Del bene comune e del cadavere della dialettica
da IL PEDANTE (Redazione)
Con questa pedanteria si chiude il ciclo della “Dittatura degli intelligenti” dedicato ai crescenti umori antidemocratici del pubblico e della dirigenza occidentali. Qui le puntate precedenti: I. Quelli della paidocrazia (di chi vorrebbe togliere il voto ai vecchi) – II. Quelli della megliocrazia (di chi vorrebbe togliere il voto ai peggiori) – III. I sofocrati di Saigon (di chi vorrebbe togliere il voto agli ignoranti) – IV. I criceti dell’antifascismo (degli antifascisti che sognano la democrazia dei fascisti).
Per dare un senso e una radice comune ai fenomeni fin qui descritti se ne proporrà nel seguito una lettura in quanto prodotti di una medesima distorsione: l’idea – apparentemente nobile e seducente, come ha da esserlo ogni fiaba – di bene comune.
Alla demistificazione di questa idea, la cui volgarità intellettuale è pari soltanto alle vertigini morali che essa promette, si sono già cimentati altri e più pedantemente di noi. Joseph Schumpeter ne propose una solida confutazione nel cap. XXI di Capitalism, Socialism & Democracy (traduzione e grassetti pedanti):
‘Per prima cosa, non esiste nulla che possa identificarsi con un bene comune su cui tutti possano convenire o su cui si possa far sì che tutti convegano in forza di argomenti razionali. Ciò non perché alcune persone potrebbero desiderare altro dal bene comune, ma per la ben più fondamentale ragione che il bene comune è destinato ad assumere significati diversi per individui o gruppi diversi. Questo fatto […] introdurrà divergenze su questioni di principio che non possono essere riconciliate da argomentazioni razionali perché i valori fondamentali – la nostra concezione di ciò che la vita e la società debbano essere – vanno al di là della mera logica’.
E ancora:
‘In secondo luogo, anche se un bene comune sufficientemente definito – come ad esempio la massima soddisfazione economica degli utilitaristi – fosse accettato da tutti, ciò non implicherebbe risposte uguali ai singoli problemi. Le opinioni su questi temi potrebbero differire al punto di riprodurre gran parte degli effetti già visti nel caso del dissenso “fondamentale” circa i fini. I problemi riguardanti la valutazione delle soddisfazioni presenti rispetto a quelle future, anche nel caso del socialismo rispetto al capitalismo, rimarrebbero comunque aperti […]. La “salute” potrebbe certo essere desiderata da tutti, ma le persone continuerebbero comunque a dissentire tra loro sulla vaccinazione e la vasectomia. Eccetera’.
Per Schumpeter la possibilità dialettica di un bene comune è dunque negata a due livelli: 1) quello dei fini, dettati da valori fondamentali non riconducibili alla sfera razionale ma piuttosto a quella emotiva (ad es. la volontà di prevalere, la compassione ecc.) e irrazionale o sovra-razionale (ad es. le fedi religiose) e 2) quello degli strumenti necessari per realizzare un medesimo fine.
Più avanti l’autore critica la capacità stessa di tutti gli attori di discernere il proprio bene (in economia, la razionalità degli agenti economici) e quindi, a fortiori, quel bene comune che dovrebbe scaturire dalla media massimizzata dei singoli vantaggi:
‘Ognuno dovrebbe essere in grado di distinguere precisamente ciò per cui intende impegnarsi. Questa volontà precisa dovrebbe discendere dalla capacità di osservare e interpretare correttamente i fatti direttamente accessibili all’esperienza, e di vagliare criticamente le informazioni riguardanti i fatti che non lo sono’.
Questa capacità è negata non solo dalla distribuzione disomogenea delle informazioni e degli strumenti interpretativi (asimmetrie informative) ma anche dalla tendenza, intrinseca del capitalismo, a distorcere le informazioni attingendo volutamente ai moventi irrazionali dei destinatari:
‘Osservando la realtà più da vicino, gli economisti hanno incominciato a scoprire che anche nelle faccende più banali della vita di ogni giorno i loro consumatori non soddisfano l’idea che ne è data dai manuali di economia. Da un lato, i loro desideri non sono per nulla definiti e le azioni innescate da quesi desideri sono tutt’altro che razionali e conseguenti. Dall’altro, essi sono a tal punto inclini a lasciarsi influenzare dalla pubblicità e da altri metodi di persuasione che spesso si ha l’impressione che siano i produttori a dirigerli, e non viceversa. Le tecniche pubblicitarie di successo sono in tal senso istruttive. C’è, è vero, quasi sempre un richiamo di qualche tipo alla ragione. Ma le mere asserzioni, spesso ripetute, contano più degli argomenti razionali, e così anche gli attacchi diretti alla sfera inconscia nel tentativo di evocare e cristallizzare associazioni piacevoli totalmente extrarazionali, spesso di natura sessuale’.
