L’Italia capitalista è in grosse difficoltà. Ma la classe lavoratrice, al momento, non sta meglio.
di SINISTRAINRETE (Il cuneo rosso)
Queste note sono un primo contributo all’analisi dello stato della classe proletaria oggi in Italia. Per evitare – per quanto possibile – fraintendimenti, facciamo tre precisazioni preliminari che chiediamo ai compagni di tenere bene presenti. La prima: il nostro discorso è qui circoscritto esclusivamente (o quasi) all’Italia per ragioni di utilità, per cercare di andare un po’ più a fondo nell’indagine e perché è questo il campo principale della nostra attività. Ma non dimentichiamo certo che il proletariato è una classe internazionale per definizione, sia per il legame inscindibile che il mercato mondiale ha costruito tra i proletari di ogni angolo del globo, sia per la sua composizione di fatto multinazionale all’interno dei singoli recinti nazionali. La situazione italiana ha dei tratti specifici, ma il destino dei lavoratori in Italia è indissolubilmente legato al destino dei lavoratori del Nord e del Sud del mondo. La seconda: il quadro tracciato dello stato della classe oggi in Italia potrà apparire a qualche compagno pessimista (di sicuro quello di altri paesi è molto, o enormemente, più mosso specie in Asia, o anche in Francia), ma nel tracciarlo ci siamo attenuti al motto di Rosa Luxemburg, “Dire ciò che è, rimane l’atto più rivoluzionario”, che riprende in pieno un concetto e un’attitudine espressi con altre parole cento volte da Marx e da Lenin. La nostra analisi può essere incompleta (lo è) o sbagliata (crediamo di no), ma risponde al criterio: partire dai fatti, non dai nostri desideri, quanto mai lontani, oggi, da essi. Terza precisazione: per svolgere la nostra analisi, ci è parso inevitabile partire dallo stato del capitalismo italiano, anch’esso indivisibile da quello del capitalismo globale, perché la prima e fondamentale determinante dello stato della nostra classe è lo stato e il corso del capitalismo internazionale e nazionale – e lo è al massimo grado quando, com’è al momento, il livello di autonomia del movimento proletario è infimo.
Il declino (relativo) del capitalismo italiano
La crisi economica internazionale ha avuto un impatto violento sulla struttura produttiva italiana che era già in preda da due decenni a un declino e ad una destrutturazione che paiono inarrestabili, e l’ha estesa al sistema bancario. Dal 2007 la produzione industriale è precipitata del 25%, sebbene Renzi vanti come un miracolo il +0,8% del Pil nel 2015 e un dato forse analogo nel 20161 . Quel che resta delle grandi imprese di un tempo è piuttosto traballante. La Fiat ha ridotto la sua presenza in Italia ai minimi storici, e nonostante ciò, nuovi provvedimenti di cassa integrazione sono dietro l’angolo. L’Alitalia, dopo aver quadruplicato le perdite dal 2011, è finita assorbita da Etihad, ed è alla vigilia di nuovi tagli di personale. La Telecom, afflitta anch’essa da perdite miliardarie, deve procedere a svalutazioni e cessioni, al pari dell’Enel. Finmeccanica, affidata al super-poliziotto De Gennaro e al super-manager Moretti dopo gli arresti dei suoi corrottissimi e incompetenti dirigenti, cerca di far fronte ai propri debiti svendendo dei suoi gioielli ai capitali statunitensi, giapponesi, coreani, etc. Fincantieri, tra le poche grandi imprese italiane ad andare avanti nel mondo, è da tempo in forte caduta quanto a valore azionario per le incognite che si addensano sul suo futuro…
L’odierno tessuto produttivo industriale italiano è caratterizzato oggi, molto più di quanto lo fosse trent’anni fa, da imprese che per le loro dimensioni fanno fatica a competere sul mercato mondiale. Tant’è che nel suo discorso di investitura il neo-presidente di Confindustria Boccia è stato costretto a scandire: “Piccolo non è bello! La dimensione media di impresa deve crescere.” Ma continua a succedere l’inverso. L’esempio forse più clamoroso di questa tendenza è il passaggio di proprietà del ‘Corriere della sera’, sottratto a un pool di grossi capitalisti coordinati da Mediobanca, la banca d’affari che ha fatto e disfatto i grandi accordi industriali e finanziari italiani per oltre 50 anni, da un imprenditore di modesta caratura quale Cairo, fino a pochi anni fa un oscuro middle manager di Mediaset. Sia chiaro: non mancano le grandi imprese con base in Italia che crescono (Luxottica o, appunto, Fincantieri), né si deve sottovalutare il processo di internazionalizzazione che ha coinvolto molte medie aziende