Discorso di Giosuè Carducci nel centenario della nascita del Tricolore
Rileggiamo il discorso che Giosuè Carducci tenne a Reggio Emilia il 7 gennaio 1897 nel centenario della nascita del Tricolore. Non vi troveremo spunti sciovinistici o aggressivi, ma solo un profondo slancio ideale, morale, umano. L’Italia “per vivere, deve avere idee e forze sue, deve esplicare un officio suo civile ed umano, un’espansione morale e politica”. E i tre colori, bianco, rosso e verde, rappresentano appunto l’emancipazione e la volontà di progresso di una nazione generosa ma divisa, dinamica ma umiliata da secoli di sottomissione e appiattimento alla volontà altrui. (Gianluigi Leone – Ars Lazio)
Popolo di Reggio, Cittadini d’Italia!
Ciò che noi facciamo ora, ciò che da cotesta lapide si commemora, è più che una festa, è più che un fatto. Noi celebriamo, o fratelli, il natale della Patria.
Se la patria fosse anche a noi quello che era ai magnanimi antichi, cioè la suprema religione del cuore, dell’intelletto, della volontà, qui, come nella solennità di Atene e di Olimpia, qui, come nelle ferie laziali, starebbe, vampeggiante di purissimo fuoco, l’altare della patria; e un Pindaro nuovo vi condurrebbe intorno i candidi cori dei giovani e delle fanciulle cantanti le origini, e davanti sorgerebbe un altro Erodoto leggendo al popolo ragunato le istorie, e il feciale chiamerebbe a gran voce i nomi delle città sorelle e giurate. Chiamerebbe te, o umbra ed etrusca Bologna, madre del diritto; e te Modena romana, madre della storia; e te epica Ferrara, ultima nata di connubii veneti e celti e longobardi su la mitica riviera del Po. E alle venienti aprirebbe le braccia Reggio animosa e leggiadra, questa figlia del console M. Emilio Lepido e madre a Ludovico Ariosto, tutta lieta della sua lode moderna; che “città animatrice d’Italia” la salutò Ugo Foscolo, e dal seno di lei cantava il poeta della Mascheroniana – La favilla scoppiò donne primiero Di nostra libertà corse il baleno. Ma i tempi sono oggimai sconsolati di bellezza e d’idealità; direbbesi che manchi nelle generazioni crescenti la coscienza, da poi che troppo i reggitori hanno mostrato di non curare la nazionale educazione. I volghi affollantisi intorno ai baccani e agli scandali, dirò così, officiali, dimenticano, anzi ignorano, i giorni delle glorie; nomi e fatti dimenticano della grande istoria recente, mercé dei quali essi divennero, o dovevano divenire, un popolo; ignora il popolo e trascura, e solo se ne ricordano per loro interesse i partiti. Tanto più siano grazie a te, o nobile Reggio, che nell’oblio d’Italia commemori come nella sala di questo palazzo di città, or son cent’anni, il 7 gennaio del 1797, fu decretato nazionale lo stendardo dei tre colori. Risuonano ancora nell’austerità della storia a vostro onore, o cittadini, le parole che di poi due giorni il Congresso Cispadano mandava da queste mura al popolo di Reggio: “Il vostro zelo per la causa della libertà fu eguale al vostro amore per il buon ordine. Sapranno i popoli di Modena di Ferrara di Bologna qual sia il popolo di Reggio, giusto, energico, generoso; e si animeranno ad emularvi nella carriera della gloria e della virtù. L’epoca della nostra Repubblica ebbe il principio fra queste mura; e quest’epoca luminosa sarà uno de’più bei momenti della città di Reggio“.
Il presidente del Congresso Cispadano dicea vero. L’assemblea costituente delle quattro città segnò il primo passo da un confuso vagheggiamento di confederazioni al proposito dell’unità statuale, che fu il nocciolo dell’unità nazionale. Quelle città che fin allora s’erano riscontrate solo su’ campi di battaglia con la spada calante a ferire, con l’ira scoppiante a maledire; che fino in una dissonanza d’accento tra’ fraterni dialetti cercavano la barriera immortale della divisione e dell’odio; che fino inventarono un modo nuovo di poesia per oltraggiarsi; quelle città si erano pur una volta trovate a gittarsi l’una nelle braccia dell’altra, acclamando la repubblica una e indivisibile quale spirito di Dio scese dunque in cotesta sala a illuminare le menti, a rivelare tutta insieme la visione del passato e dell’avvenire, Roma che fu la grande, Italia che sarà la buona? Certo l’antico ed eterno spirito di nostra gente, che dalla fusione confluito delle varie italiche stirpi fu accolto e dato in custodia della Vesta romana dal cuore di Gracco e dal genio di Cesare, ora commosso dall’aura de’ tempi nuovi scendeva in fiamme d’amore su i capi dei deputati cispadani, e di essi usciti di recente dalle anticamere e dalle segreterie de’ legati e dei duchi faceva uomini pratici del reggimento libero, cittadini osservanti del giusto e dell’equo, legislatori prudenti per il presente, divinatori dell’avvenire.
