Il paradosso Rubio: l’odio non può essere reato
di LA FIONDA (Alessio Mannino)

Indignarsi non basta. Certo: possiamo e, a parere di chi scrive, dobbiamo indignarci se, stando alla notizia riportata dal giornalista Alberto Fazolo, si è addirittura scomodato l’antiterrorismo per due post sui social di Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio, facendo irruzione a casa sua giovedì 17 luglio per sequestrargli computer, telefono e chiavette usb. Ma forze di polizia e magistrati, per quanto usino o meno la mano dura, lo fanno in base alle leggi. E se sono le leggi ad armare, come si dice, il loro braccio, allora sono le leggi a dover essere cambiate. E perciò il giusto sdegno deve poi lasciar posto al ragionamento. L’ironia della vicenda sta nel fatto che la norma penale contestata a Rubio è quella regolamentata dalla legge Mancino del 1993, che fu pensata e varata fra gli applausi di certa stolida sinistra ansiosa di reprimere il razzismo, come da formula, di “matrice fascista”. Ecco cosa succede, quando si introducono i reati d’opinione: si comincia con l’imbavagliare le opinioni altrui, e si finisce col vedersi imbavagliate le proprie.
L’accusa contro il cuoco, noto per le sue posizioni filo-palestinesi, sarebbe infatti di istigare all’odio razziale contro gli ebrei. Per la precisione, l’articolo 604 bis del codice vieta l’incitamento a “commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. I post scritti da Rubio rientrerebbero in quest’ipotesi perché, in sostanza, chi ha sporto denuncia deve averli considerati propaganda violenta contro il popolo ebraico. Per la stessa identica ragione, Rubio è già coinvolto in altri procedimenti giudiziari. A marzo, il gup di Roma lo ha rinviato a giudizio per alcune sue pubbliche affermazioni che non sono piaciute all’Ucei, l’Unione Comunità Ebraiche Italiane, che lo ha denunciato. A gennaio, invece, era stata la comunità ebraica romana a querelare lui e il sociologo Alessandro Orsini sia per “istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa”, sia per diffamazione aggravata.
Ora, qui gli aspetti da ponderare sono due. Il primo è giuridico e, senza voler sostituirsi a giudici e legali, va toccato solo per completezza d’informazione. Più sentenze della Corte di Cassazione, buon ultima quella 1602 del 2020, hanno messo in chiaro che per rendersi colpevoli di un reato d’odio la sua manifestazione deve configurare il “concreto pericolo” di indurre “comportamenti discriminatori”. Tesi accusatoria tutta da dimostrare, nello specifico. Del resto, è la stessa logica che anima la legge Scelba, che applica il divieto della Carta a ricostituire il partito fascista. Ovvero: si persegue ogni espressione o condotta che possa concretizzare per vie di fatto il rischio che prenda forma qualcosa di simile a quel tipo di organizzazione, paramilitare e ideologicamente eversiva. Non, quindi, le idee fasciste o neofasciste in quanto tali (altrimenti, il Movimento Sociale Italiano non sarebbe mai potuto esistere),ma solo quelle che possono generare attività tali da provare quell’eventualità.
Ma è il secondo punto che interessa di più. In una democrazia (lasciamo stare se “liberale”, dato che i liberali smettono di esserlo con chi non la pensa come loro) nessuna opinione dovrebbe essere sottoposta a censura. Fosse anche la più insostenibile, infondata, ignobile. Per due ordini di motivazioni. Primo, perché c’è sempre un’idea inammissibile per qualcun altro. Ieri toccava a un fascio, oggi tocca a Rubio, domani toccherà a chissà chi. Secondo, perché non si può mettere le manette all’odio. Odiare è un sentimento, e neppure Giuseppe Stalin o Adolfo Hitler (o il nostro italianissimo Benito Mussolini) hanno mai pensato di perseguire i loro nemici perché non sopportavano di essere “odiati”. Li riducevano al silenzio, li incarceravano, li uccidevano perché li ritenevano, seguendo una politica scientemente liberticida, una minaccia ai loro regimi. Non era l’odio, rispettivamente anti-comunista, anti-nazista o antifascista, che volevano estirpare: era l’esistenza di un’opposizione, di classe, di razza o di convinzione politica. Il che, beninteso, non è un’attenuante. Mentre al contrario costituisce aggravante, per chi si proclami “democratico”, banalizzare e distorcere il discorso pubblico nei termini, da asilo mariuccia avanzato, di odio/amore o bontà/cattiveria.