italiane. Ma nel suo insieme il capitalismo made in Italy continua a perdere quota nel mercato globale. Un dato per tutti: nel 2015 gli investimenti produttivi hanno toccato il minimo storico sul Pil (il 16,6%), registrando un calo del 30% rispetto al 2008. Sono in forte calo gli investimenti pubblici: erano 921 euro pro capite nel 2009, sono scesi a 559 euro nel 2014. Calano gli investimenti privati, nonostante la quantità incredibile di misure fiscali prese dagli ultimi governi a favore delle imprese. Gli impianti invecchiano: nel 2005 l’età media del parco macchine era di 10 anni e 5 mesi, nel 2014 era salita a 12 anni e 8 mesi. Ben il 27% delle macchine industriali ha, in Italia, più di 20 anni. Addirittura il 79% degli impianti industriali non ha avuto, nel 2014, alcuna immissione di Itc (information technology). Perciò non c’è nulla di cui stupirsi se in Italia la produttività del lavoro stagna, pur a fronte delle furiose pressioni padronali per imporre ai lavoratori l’intensificazione delle loro attività lavorative.
Nel frattempo ha continuato a crescere la presenza dei capitali esteri e globali in Italia. Il 2015 è stato il primo anno in cui il 51% del capitale delle s.p.a. quotate in borsa a Milano risulta di soci esteri, a fronte del 19,2% nelle mani delle imprese italiane, del 12,4% nelle mani delle famiglie più ricche, del 10,5% delle banche, del 3,23% dello stato. In forte crescita la presenza dei capitali esteri nelle aziende non quotate in borsa, il che fa dire a Longobardi, il presidente dell’Unione nazionale imprese: “Se da una parte va valutato positivamente l’aumento del valore delle imprese italiane, dall’altro siamo preoccupati: la fortissima crisi che sta colpendo l’Italia più di altri paesi sta consegnando di fatto i pezzi pregiati della nostra economia a soggetti stranieri. Si tratta di colossi finanziari che non sempre comprano con prospettive di lungo periodo o di investimento, ma spesso per fini speculativi”, e altrettanto spesso di dis-investimento, cioè finalizzati a tagliare qui rami produttivi concorrenziali. Dal 2012 al 2015 è cresciuta anche la quota di debito pubblico nelle mani di tali investitori, arrivati a possedere il 39% di esso (4 punti sopra ai livelli del 2012, benché ancora 12 punti sotto i livelli record del 2010). Investitori esteri (fondi di investimento) sono, sembra, dietro la scalata di Cairo al ‘Corriere della sera’. L’ombra della J.P. Morgan è dietro l’eventuale salvataggio di Monte Paschi. Il patron di Vivendi, Bollorè, è partito all’assalto di Mediaset. La FCA sta trattando la vendita di Magneti Marelli con la coreana Samsung. E il balletto tra il ridicolo e l’osceno intorno al futuro dell’Ilva di Taranto vede alternarsi la ricerca di soci turchi da contrapporre a soci indiani e altri più o meno misteriosi, ma sempre esteri. Per non dire del passaggio nelle mani di gruppi cinesi di Inter e Milan, un tempo i giocattoli di casa delle famiglie Moratti e Berlusconi, non esattamente le ultime nell’imprenditoria nazionale.
In questo senso, pur se si è ridotta di molto la presenza dei grandi impianti industriali, in Italia il processo di centralizzazione del capitale è proseguito, ma ad esserne protagonisti negli ultimi tempi sono anzitutto capitali globali di matrice estera, o direttamente globali. Il che non ci induce in alcun modo a piagnucolare sulla sorte ‘neo-coloniale’ dell’Italia, che rimane, pur se ammaccato, un paese imperialista a tutti gli effetti, attestato comunque all’8^ posto della gerarchia imperialista mondiale (secondo i calcoli di Tony Norfield). Un paese che si accaparra all’estero una somma di valore superiore a quella che lucrano in Italia le transnazionali a base estera (secondo i calcoli di Intesa San Paolo). Meno ancora ci fa sognare e sponsorizzare un’Italia che si metta alla guida dei paesi del Sud dell’Europa contro la ‘dittatura della Merkel’, gli arroganti patron transalpini e la Mittel-Europa tedesco-francese, in una contesa inter-europea e inter-imperialista ancora più accanita di quella in corso. Ci conferma in pieno, al contrario, nella nostra radicata posizione e convinzione: il corso della lotta di classe in Italia, pur con i suoi tratti specifici, è inseparabile dal corso del capitalismo e della lotta di classe alla scala mondiale. Ciò rende l’internazionalismo una dimensione più che mai vitale dell’azione del movimento dei lavoratori. A maggior ragione per un’organizzazione politica comunista che intenda essere realmente all’avanguardia.