Fin qui tutto ovvio (si spera). Osserviamo anche che la critica schumpeteriana non solo ha più di settant’anni, ma si rivolge fin dall’incipit a una teorizzazione settecentesca di democrazia e di buon governo ritenuta già allora primitiva: quella utilitarista di Bentham e seguaci, quella secondo cui “‘il bene è la maggior felicità del maggior numero”.
Immaginiamo allora l’inconsolabile desolazione dell’economista austriaco qualora, redivivo, dovesse assistere a un dibattito politico-economico contemporaneo. Qui si è persa traccia finanche della concezione benthamiana, che pur nel suo meccanicismo naïf non si sognava certo di disconoscere la coabitazione e la concorrenza di interessi contrapposti nel corpo sociale: che il vantaggio di chi vende è diverso da quello di chi compra, quello di chi presta da quello di chi si indebita, quello di chi produce da quello di chi consuma, quello di chi fa le armi da quello di chi subisce le guerre.
Immaginiamolo assiso tra il pubblico di un talk-show. Qui vedrebbe la più varia e colorata compagine – sindacalisti, piccoli e grandi industriali, nullatenenti, tycoon, politicanti, preti, scribacchini – discettare di ricette-per-far-ripartire-il-Paese, di bene-nazionale, di ciò-di-cui-ha-bisogno-l-Italia e di altre fesserie ecumeniste, tutti all’inseguimento di un mito, quello di un bene comune, definitivo e indistinto, che gonfia i petti e svuota i cervelli. Fossero anche costoro gli esemplari intellettualmente più pregiati delle rispettive categorie, l’unico risultato decente a cui potrebbero (e dovrebbero) aspirare sarebbe quello di negoziare una soglia di tolleranza dei desideri e degli interessi a sé antagonisti. Il che produrrebbe però grande delusione in un pubblico apparecchiato ai massimi sistemi, lo risveglierebbe sgarbatamente dal sogno di una formula elegante e passpartout da applicare ai problemi dell’universa nazione. E – Dio non voglia – squadernandogli la complessità del contratto sociale, lo costringerebbe a pensare.
Vedrebbe inoltre, il pedante Joseph Alois, la violenza che la favola troglodita del bene comune produce nel dibattito pubblico, come del resto aveva previsto:
Si afferma, pertanto, che esista un bene comune […] che è possibile mostrare ad ogni persona normale per mezzo di argomenti razionali. Non ci sono dunque scuse per non vederlo, né può spiegarsi l’esistenza di individui che non lo vedano se non per ignoranza […] stupidità o interessi anti-sociali.
Il punto è cruciale. Se la dialettica degli interessi legittimamente contrapposti genera scontri e tensioni, essa tende pur sempre al raggiungimento di un maggiore equilibrio e, quindi, di modelli di convivenza e interazione meno conflittuali. La consapevolezza della pluralità dei vantaggi riconosce la dignità di esistere degli interessi non propri, pur contrastandone l’espansione a detrimento dei propri.
Al contrario, nel mondo one size fits all del bene comune chi canta fuori dal coro non può che farlo per “ignoranza, stupidità o interessi anti-sociali”. Se la ricetta del meglio è uguale per tutti, allora chi se ne sfila non è solo autolesionista, ma anche pericoloso. È una scheggia infetta da espellere dalla società, un folle che mette a rischio il progresso, un irresponsabile che va escluso dalla partecipazione e dai diritti fondamentali di voto e di parola. Chi rema contro il presunto bene comune va odiato, disprezzato, soppresso.