Io, cittadino di una democrazia, devo poter odiare chi mi pare. Dal momento che la democrazia ha il suo sale nel conflitto, escludere a priori dalla libertà di pensiero certe idee piuttosto che altre è truccare le carte, è minare alla radice la possibilità di partecipare all’agone. Naturalmente, con dei limiti: ingiuria, diffamazione, calunnia, e senz’altro anche istigazione alla violenza contro persone o cose, rappresentano paletti sacrosanti, inderogabili. Altrimenti, è il caos. Ma se, puta caso, odio il premier israeliano Netanyahu, devo poter dirlo e scriverlo. Idem se detesto, se mi ripugna, se mi fa schifo chiunque si macchi, anche solo verbalmente, dio complicità morale e politica per lo sterminismo, i soprusi, le angherie, l’apartheid sistematico in atto nei territori palestinesi non dal 7 ottobre 2023, ma da molto prima. Dov’è però il problema, quasi sempre insormontabile? Tollerare l’opposto, non cadendo nella perversione mentale del doppio standard. Vale a dire accettare che, per quanto si possa odiare chi è idealmente dall’altra parte della barricata, nessuno deve poter attentare al suo diritto di parola. Per capirci: anche se mi fa orrore il giustificazionista degli orrori israeliani, non ho alcun diritto a menomarne la voce. A patto che anche lui faccia lo stesso. Cosa che invece non accade, perché non c’è intollerante più fanatico di chi si crede monopolista della tolleranza e della libertà. Non è vero, cari crociati dell’Occidente paladini dell’“unica democrazia in Medioriente”?
Sia detto soprattutto per imparanoiati da hate speech, per inconsolabili orfani della legge Zan, e per le varie Pine Picierno che infestano l’Italia: tutti i reati d’opinione, senza eccezioni, sono, diciamo così, ontologicamente sbagliati. Perché comprimere la libertà altrui significa, in ultima analisi, mettere a repentaglio la propria. Significa barare al gioco della libera circolazione delle idee. Significa ricorrere al poco onorevole mezzuccio dei tribunali o delle cacce alle streghe perché non si è in grado di reggere il confronto con il diverso, anche abissalmente diverso, fino alla soglia dell’aberrante. E per coloro che, giustamente, si preoccupano della difesa della dignità di ciascuno (ebreo, pro-palestinese, filo-israeliano, musulmano, tardo-marxista, gay, trans, o perfino nostalgico del Capoccione finito a piazzale Loreto), a fare da argine e garanzia dovrebbe poter essere sufficiente il rispetto per la condizione che accomuna, o dovrebbe accomunare tutti, nessuno escluso, in quanto cittadini: l’uguaglianza di fronte alla legge, che precede e va al di là del gruppo d’appartenenza (e questo, fra l’altro, sarebbe un fondamento del cosiddetto liberalismo, in teoria). Ma se invece è la legge che discrimina, isolando e assicurando un trattamento di favore ad alcune minoranze, il criterio egualitario va a farsi benedire e si apre il vaso di pandora dei diritti (e doveri) speciali. Questa non è più democrazia. O meglio, è quella parodia di democrazia che hanno da sempre in mente i liberali nipotini di Popper (“nessuna tolleranza per gli intolleranti”), i quali non sanno, in realtà, di essere i pronipoti di quel sanguinario giacobino di Saint-Just (“nessuna libertà per i nemici della libertà”). In sintesi: i reati d’opinione dovrebbero essere cancellati in blocco, punto e basta. Perché stavolta è stata la volta di Rubio, ma domani potrebbe essere la volta tua, di te che mi stai leggendo, qualora tu faccia il democratico, ma solo nei giorni dispari.
FONTE: https://www.lafionda.org/2025/07/22/il-paradosso-rubio-lodio-non-puo-essere-reato





Commenti recenti