Data questa forte contrazione della produzione industriale, anche il sistema bancario italiano si è via via indebolito. Non solo perché Monte Paschi, la fu-terza banca italiana, è alla frutta. Anche perché nel frattempo è emerso quanto le mille banche locali di cui si narrava fossero sane e strettamente legate al ‘territorio’, da Etruria a Veneto Banca a Banca Marche e via dicendo, fossero in realtà infestate di avidissimi grassatori, liberi di frodare i ‘risparmiatori’/accumulatori locali, restando al sicuro riparo dalle protezioni legali e statali. Sicché pure sulla stampa mainstream si scoprono, a tempo scaduto, “i danni del localismo bancario, anacronistico e controproducente” (‘Corriere della sera’, 4 agosto). Le sole due grandi banche italiane rimaste in campo, Intesa e Unicredit, temono le conseguenze degli stress test europei. E significa forse qualcosa che Unicredit, la più esposta delle due, liquidato l’ad di nazionalità italiana, ha pensato bene di affidarsi a un ad francese, J.P. Mustier, come del resto le Generali, che hanno scelto come a.d. il gallico Philippe Donnet.
Negli ultimi anni si è registrato, ci sembra, un solo processo di centralizzazione del capitale nel perimetro del capitalismo italiano per opera di capitali ‘italiani’ (tale non si può più considerare il gruppo FCA, che anche formalmente ha spostato le sue sedi in Olanda e in Gran Bretagna e ha la quotazione principale delle proprie azioni a Wall Street): è quello che ha riguardato le utility, le imprese locali fornitrici di metano, che avevano raggiunto lo spropositato numero di 320, e ora si vanno riducendo verso la prefissata soglia di una ventina. Indicativo dell’indebolimento degli storici poteri forti del capitalismo nazionale, i soli capaci di portare avanti un processo di centralizzazione endogena, è il fatto che due mammasantissima intoccabili del gotha finanziario italiano, i fratelli Franco e Carlo De Benedetti, siano stati di recente condannati a 5 anni di carcere (che ovviamente non sconteranno mai) per le morti da amianto all’Olivetti di Ivrea.
Il governo Renzi è una garanzia per i capitalisti, ma…
Dunque, in quanto amministratore delegato/manager del ‘capitalismo nazionale’, il governo Renzi, ad onta delle ricorrenti sbruffonate, non ha invertito il trend di declino dell’azienda-Italia rispetto ai governi che l’hanno preceduto. Renzi gira per il mondo a vendere il ‘brand Italia’ sventolando le sue ‘riforme’, prima tra tutte l’infame Jobs Act, ma poche settimane fa il rapporto Unicredit sull’export italiano ha messo in luce come le aziende italiane continuino ad avere una scarsa penetrazione o siano quasi assenti nei ‘mercati-chiave del futuro’, a iniziare dalla Cina, almeno se si fa un raffronto con i paesi primi concorrenti dell’Italia. Ciò, benché la banda Renzi-Padoan abbia fatto in questi due anni una caterva di regali fiscali alle imprese (riassunti da S. Liviadotti su ‘L’Espresso’ del 15 dicembre 2015), creando altresì le precondizioni perché nel 2015 le indagini dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza sull’evasione fiscale di massa crollassero. Ulteriori passaggi di questa politica di sistematica incentivazione fiscale delle imprese sono in corso, se è vero che a Marghera si sta mettendo in piedi una zona franca da 90 ettari “per produzioni manifatturiere estero su estero, extra Unione europea” (‘Corriere del Veneto’, 19 luglio). Un indirizzo fedele, del resto, al proclama renziano di qualche tempo fa: “Il Pd non è più il partito delle tasse”. Delle tasse sulle imprese. Perché invece le imposte locali, tra quelle che gravano di più sulle spalle dei lavoratori, sono cresciute negli ultimi 5 anni fino al 300%, secondo la classica linea del federalismo fiscale reaganiano. Del resto, come stiano le cose in materia di fisco, lo testimonia ancora una volta il livello dei redditi medi accertati dallo stato nel 2015: i lavoratori dipendenti battono gli imprenditori per 20.520 euro a 18.280. L’Italia si conferma così l’unico paese al mondo in cui i proletari hanno redditi superiori a quelli degli accumulatori di capitale…