Nei dibattiti pre e post-Brexit che hanno ispirato questa serie di articoli, quasi a nessuno è passato per la mente di indagare a chi giovasse e a chi nuocesse l’esito del voto. Nessuno si è chiesto se, per caso, gli asset e il portafoglio titoli di Bob Geldof fossero diversi da quelli dei pescatori di Grimsby. Troppo difficile, troppo machiavellico. Per non perdersi tra i rivoli noiosi della realtà, il caso doveva riguardare tutta la Nazione, anzi tutto il Continente, anzi tutto il Mondo, in un delirio antropomorfo e gregario dove miliardi di individui si fanno una cosa sola, cioè un sol gregge. E poiché si era deciso che il bene comune stava dalla parte dei remainers, agli altri – anziani, indigenti, nazionalisti, subscolarizzati ecc. – toccò subire la ferocia di un branco che, nella penosa esaltazione di condurre una battaglia per il progresso universale, invocava il regresso del diritto e della democrazia. E senza vergogna: perché se il malintenzionato nasconde i suoi delitti, il benintenzionato li ostenta, se ne vanta, li urla sui giornali, pretende la complicità di tutti.
Se esiste un bene superiore e comune, il vantaggio degli individui o di singoli gruppi di interesse cessa di essere un diritto, e anzi chi lo persegue è un egoista. Così gli egoismi (?) nazionali attenterebbero alla nascita di una nazione europea (quest’ultima, per qualche motivo, non egoista). Così chi critica le politiche migratorie, chi difende un lavoro tutelato, la pensione, il risparmio. Egoisti sono i produttori salentini che denunciano lo sdoganamento dell’olio tunisino, i coltivatori siciliani che rifiutano le arance marocchine, gli allevatori cremonesi che non vogliono gettare il latte nei fossi. Egoisti sono i sindaci che chiedono per i disoccupati e i senzatetto nostrani almeno gli stessi benefici riconosciuti ai loro omologhi stranieri.
Egoista è chiunque faccia valere i propri bisogni violando il bene comune. Ma se non a costoro, e se poi non esiste nemmeno, a chi giova questo bene comune? Evidentemente a coloro che lo dettano, cioè a chi ha la forza di riclassificare il proprio bene come un vantaggio superiore e indiscutibile della comunità. Come già la meritocrazia è il criterio del più forte (ne abbiamo scritto qui), così il bene comune è il bene del più forte. Con una serie di vantaggi annessi:
- l’idea primitiva e tribale di un fine universale a cui tutti sono chiamati esclude in definizione l’esercizio del dissenso.
- la concettualizzazione e il lessico, tutto morale, di bene implica la minaccia di un male: sicché gli oppositori diventano nemici e non già portatori di valori e interessi diversi. Chi detta i termini del bene comune chiama a sé le anime belle, investe i semplici di una missione esaltante e si assicura la complicità ebete di un esercito di benpensanti pronti a sbranare chiunque si defili dagli obiettivi del dominus;
- il bene di tutti giustifica il sacrificio dei singoli. Così gli effetti delle prevaricazioni dei forti – come oggi l’impoverimento di intere nazioni per coprire e garantire gli azzardi dei prestatori di denaro – si trasfigurano in opere di abnegazione virtuosa per la salvezza di tutti (questo punto, lo riconosciamo, è un capolavoro e ci leviamo il cappello);
- l’aggettivo comune illustra un’idea conformista e indistinta del corpo sociale e suggerisce non tanto l’esistenza, ma la necessità del pensiero unico.
Il bene comune è uno dei tanti sottoprodotti dialettici della regressione politica contemporanea, la cui cifra comune può essere fissata nella morte della dialettica. Perché in effetti la concettualizzazione politica degli ultimi vent’anni gravita tutta attorno al cadavere di una dialettica menomata e defunta, dove la tesi dei dominatori coincide con la sintesi, previa soppressione dell’antitesi a cura e a spese dei dominati. È un totalitarismo dialettico e propedeutico che ha già partorito una folta schiera di figli bastardi: la tecnocrazia che presuppone l’esistenza della cosa giusta a prescindere dalle idee politiche; TINA che non ammette opposizioni alla cosa giusta; il pilota automatico che conduce alla cosa giusta senza curarsi della volontà dei governati; la meritocrazia che predica il governo dei giusti; la fine della storia che esclude i modelli politici alternativi a quello giusto.
Il contorno moralista segnalato dal lessico – il bene, la comunità, il giusto – serve a indurre le masse a confondere il proprio bene, anzi il bene di tutti, con quello dei pochissimi che ne manovrano la definizione. E a non chiedersi perché loro, le masse, non possano concorrere, ciascuno con i propri bisogni, interessi e valori, a definire quel bene o quella cosa giusta, quantomeno per sé.
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