di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Savino Balzano)
Ormai lo hanno detto proprio tutti: persino il Ministero del lavoro ha dovuto, in quanto obbligato dalla normativa, pubblicare dati sull’occupazione davvero poco confortanti. Pare proprio che questo Jobs Act non sia stato il volano dell’economia, la svolta per l’occupazione in questo paese, il rilancio per la collocazione dei giovani nel mercato del lavoro. Pare proprio che il nostro straordinario Ministro del lavoro, un perito agrario (per chi non lo sapesse e fosse curioso in merito agli augusti studi giuslavoristici su cui fonda la sua formazione Giuliano Poletti), non si sia dimostrato il Roosevelt all’italiana, va’. Eppure, come si diceva in un film molto amato, le parole sono importanti. E pare che il Governo questo lo abbia compreso molto bene: “Jobs Act”, “Buona Scuola”, “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni (…)”. Come se chiamare una legge con un nome figo, possa essere sufficiente a cambiarne in meglio il contenuto.
Solo, le parole sono importanti sempre: anche quando sono utilizzate per muovere una critica. E tutti a dire che il Jobs Act si sia dimostrato un fallimento, un flop. Il fatto è che dire che il Jobs Act sia stato un fallimento, equivale a dire che il Governo si sia impegnato al massimo, ci abbia provato in buona fede a cambiare le cose, ma che non ci sia riuscito, magari a causa della crisi economica: un po’ come succedeva a Berlusconi. Ma le cose non stanno così. La verità è esattamente opposta: il Jobs Act è la riforma del lavoro più riuscita nella storia repubblicana, solo il fine non era quello che si proclamava. L’occupazione, i consumi, gli investimenti, l’economia, la flexicurity, erano solo le belle parole che servivano per ipnotizzare l’opinione pubblica. Il Jobs Act è una riforma che Renzi ha portato avanti per Confindustria e per l’Europa che la invocavano: l’effetto da produrre era molto banalmente quello che si è prodotto, ossia la totale precarizzazione e indebolimento dei lavoratori dinanzi ai padroni.
Si diceva che in Italia non si assumesse perché in caso di necessità non sarebbe poi stato possibile licenziare: balle! Esisteva nella nostra normativa il licenziamento soggettivo (per giustificato motivo e giusta causa) e quello oggettivo. L’unica salvaguardia rimasta, peraltro già fortemente ridimensionata dalla legge Fornero, era il reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Con l’introduzione del contratto “a tutele crescenti” (ancora una bella espressione che serve a nascondere una triste realtà) tale opzione è stata completamente espunta dal nostro ordinamento giuridico. Inoltre, il Jobs Act, ha completamente rivisto la normativa sul controllo a distanza: con la modifica dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, il padrone adesso ha la possibilità di controllare a distanza i lavoratori e di misurarne la produttività anche a fini disciplinari. Tutto questo deve essere poi visto in combinato disposto con la nuova normativa sul demansionamento, che attribuisce un enorme potere al datore di lavoro, che ha adesso la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle attualmente ricoperte.
L’obiettivo del Job Act era quello di creare un nuovo modello di lavoratore dove il precariato diventa principio di sistema: un lavoratore che può essere controllato in ogni momento a distanza, demansionato e licenziato senza alcuna possibilità di reintegro (se non nel caso, difficilissimo da dimostrare in giudizio, del licenziamento c.d. discriminatorio). Dinanzi ad uno scenario di questo tipo, difronte a una così profonda ricattabilità della lavoratrice e del lavoratore italiano, sorgono due domande. La prima: il nuovo lavoratore sarebbe disposto, adesso, a ribellarsi dinanzi ad un padrone che umili lui e la sua opera, che magari lo insulti, lo ricatti e in generale leda la sua dignità? Il secondo: il nuovo lavoratore sarebbe disposto a rinunciare silenziosamente a parte dei sui diritti pur di non indisporre il suo padrone potenziato, ad esempio in materia di sicurezza sul lavoro, maternità, congedi parentali, assistenza familiare, orario di lavoro, mobbing e chi più ne ha più ne metta? Dinanzi a questo, ci vuole davvero un gran bel coraggio a dire che il Job Act sia un fallimento.
Pensiamo ai voucher, che adesso paiono essere oggetto di modifiche perché la cosa sta diventando davvero troppo zozza, e a come essi abbiano in realtà praticamente legalizzato il lavoro nero: in caso di controllo da parte delle autorità competenti, il lavoratore in nero (che per fame accetterebbe di tutto!) avrebbe dovuto semplicemente tirare fuori il fogliettino dalla tasca e sostenere di essere arrivato in azienda da una mezzoretta, per una collaborazione momentanea, quando magari prestava servizio da mesi tutti i giorni e regolarmente senza uno straccio di contribuzione previdenziale.
La verità è che la crisi è profonda e che in tempo di vacche magre qualcuno deve pagare e rinunciare a qualcosa: il Governo doveva solo decidere a chi presentare il conto e pare che la scelta sia stata chiara e assai ben riuscita. Altrimenti, dinanzi a dati tanto allarmanti sull’occupazione, l’esecutivo avrebbe anche potuto aprire a ipotesi di ripensamento e modifica di quella che appare una normativa semplicemente criminale. Non lo fa e questo la dice assai lunga. La verità è che Matteo Renzi è un liberale di destra che deve stare a sinistra altrimenti non riuscirebbe a fare quello che sta facendo: Berlusconi non ha potuto perché stava dal lato sbagliato, tutto qui.
“Le parole sono (…) la nostra massima e inesauribile fonte di magia, in grado sia di infliggere dolore che di alleviarlo”, diceva un vecchio mago in un film, e il Governo pare lo abbia capito bene: basti pensare alla riforma costituzionale. E allora, sempre in merito alla riforma costituzionale, avendo ormai compreso il metodo del Governo, bene concludere con un ulteriore interrogativo, da lasciare sospeso alla libera interpretazione di ognuno: se il reale obiettivo dell’esecutivo non è quello che si legge nel titolo della legge – e questo pare ovvio alla semplice analisi dell’articolato – qual’è questa volta il reale disegno? A cosa serve realmente lo snellimento dell’iter legis? A cosa serve realmente accentrare la funzione legislativa in capo a Roma? A cosa serve realmente, con l’aiuto della legge elettorale, avere un Parlamento composto da gente servile e scelta dalle segreterie di partito? A cosa serve realmente spostare ulteriormente il baricentro del potere sull’asse dell’esecutivo? La prospettiva fa davvero paura, soprattutto se in filigrana non riemerga altro che un solo e unico proposito, perseguito da almeno vent’anni a questa parte da tutti gli esecutivi susseguitisi in Italia e in Europa: la demolizione dello stato sociale.
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