Se Renzi&C. hanno perso qualche punto nelle alte sfere finanziarie e imprenditoriali, come sembra da certe punzecchiature della ‘grande stampa’ o di Confindustria, è perché per questi pescecani i risultati di 2 anni e passa di potere semi-assoluto di questa cricca, o insieme di cricche, non sono del tutto soddisfacenti. Dai minimi del 2012 la redditività delle imprese è in risalita, compresa, forse per prima, quella della FCA. Tuttavia i portavoce del grande capitale pretendono ancora di più. L’ex della BCE Bini Smaghi, in vista di una possibile nuova (grande) recessione, chiede un’azione preventiva di forte taglio del debito statale, salito a inizio settembre a 2.343 miliardi di euro e 567 milioni, e nuovamente dichiarato insostenibile. L’ex-direttore del ‘Corriere’, De Bortoli, chiede l’abolizione della Tobin Tax, sebbene abbia prelevato dai forzieri dei grandi speculatori appena 450 milioni di euro. Il presidente di Confindustria Boccia pretende che Renzi&C. siano selettivi, cioè: non diano soldi ‘a pioggia’ ai pensionati o ai dipendenti statali, ma rafforzino gli incentivi alle imprese prorogando il superammortamento sugli investimenti in beni strumentali, potenziando il credito d’imposta sulla ricerca, assicurando incentivi fiscali alle banche se prestano ai piccoli-medi imprenditori, e quant’altro. A loro volta le grandi imprese di costruzione dall’insaziabile appetito, beneficiarie prime del cd. ‘sblocca Italia’, vogliono norme sugli appalti ancora meno vincolanti – il terremoto di Amatrice è arrivato al momento giusto per soddisfarli! E i boss dell’industria militare pressano per nuove commesse e nuove spese di stato, che non faranno debito insostenibile neppure formalmente, dal momento che in Italia, Francia e Germania i programmi per i nuovi sistemi di armi hi-tech verranno messi fuori dal ‘patto di stabilità’. Confindustria, poi, continua a strepitare perché il governo faccia la sua parte per la produttività del lavoro. Il che – in assenza di importanti investimenti produttivi – può significare una sola cosa: dare ancora addosso agli operai e ai salariati attraverso la massima subordinazione dei loro salari ai traguardi di produttività decisi dalle imprese (detassando solo la parte del salario legata alla produttività).
L’immagine propagandistica renziana di un’Italia che esce dal guado, che ce la fa, che riconquista posizioni nel mondo, che sta entrando in rampa di lancio, si poggia dunque su dati contraddittori o fasulli, e su incerte prospettive. Poiché gli effetti anti-proletari delle politiche del governo sono stati in questi due anni pesanti, doveva arrivare prima o poi anche la sanzione delle urne a mettere in luce la perdita di popolarità del guitto dilettante toscano a pro del suo presunto antagonista, il guitto professionista genovese. È puntualmente arrivata con le ultime amministrative, segnate anche da un forte astensionismo, e appare consistente. La politica dei bonus (i famosi 80 euro, i 500 euro per i giovani, il promesso bonus ai pensionati) non ha fatto breccia a fronte di una condizione lavorativa di massa che continua a deteriorarsi, della precarietà generalizzata, del costo crescente dei servizi sanitari e comunali, specie se si mette tutto ciò a confronto con i colossali regali fatti alle imprese con la decontribuzione prevista per il cd. contratto a tutele crescenti. Lo stesso calo dell’indice di disoccupazione dal 13% all’11,3%, Renzi non l’ha potuto sbandierare più di tanto, perché non appena si sono ridotte le decontribuzioni, c’è stato il crollo dei contratti a tempo indeterminato, e perché la qualità della nuova occupazione non gli consente di fare il gradasso. Nei due anni del suo governo la nuova forma ‘contrattuale’ che ha letteralmente sfondato è stato il voucher, il rapporto di lavoro che dà le minori garanzie ai salariati. Altro che contratto di lavoro ‘a tutele crescenti’! Grazie agli abusi sistematici sugli stagisti da un lato, sui richiedenti asilo dall’altro, ciò che è venuto avanti alla grande sotto l’accoppiata Renzi-Poletti è il lavoro pressoché interamente gratuito, di cui l’Expo milanese è stato il grande laboratorio internazionale nei paesi ricchi.
