di TERMOMETROGEOPOLITICO (Enrico Tomaselli)
Si sente spesso parlare di un ridisegno del Medio Oriente, attribuendone l’intenzione (e l’obiettivo) principalmente ad Israele, ma – inutile dirlo – si tratta ancora una volta della narrazione occidentale, che mistifica la realtà e ne fornisce una rappresentazione funzionale ai propri interessi.
In realtà questa rappresentazione cerca di propagandare sostanzialmente l’idea di un Medio Oriente in cui l’azione israeliana (e quindi, in ultima analisi, americana) intenda rivoluzionare una regione caratterizzata dal conservatorismo politico-culturale arabo, ridisegnandone non soltanto gli equilibri politici ma, laddove opportuno, anche i vecchi confini nazionali. In buona sostanza, cioè, se l’attuale Medio Oriente fu disegnato dalle potenze coloniali europee, in funzione delle proprie ambizioni di dominio, sarebbero ormai maturi i tempi per una sua ridefinizione completa, dalle fondamenta potremmo dire, in funzione del dominio statunitense – e di cui lo stato coloniale sionista, con le sue leadership messianiche, sarebbe l’agente. Insomma un processo unidirezionale.
Ma la realtà è ben diversa da questa narrazione semplicistica e riduttiva, e la verità è che sono in atto due diverse e contrapposte spinte, volte alla ridefinizione della regione mediorientale. Una è appunto quella summenzionata, ma ce n’è un’altra, che ha come obiettivo invece l’espulsione della potenza statunitense dalla regione, e che – in questa prospettiva – si pone innanzitutto il problema della neutralizzazione dell’agente americano.
Questa spinta, che è filiazione diretta delle lotte anticoloniali, e che ha visto in passato momenti significativi (l’Egitto di Nasser, la fondazione del partito Baath, la Libia di Gheddafi…), ha poi ricevuto un nuovo impulso dapprima con l’emergere della lotta di liberazione del popolo palestinese, e quindi con la rivoluzione islamica in Iran.
Inutile sottolineare il fatto che queste due spinte contrapposte non sono semplicemente come due masse tettoniche in movimento, ma sono attori di una guerra aperta, che può assumere di volta in volta anche forme ibride, non cinetiche, che però mantiene costantemente un elevato livello di scontro. Così come non serve puntualizzare che questa guerra si inserisce a sua volta appieno nella più ampia guerra globale tra l’occidente ed il sud del mondo.
Ne consegue, innanzitutto, che il punto di equilibrio (ovviamente dinamico e mutevole) tra le due opposte spinte, è determinato dai reciproci rapporti di forza. E che, quindi, è esattamente la collocazione di questo punto che ci restituisce la misura di tali rapporti.
E per determinare se e quanto il momentaneo equilibrio sia più o meno favorevole all’uno o all’altro, è assolutamente necessario mantenere la visione complessiva dello scenario, senza quindi farsi – emotivamente – distrarre dalle contingenze. Senza qui voler fare una analisi approfondita, resa complicata dalla ben nota presenza di molteplici attori minori sul proscenio mediorientale, si possono senz’altro enucleare alcuni punti.
Il primo, più evidente, è che, così come le forze che spingono per cacciare gli USA dalla regione individuano in Israele l’obiettivo prioritario, così le forze egemoniche occidentali individuano nell’Iran il proprio. Ma questa contrapposizione semplificata non esaurisce il panorama del conflitto, e quindi non va mai assunta come interamente esplicativa dello stesso. Il secondo è che proprio l’estrema aggressività, che caratterizza il fronte occidentale in questa fase, ne testimonia la condizione di difficoltà: anche laddove sembra prevalere con estrema facilità, ciò ha sempre un costo, ed è del tutto privo di senso misurarlo con un bilancino, mettendo su ciascun piatto il costo dell’uno e dell’altro. Il costo – umano, economico, militare, psicologico, etc – va misurato in relazione alla capacità (oggettiva e soggettiva) che ciascuno ha di sopportarlo. La guerra del Vietnam, giusto per fare un esempio, costò al paese asiatico almeno tre milioni di morti, di cui due milioni civili, mentre le perdite statunitensi ammontarono a 58.226. Inutile rammentare quella guerra chi l’ha vinta e chi l’ha perduta. Inoltre, ovviamente, si ricorre alla forza quando il soft-power non è più sufficiente. Terzo punto, non meno importante, il quadro geopolitico complessivo presenta un significativo mutamento nella posizione degli attori locali; non solo infatti si registra una crescente presenza e influenza di attori extra-regionali ostili agli interessi occidentali (Russia, Cina) ma, anche in conseguenza di ciò, e dell’accresciuta forza del loro partner regionale (Iran), più di uno tra i maggiori soggetti politici dell’area si sganciano da una posizione di completo allineamento all’occidente, spostandosi verso una maggiore autonomia (anche con ampi margini di ambiguità), che di fatto indebolisce e complica la posizione del fronte occidentale. Il ruolo della Turchia e dell’Arabia Saudita, per citare i due più importanti, non è più di pieno sostegno alla politica statunitense, ma si colloca opportunisticamente laddove (ed allorquando) ritiene più profittevole.
Per arrivare, in chiusura, agli avvenimenti più recenti, non si può non rilevare che – seppure la caduta repentina del regime di Assad in Siria costituisce un colpo per il fronte antimperialista – esso arriva dopo che negli ultimi dieci anni le forze di questo fronte hanno messo in piedi una vasta alleanza regionale, estremamente efficace e combattiva (di cui peraltro la Siria era l’anello debole), che ha messo in seria difficoltà quello occidentale. Difficoltà che la rottura dell’anello siriano attutisce ma non risolve. Oltretutto, la soluzione praticata per farlo saltare è stata – inevitabilmente, viene da dire – non una stabilizzazione favorevole all’occidente, ma semplicemente l’apertura di un’altra voragine di caos (come già fu per la Libia), i cui contraccolpi investiranno tutti i soggetti della regione (e non solo…), impedendo di fatto il realizzarsi di quei nuovi equilibri regionali che, ancora sino al 6 ottobre 2023, il fronte occidentale immaginava di essere sul punto di realizzare.
La presa di Damasco è la conclusione di una battaglia, non la fine della guerra. E non è neanche detto che sia stata la grande vittoria che appare essere adesso.
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