Solo un nuovo sguardo religioso ci può salvare?
DA LA FIONDA (Di Giulio Di Donato)

La morte di Dio è, in verità, la perdita dei nomi divini («mancano i nomi divini», lamentava Hölderlin). Al di là dei nomi, resta la cosa più importante: il divino. Finché saremo capaci di percepire come divini un fiore, un volto, un uccello, un gesto o un filo d’erba, potremo fare a meno di un Dio che è possibile nominare. Ci basta il divino, l’aggettivo c’importa più del sostantivo. Non «un Dio» – piuttosto: «solo il divino ci può salvare».
Sentiamo spesso parlare di teologia politica e del rapporto tra dimensione politica e dimensione religiosa. Ma perché questi temi sono diventati così centrali?
Perché il nodo cruciale resta ancora oggi il rapporto tra immanenza e trascendenza, tra “cose ultime e cose penultime”: se le prime non sono fertili, le seconde non possono fiorire. Un rapporto, quello tra immanenza e trascendenza, che, lungi dall’essere risolto o superato, continua a essere costitutivo, se si intende la modernità nella sua piena complessità e nelle sue strutturali ambivalenze.
In particolare, ci interessa il modo in cui la tradizione cristiana ha impostato tale nesso: un rapporto da rivitalizzare in senso dinamico e progressivo.
C’è una prima lezione del messaggio cristiano da recuperare: non tutto va proiettato a livello di trascendenza, ma nemmeno tutto può essere schiacciato sull’immanenza. Il piano immanente è tuttavia centrale: del resto, è lo spazio dell’Incarnazione, del Dio che si fa uomo, dove prende forma il mistero trinitario di Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Regno dei cieli resta “nei cieli”, ma viene annunciato e vive nella storia, ne orienta il corso. Il divino, pur rimanendo “altro”, lascia tracce nel mondo. E se è vero che il “sol dell’avvenir” non è di questo mondo, è altrettanto vero che questo mondo deve lasciarsi guidare da quell’orizzonte, da assumere a questo punto come indispensabile ideale regolativo.
«Nel mondo, ma non di questo mondo», recitano i Vangeli: tutto ruota attorno a questa tensione.
Ulteriormente sviluppando, ma decisamente banalizzando, si potrebbe anche dire: scommetti sull’immanenza come se essa ti aprisse un varco verso il cielo; fai appello al cielo anche se pensi che il cielo sia “vuoto” piuttosto che “pieno”. Non è vero, ma ci credo: così diceva il tale.
Il mondo pienamente riconciliato non è di questo mondo, ma in questo mondo si compie una battaglia comunque decisiva: qui, nel tempo storico, dove bene e male si compenetrano, dove la città di Dio incontra — ma più spesso si scontra — con la città degli uomini. Dove Regno e giardino, esodo e rivoluzione non sono poli in opposizione radicale, ma in dialettica costante, e i termini “esodo e giardino” non alludono a una fuga dal mondo, bensì possono ospitare un potenziale critico e trasformativo, ben sopportando le possibilità del conflitto. Oltre la “tragedia e l’utopia”. Oltre il progressismo senza progresso che genera macerie e il tradizionalismo da burletta che si limita a contemplare le rovine del passato: occorre oggi l’audacia del rivoluzionare e conservare insieme, del “superare conservando”. Riannodando le relazioni col mondo in una direzione orizzontale e verticale. Coltivando la speranza, pur sapendo la verità sulla condizione umana.
Insomma, il “sogno di una cosa” è tale se apre a un orizzonte altro, ma il “principio caldo di speranza” — se vuole essere “utopia concreta” à la Bloch — deve essere riconosciuto nella sua “tendenza” e nella sua “latenza”.
Naturalmente, le persistenze del teologico-politico non si esauriscono nel cristianesimo. Occorre considerare anche le impronte gnostiche che caratterizzano il presente, spesso in modalità distorta: cerchie di eletti senza alcuna elezione, senza chiamata, senza elevazione; il ritorno di un manicheismo diffuso; fanatismi senza spirito; dogmatismi senza verità.
Ma vi sono anche forme più leggere e rassicuranti, esperienze religiose “a misura di tempo”, buone per occasioni di ebbrezza estemporanea o stati di estasi più alienati che allucinati.
Eppure, le tracce cristiane restano riconoscibili, se si è disposti a vederle.
Oggi, queste coordinate — in un tempo che ha consumato i surrogati delle religioni secolari e decomposto il moderno — si ripresentano sotto forme nuove:
– come katechon, non solo come forza che trattiene, ma anche come fattore dinamico e progressivo;
– come annuncio di salvezza, come messianismo dell’Evento;
– come speranze di redenzione, ansie apocalittiche e domande di assoluto proiettate su nuovi “centri spirituali di riferimento”: ieri l’economico, oggi il nesso tra i miracoli della tecno-scienza e le lusinghe della società dello spettacolo e dei consumi.
Si è detto, con ragione, che l’immanenza non basta a sé stessa. Questo può significare due cose:
- che, per andare oltre sé stessa, ha bisogno di una tensione verso l’oltre, di un anelito di trascendenza, ha necessità cioè di alimentare il senso di ciò che manca, di ciò che ancora non è ma può essere;
- che nell’immanenza non si esauriscono le risposte alle domande ultime, né tutte le ragioni delle ferite profonde dell’umano, né le vie del compimento finale.