Del resto la gestione-Renzi può fregiarsi anche di altri record sociali che parlano chiaro sul segno di classe della sua politica. Anzitutto il record in materia di povertà assoluta che, a stare all’Istat, pur essendo rimasta stabile nel triennio 2013-15, ha coinvolto nel 2015 il 7,6% della popolazione a fronte del 6,8% del 2014. Sempre nel 2015 si è verificato il primo calo delle aspettative di vita dal lontano 1945 (che ci sia qualche nesso tra le due cose?), passate per i maschi da 80,3 a 80,1 e per le donne da 85 a 84,7 anni, mentre il tasso di natalità, sempre nel 2015, si collocava all’8 per mille, ultimo in Europa, con un tasso di variazione naturale della popolazione negativo del -2,7 per mille, altro record in Europa. Non sorprende, perciò, terzo record, che per la prima volta negli ultimi 90 anni la popolazione residente in Italia sia diminuita nel 2015 di 130.061 unità, quella di cittadinanza italiana di 141.777. Infine il 2015 è stato l’anno-record della nuova emigrazione italiana di inizio ventunesimo secolo che oltre i giovani del Sud, coinvolge anche disoccupati non proprio giovani del Nord – nel decennio 2006-2015 gli emigrati italiani all’estero sono cresciuti del 49%!
Insomma, una catena ininterrotta di bastonate ai lavoratori, intervallate da qualche mini-zuccherino, e di favori di lungo periodo accordati ai capitalisti. Quanto alle mezze classi, bisogna distinguere. Il governo ha confermato il semi-blocco del turn over nel pubblico impiego, stanziato pochi spiccioli per il rinnovo del contratto degli statali (dopo 7 anni di vuoto contrattuale), apportato tagli alla spesa e alle strutture sanitarie, varato linee di indirizzo per la ‘riforma’ della p.a. che prevedono, nei casi di ‘personale eccedente’, la mobilità obbligatoria nel raggio di 50 km, la riduzione del 20% dello stipendio, il de-mansionamento e il licenziamento. Ha legato alla produttività i futuri aumenti di stipendio, che andranno solo al 20% dei dipendenti, e previsto maggiori controlli automatici sulle assenze. Insomma, ha continuato i progressivi giri di vite contro la parte salariata delle classi medie inaugurati da Monti, che hanno solo sfiorato i piani alti della p.a., tanto al centro quanto localmente – di cui ha comunque accresciuto i poteri anche quando, rarissimamente, ne ha limato i guadagni diretti.
Non si può dire, invece, che Renzi&C. abbiano preso di mira con specifici provvedimenti la parte delle mezze classi composta di piccoli accumulatori. Tuttavia il privilegiare in maniera sistematica, come Renzi e tutti gli ultimi governi hanno fatto, gli interessi del grande capitale e delle imprese transnazionali, e il persistere della crisi industriale e bancaria hanno comunque falciato in questi anni un bel numero di ‘autonomi’, piccoli-piccolissimi imprenditori e commercianti (-550.000 dal 2007 al 2015). La cosa ci fa piacere, dal momento che, nel tempo, la riduzione di numero e di peso della massa dei piccoli accumulatori, che costituiscono il sostegno sociale di massa fondamentale del sistema capitalistico, può giovare alla nostra causa. Per ora, però, questa discesa sociale, con il rancore che produce negli ex-accumulatori l’essere ridotti al rango di proletari o giù di lì, sembra aver causato una forte perdita di consensi della destra di Forza Italia a favore dell’influenza leghista, assai più militante e capace, a differenza della gang berlusconiana, di dare un maggior respiro alla propria prospettiva attraverso il fronte europeo delle forze anti-UE e etno-nazionaliste. L’instabilità del quadro politico, non superata dall’arrivo di Renzi, è il risultato anche della debole presa che i residui poteri forti italiani, intrecciati simbioticamente con lo stato e il sistema bancario, hanno sulla moltitudine dei siur Brambilla. È un altro elemento ‘greco’ nella situazione italiana. L’espropriazione dei piccoli imprenditori da parte dei grossi capitali, italiani o stranieri, procede inesorabile e le classi medie, così pletoriche in Italia, si vanno assottigliando.