E già a Roma, a Roma, si come a termine fisso del movimento iniziato , era volata nei discorsi e nei canti la fantasia patriottica; ma il senno ed il cuore mirò da presso il nemico eterno nel falso impero romano germanico, instrumento d’informe dispotismo alle mani di casa d’Austria; sicché prima a quei giorni risuonò in Reggio la non mai fin allora cantata in Italia reminiscenza della lega lombarda e di Legnano; sicché impaziente ormai d’opere la gioventù affrettò in Montechiarugolo le prove d’una vendetta di Gavinana. Per ciò tutto, Reggio fu degna che da queste mura si elevasse e prima sventolasse in questa piazza, segnacolo dell’unico stato e dell’innovata libertà, la bella la pura la santa bandiera dei tre colori.
Sii benedetta! Benedetta nell’immacolata origine, benedetta nelle via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre, nei secoli! Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all’Etna; le nevi delle alpi, l’aprile delle valli, le fiamme dei vulcani. E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta e sì augusta; il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l’anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de’ poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi. E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch’ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà; ond’è che ella, come la dice la scritta, piena di fati mosse alla gloria del Campidoglio.
Noi che l’adorammo ascendente in Campidoglio, noi negli anni della fanciullezza avevamo imparato ad amarla ed aspettarla dai grandi cuori degli avi e dei padri che ci narravano le cose oscure ed alte preparate, tentate, patite, su le quali tu splendevi in idea, più che speranza, più che promessa, come un’aureola di cielo a’ morienti e a’ morituri, o santo tricolore. E quando tu in effetto ricomparisti a balenare su la tempesta del portentoso Quarantotto i nostri cuori alla tua vista balzarono di vita novella; ti riconoscemmo, eri l’iride mandata da Dio a segnare la sua pace co’l popolo che discendeva da Roma, a segnare la fine del lungo obbrobrio e del triste servaggio d’Italia. Ora la generazione che sta per isparire dal combattuto e trionfato campo del Risorgimento, la generazione che fece l’Unità, te, o sacro segno di gloria, o bandiera di Mazzini di Garibaldi di Vittorio Emanuele, te commette alla generazione che l’unità deve compiere, che deve coronare d’idee e di forza la patria risorta.
O giovani, contemplaste mai con la visione dell’anima questa bandiera, quando ella dal Campidoglio riguarda i colli e il piano fatale onde Roma discese e lanciossi alla vittoria e all’incivilimento del mondo? o quando dalle antenne di San Marco spazia su’l mare che fu nostro e par che spii nell’oriente i regni della commerciante e guerreggiante Venezia? o quando dal Palazzo de’ Priori saluta i clivi a cui Dante saliva poetando, da cui Michelangelo scendeva creando, su cui Galileo sancì la conquista dei cieli? Se una favilla vi resti ancora nel sangue dei vostri padri del Quarantotto e del Sessanta, non vi pare che su i monumenti della gloria vetusta questo vessillo della patria esulti più bello e diffonda più lieto i colori della sua gioventù? Si direbbe che gli spiriti antichi raccoltigli intorno lo empiano ed inanimino dei loro sospiri, rallegrando ne’ suoi colori e ritemperando in nuovi sensi di vita e di speranza l’austerità della morte e la maestà delle memorie. O giovani, l’Italia non può e non vuole essere l’impero di Roma, se bene l’età della violenza non è finita pe’ validi; oh quale orgoglio umano oserebbe mirare tant’alto? Ma né anche ha da essere la nazione cortigiana del rinascimento, alla mercé di tutti; quale viltà comporterebbe di dar sollazzo delle nostre ciance agli stranieri per ricambio di battiture e di stragi? Se l’Italia avesse a durar tuttavia come un museo o un conservatorio di musica o una villeggiatura per l’Europa oziosa, o al più aspirasse a divenire un mercato dove i fortunati vendessero dieci ciò che hanno arraffato per tre; oh per Dio non importava far le cinque giornate e ripigliare a baionetta in canna sette volte la vetta di San Martino, e meglio era non turbare la sacra quiete delle ruine di Roma con la tromba di Garibaldi sul Gianicolo o con la cannonata del re a Porta Pia. L’ Italia è risorta nel mondo per sé e per il mondo, ella, per vivere, deve avere idee e forze sue, deve esplicare un officio suo civile ed umano, un’espansione morale e politica. Tornate, o giovani, alla scienza e alla coscienza de’ padri, e riponetevi in cuore quello che fu il sentimento il voto il proposito di quei vecchi grandi che han fatto la patria; l’Italia avanti tutto! L’Italia sopra tutto!
7 gennaio 1897
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