del pianeta, con l’export che pesa spesso per oltre il 90% del fatturato complessivo e, in buona parte, è un export che va ben oltre i confini del vecchio continente; ancora fino all’ottobre 2023, mentre tutto attorno i segnali del declino erano già più che evidenti e la produzione dei beni intermedi, ad esempio, registrava già una flessione di 5 punti percentuali rispetto all’anno precedente, questa particolare e vitale parte del nostro sistema produttivo continuava a tenere botta registrando, comunque, una crescita di un punto percentuale abbondante rispetto all’anno precedente. Diciamo che era un po’ l’ultima, fondamentale àncora alla quale abbarbicarsi prima di dichiarare ufficialmente bancarotta; purtroppo, come certifica l’ISTAT, non più: anche per la produzione di beni strumentali, infatti, a ottobre 2024 si registra un crollo di 4,4 punti. La Breton di Castello di Godego, in provincia di Treviso (giusto per fare un esempio), è tra i leader globali del settore delle macchine per la lavorazione di pietre naturali e materiali compositi: produce veri e propri gioielli come la celebre Breton Genya, una sofisticatissima fresa per la lavorazione del marmo da svariate centinaia di migliaia di euro al pezzo che esporta in oltre 100 Paesi in tutto il mondo, ma contro i 220 milioni di fatturato del 2023, per il 2024 prevede di non andare oltre i 175 milioni. Ed è solo l’inizio: nel primo semestre del 2024 ha registrato un calo degli ordinativi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente addirittura del 50%. Risultato: ha annunciato un taglio di oltre 200 posti sui 900 complessivi.
Nei giorni scorsi ha fatto notizia il caso della provincia di Reggio Emilia: fiore all’occhiello della produzione di beni strumentali, secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore lo scorso 2 dicembre, sarebbe una delle province che ha registrato un aumento delle ore di cassa integrazione ordinaria autorizzate tra i più imponenti della penisola, addirittura + 142%. Quanto fan male le guerre titolava l’agosto scorso l’edizione locale del Resto del Carlino: “Nel secondo trimestre 2024” si legge nell’articolo “i livelli produttivi sono scesi del 9,2%, rispetto allo stesso periodo nel 2023, e il fatturato è calato del 12,1%” e “a giugno il 65,9% delle imprese associate a Unindustria ha segnalato una riduzione degli ordinativi totali”. Di fronte a risultati del genere, qualsiasi capo di governo (giustamente) dovrebbe essere messo alla gogna; nell’Italia che, come ha certificato un recente rapporto dell’OCSE, risulta essere leader indiscussa tra i Paesi sviluppati in termini di analfabetismo funzionale, invece, non ostacola neanche un po’ un livello di popolarità e una stabilità politica che gli altri leader del vecchio continente si sognano e che più ti prostri ai piedi dell’inquilino di turno alla Casa Bianca e, paradossalmente, più aumenta. Sembra la paradossale eredità culturale che ci portiamo dietro dai tempi del mascellone, che oggi torna a riscuotere interesse e ammirazione: una perversa tentazione a sottomettersi senza condizioni al peggio criminale in circolazione, aiutandolo attivamente a distruggere quel che rimane a livello di struttura produttiva che potrebbe garantirci quel minimo di indipendenza economica, per trasformare definitivamente l’Italia in una repubblica fondata sui lavoretti stagionali sottopagati, portaerei di lusso nel Mediterraneo per le nuove avventure belliciste dell’impero in declino. Contro questa deriva serve un nuovo comitato di liberazione nazionale in grado di cacciare l’invasore e i suoi amministratori coloniali e riportare l’Italia che investe, innova e produce, ad affacciarsi con determinazione e ottimismo sul mondo nuovo che avanza; per farlo, abbiamo bisogno prima di tutto di un vero e proprio media indipendente, ma di parte, che invece di dar voce alle opposte propagande di svendipatria analfoliberali e analfosovranisti, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Adolfo Urso
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