…gli equilibri politici restano instabili.
Nonostante il governo in carica duri da più di due anni, un evento raro nella storia politica italiana del secondo dopoguerra, i rapporti tra le forze politiche borghesi non appaiono al momento stabili. Questa relativa instabilità è dovuta, tra le altre cose, al processo di decomposizione delle forze politiche protagoniste della “seconda repubblica”. Alcune di esse sono letteralmente defunte (An, Udc). Il Pdl-Forza Italia, in crisi di identità politica, è lacerato da una guerra tra bande con il suo vecchio padrino sul malinconico viale del tramonto. La sua costola Ncd non ha saputo spiegare neppure a sé stessa perché è nata, mentre Scelta civica è stato un castello di carte crollato prima di essere costruito come il suo sgonfione Monti. Nella destra sembra al momento fallita l’opa lanciata sull’intero centro-destra dalla Lega di Salvini, per i famelici e inconciliabili appetiti delle burocrazie forzitaliote e della destra storica, ma sono deboli anche i tentativi dell’entourage del fu-cavaliere di ricomporre i cocci della vecchia coalizione di centro-destra. La radicalizzazione delle destre in atto in molti paesi europei, a cominciare dalla vicina Francia, può però rilanciare la pretesa di Salvini.
È normale che in un tale campo di macerie prevalga nettamente, tra le forze borghesi, il Pd, stretto intorno al suo nuovo “leader” incoronato tale nel 2013-2014 da banche e manager, assai prima che dal suo partito sempre meno partito. Ma è un trionfo dai piedi di argilla, sia perché neppure nel Pd mancano le spinte centrifughe, che sembrano anzi accentuarsi in vista del referendum; sia perché il Pd è sempre più un mero aggregato di lobbies e di combriccole di rampanti, in caduta verticale quanto a iscritti. Senza risalire al nonno-PCI che aveva nel 1955 2.090.006 iscritti, basterà ricordare che Ds e Margherita, i fondatori del Pd, avevano nel 2007 un milione di iscritti, poi divenuti 600.000 nel 2010, 500.000 nel 2011, precipitati a poco più di 100.000 a settembre 2014 (ora il Pd ne dichiara 300.000, ma sono in pochi a crederlo). Le radici del Pd nella società, anche nelle nuove generazioni a cui si rivolge con insistenza, sono molto esili, e stante la profondità di questa crisi, il suo rancidissimo blairismo a tempo scaduto non può galvanizzare la massa dei giovani precari e disoccupati senza futuro. Nel tempo la coalizione governativa si è indebolita per il logoramento della sua guida, lo spappolamento dei suoi alleati di centro-destra, il verminaio di bancarottieri e faccendieri ricattatori che stanno accorrendo in suo soccorso (dici Verdini, e hai detto tutto), che fa sempre più apparire la pretesa renziana di rottamare la ‘vecchia politica’ una clamorosa truffa.
In questo contesto di rottami galleggianti e di edifici appena edificati e già pieni di crepe (il ‘nuovo’ Pd renziano), ascende la meteora cinquestelle, il partito-non-partito che si giova, come ha scritto il ‘Financial Times’, di un programma che è un “groviglio di ingenuità, ambiguità e cinismo”. Questo consente ai grillini di raccattare simpatie e voti a destra e a sinistra, anche tra proletari privi di un minimo di coscienza di classe. Ma basta vedere la tipologia sociale dei sindaci eletti a Roma e a Torino, le frenetiche manovre di accreditamento interno e internazionale in corso da parte di Di Maio&Co. (il pellegrinaggio in Israele, gli incontri segreti con le lobbies finanziarie di Londra, etc.), e prestare ascolto al loro progetto di ‘fare a meno dei sindacati’, per capire in quale direzione quel groviglio sarà sciolto. E a breve. Del resto, da un po’ di tempo il ‘Corriere della sera’ aveva colto compiaciuto che al M5S stavano avvicinandosi “persone con profili sociali diversi rispetto all’inizio”, ovvero “bocconiani, pragmatici, vicini alle imprese”. Vi è stato in effetti un passaggio di testimone dai giovani lavoratori dipendenti e precari, più o meno ingenui, ‘protagonisti’ (apparenti) delle origini, a nuovi quadri ancora in formazione ma già solidamente ancorati all’ideologia e agli interessi della classe capitalistica. Cos’altro ci si poteva aspettare da un nuovo partito fondato e tenuto ferreamente in pugno dall’alto da due imprenditori e caratterizzato da un’ideologia in tutto e per tutto interna al capitalismo? Quanto rapidamente saranno delusi quegli ingenui che continuano a immaginare di avere trovato in Grillo e nei suoi Roma-boys degli ammazzasette dei grandi poteri! C’è da chiedersi, per contro, quale capacità di gestire gli interessi del capitalismo ‘nazionale’ avrà un’accolita di neofiti quale quella grillina, per quanto disposta sia, e lo è, ad assecondare i voleri dei grandi poteri mettendo rapidamente la sordina al suo presunto anti-americanismo, all’altrettanto presunto riformismo sociale (v. reddito minimo di cittadinanza), per enfatizzare invece la propria ‘idea’ di un ‘superamento’/azzeramento delle organizzazioni sindacali (uno dei cardini dell’ideologia e delle politiche neo-conservatrici). Lo spettacolo andato in scena con la giunta-Raggi, tutto oro per Renzi&Co., dà una prima risposta, e la confusione di Di Maio tra Venezuela e Cile ne dà, forse, una seconda…