Il mondo delle “opere” può arrivare solo fino a un certo punto. Oltre, si apre lo spazio dello Spirito assoluto, che in Hegel ricomprende arte, religione e filosofia. Con l’arte – direbbe Croce – che è l’unica davvero in grado di placare e trasfigurare il sentimento, di innalzare sulle angustie del finito la distesa dell’infinito.
Al contrario, la dimensione dello Spirito oggettivo, che ospita etica e politica ma che è pur sempre Spirito, è costantemente insidiata dall’immane potenza del negativo, che può essere addomesticata, ma mai del tutto rimossa. E per farlo servono risorse materiali, ideali e spirituali.
Lo si è visto chiaramente: la furia del dileguare conduce inevitabilmente al nichilismo del terrore e dell’orrore, al ripiegamento nel “timore e tremore” o al ritorno di un nuovo principio del Capo. Già che ci siamo, ci sia consentita una provocazione: il terrore si chiude con Napoleone, il torpore di oggi con un nuovo “Cesare romano con l’anima di Cristo”, per dirla con Nietzsche?
D’altronde, commentava Spengler, il cesarismo “cresce sul suolo” di un’epoca ormai esaurita e priva di anima, ristabilendo il primato del politico sui poteri indiretti dell’economia e della tecnica. A questo punto, c’è da auspicare che l’eventuale comparsa di una verticalità politica di tipo nuovo si palesi sotto forma di cesarismo progressivo: non come messa in scena di un’unità fittizia, speculare alla passivizzazione sociale, ma come elemento propulsivo in grado di ravvivare un nuovo protagonismo popolare dal basso.
Ma sono solo suggestioni, in un testo che vuole essere null’altro che una costellazione di suggestioni.
In questo quadro, rilanciare le ragioni della modernità implica un incontro di tipo nuovo con le grandi tradizioni metafisiche e religiose. Collocandosi ai bordi della modernità stessa, seduti sulle sue rive, in una posizione di comprensione laterale. Tutto questo per distinguere ciò che della modernità è ancora vivo — la fiducia nella capacità degli esseri umani di costruire una società ove fioriscano libertà e comunità, oltre la dimensione dell’homo oeconomicus, dell’homo videns e della communitas senza ethos — da ciò che invece deve essere lasciato cadere: i suoi esiti nichilistici e distruttivi.
Un nuovo incontro — quello tra tradizione moderna e tradizione religiosa (con una considerazione particolare per quella cristiana, laddove si assuma il punto di vista italiano-europeo) — che non si dà in termini di traducibilità immediata, ma che resta inaggirabile. Che può essere tradotto così: come potenziali di senso da sfruttare a sostegno di una “morale di ragione” in affanno — i “mai più” della Storia risuonano ormai come un’eco lontana, che non smuove più le coscienze —; come bagaglio di energie spirituali da cui attingere per rianimare una dialettica politica priva di propulsione e slancio vitale, mettendo in rapporto l’iniziativa politica con la dimensione prepolitica e metapolitica.
In fondo, si può tenere alle proprie radici cristiane — che non sono certo le uniche nella storia italiana ed europea — e ai crocifissi nelle scuole, e allo stesso tempo celebrare il Ramadan.
L’eredità delle grandi religioni universalistiche, in questo senso, non solo come fatto privato, ma come nuovo fatto pubblico. Non funzione ornamentale, né potere parallelo, ma presenza viva, oasi di senso nel deserto che avanza — e tutto questo in una modalità compatibile con le ragioni del pluralismo e di una laicità adulta.
Perché oggi, forse, solo uno sguardo religioso (ben orientato) può ancora salvarci. Ricordandoci dove passano i confini tra ciò che è umano e ciò che è disumano, anche quando quest’ultimo si traveste da “umano, troppo umano”. Supportandoci nella ricerca di una relazione nuova tra senso del limite e balzo in avanti, poiché l’esperienza umana è sempre un pendolo che oscilla tra vulnerabilità e potenzialità inespressa.
A proposito delle “cose ultime” e delle “cose penultime”, si potrebbero aggiungere anche le “cose terzultime” e poi via via giù, fino ad arrivare, piuttosto in basso, alle faccende della politica italiana. Ora, tentare di mettere insieme la tradizione laica d’ispirazione socialista con quella cattolica non era, di per sé, un’idea sbagliata. Il problema vero è stato il modo in cui lo si è fatto: una sorta di fusione a freddo tra elementi ormai logori, che forse sarebbe stato meglio lasciar cadere, invece di distinguere e valorizzare ciò che in entrambe le tradizioni era ancora vivo — per immaginare e cercare ancora altre vite, oltre i confini del liberal-capitalismo. Così ci si è ritrovati stretti tra alter-globalismo e fuga dal politico, il tutto senza mai mettere davvero in discussione il quadro delle compatibilità imposte dal vincolo esterno di matrice tecnocratica e neoliberale.
Ma risaliamo, per così dire, verso l’alto, e abbozziamo una conclusione.
Trascendenza e senso del sacro, provvidenzialismo e grazia, “principio di non appagamento” e speranza di salvezza: in quest’epoca di “edonia depressa”, interrogare — e lasciarsi interrogare da — queste dimensioni è essenziale per reincantare il mondo e risignificare l’abitare dell’uomo sulla terra. Come se costituissero una sorta di argine di senso e di spirito comunitario, da mobilitare contro le derive della “società dello scarto”, che tende a sacrificare ogni cosa — a cominciare dal valore della pari dignità della persona — a scopi di utilità, vanità e potenza.





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