Insomma, non è alle porte alcuna nuova formazione politica borghese in grado di candidarsi durevolmente alla guida dello stato e reggere saldo il timone in una navigazione tempestosa come quella che attende il capitalismo italiano e mondiale nei prossimi decenni, che saranno segnati da una catena di enormi tempeste sociali, politiche e militari. L’emersione improvvisa del movimento di Grillo non ha prodotto alcun effetto di ricomposizione del quadro politico. Anzi, a causa della sua inconsistenza e della sua affiliazione alle forze che sono per lo sfascio dell’Unione europea, ha accresciuto il disordine e le tendenze centrifughe pur agendo, cosa utile al sistema, da pompiere rispetto allo scontento sociale crescente. Un assetto politico stabile sostenuto da uno stabile blocco sociale è lontano. Essenzialmente per due ragioni: 1)il difficile compattamento del grande capitale intorno ad un polo che sia decisamente più forte di tutte le altre componenti – non c’è più la FIAT del ventesimo secolo, Bankitalia è stata svuotata di potere dalla BCE, per non dire di Mediobanca; 2)larga parte degli strati intermedi, accumulatori e burocratici, è, per una ragione o per l’altra, in stato di agitazione. Questo tuttavia non ferma l’attacco al proletariato, anzi l’incentiva. Al momento il solo, vero punto di forza della borghesia italiana è l’enorme debolezza del movimento proletario.
Vecchio, e sempre nuovo militarismo
Nonostante questo quadro di debolezze strutturali e di contraddizioni politiche interne, la classe capitalistica italiana non ha alcuna intenzione di mollare la sua presa né sul proletariato in attività qui, né sulle prede ‘esterne’, come prova la sua attiva partecipazione alle nuove aggressioni in atto alle popolazioni della Libia, dell’Iraq e della Siria per pretendere la propria parte di materie prime e di sangue umano nella spartizione neo-coloniale del Medio Oriente. Nelle ultime settimane è caduta la foglia di fico, ed è stata ammessa la presenza di truppe speciali italiane sui campi di battaglia medio-orientali, non solo in Libia. Squallida l’ipocrisia di tutti coloro che, i pentastellati in testa, fanno finta di non sapere di essere stati proprio loro ad attribuire a Renzi e ai futuri capi del governo il potere di disporre delle missioni militari all’estero secondo le regole tipiche dei servizi segreti, senza dover chiedere l’ok al Parlamento – su queste cose più che su qualsiasi altra si vota pro-forma, esclusivamente per confermare ciò che già è stato deciso fuori dal Parlamento. Nel frattempo l’Italia ha aumentato il suo contingente di occupazione in Afghanistan da 760 a 950 unità, su richiesta di Obama; sta assumendo compiti di combattimento più impegnativi dei precedenti; non si tira indietro dall’assedio propagandistico e militare alla Russia di Putin, nonostante le proteste di piazza degli agricoltori padani pesantemente danneggiati dal blocco dell’export agricolo verso la Russia. Di più: profittando del venir meno della Gran Bretagna, si è fatta promotrice con il duo Pinotti-Gentiloni di una “Schengen della difesa per rispondere al terrorismo”. Gli obiettivi reali? “Rafforzare la capacità operativa [dell’UE] nelle aree di crisi e nella lotta al terrorismo”, cioè nelle aggressioni imperialiste in corso ai lavoratori e ai popoli medio-orientali, e rafforzare l’industria militare europea. Con due differenti opzioni: o rimanere nell’ambito dei trattati o modificare i trattati per creare una forza europea multinazionale legata a USA e NATO e al tempo stesso autonoma (l’intervento, scritto per ‘Le Monde’, è su ‘la Repubblica’, l’11 agosto). La conferma solenne di questo rinnovato militarismo italiano si è avuta con la scelta di tenere l’incontro di Ventotene tra Merkel-Hollande-Renzi il 22 agosto sulla portaerei Garibaldi. Il rilancio dell’UE nel dopo-Brexit esige da tutti i suoi membri, specie i più forti, un maggiore impegno bellico, essendo venuto meno l’apporto britannico.
Due anni fa prevedevamo che dal suo indebolimento il capitalismo ‘nazionale’ sarebbe stato spinto ad accentuare il suo europeismo e ad intensificare i suoi attacchi alle classi lavoratrici, all’interno e all’esterno dei confini nazionali. Forse va solo precisato che l’accentuazione dell’europeismo non prevede, per Roma, alcuna presa di distanze dall’atlantismo, dagli Stati Uniti, dalla NATO. Anzi, secondo l’inveterata abitudine di tenere il piede in due staffe, la politica estera italiana si ingegna a mantenere una posizione di equilibrio tra le istanze europee e quelle yankee cavalcando insieme le une e le altre, sognando di poter sostituire Londra come interlocutore privilegiato di Washington nell’UE. I risultati ‘in chiaroscuro’ di questa politica estera sono stati commentati da ‘L’Espresso’ del 14 agosto, che contiene una nota interessante sull’Eni-‘seconda Farnesina’, portatore di interessi di sfruttamento energetico in Africa alternativi alla prospettiva di attingere alle riserve di petrolio e di gas della Russia (ciò su cui insiste, invece, la Germania della Merkel).
Quando parliamo di attacchi intensificati alle classi lavoratrici dentro e fuori i confini nazionali, non ci riferiamo solo alla nuova legislazione sul mercato del lavoro o alle nuove missioni militari anti-arabe. Ci riferiamo anche a decisioni che passano spesso troppo inosservate: alle nuove norme e alle nuove prassi in materia penale, alle forcaiole disposizioni in materia di legittima difesa all’interno delle case, alla depenalizzazione di reati concernenti antiriciclaggio e falsi in bilancio. E soprattutto alla enorme quantità di provvedimenti amministrativi, dalle espulsioni ai fogli di via, dai divieti di manifestare agli interventi di polizia nei pochi conflitti sindacali più accesi, ai sempre più frequenti pronunciamenti repressivi dei giudici, con cui gli apparati statali stanno via via restringendo, specie per i lavoratori immigrati, gli spazi per l’organizzazione delle lotte.
Per tirare le fila: il disordine politico nel campo nemico è grande, perfino crescente. Ma il governo Renzi e gli apparati statali proseguono sistematicamente la loro opera anti-proletaria con un seguito di ‘riforme’ formalizzate e non, dagli effetti di lungo periodo. Non si tratta solo del governo, si tratta dello stato. Guai a dimenticare quanto è mastodontico e articolato l’apparato statale democratico, e quanto esso, in campo repressivo e in campo amministrativo, continui a funzionare in permanenza, in modo automatico, per così dire, secondo i suoi organici meccanismi e criteri anti-proletari anche in presenza di governi deboli, traballanti o dimissionari. Né bisogna dimenticare che pur essendo frammentate e spaccate al proprio interno, le principali forze politiche borghesi sono tuttavia unite da fondamentali comuni: la difesa a spada tratta della proprietà privata dei mezzi di produzione, del mercato, del profitto, delle imprese, della competitività del sistema-Italia, dello stato come apparato della repressione di classe, l’adesione al campo occidentale e alla NATO, il rilancio del militarismo, la difesa dei privilegi del ‘ceto politico’ (formidabile il deputato di Sel che si lascia scappare: “noi deputati non siamo mica dei metalmeccanici…”), del meccanismo truffaldino delle elezioni, e così via. Per cui la contesa politica inter-borghese è pur sempre una contesa tra soggetti tra loro affini.
Sul referendum
Nell’opera e nel destino del governo Renzi ha indubbiamente un’importanza speciale il referendum di autunno. La ha anche per il padronato schierato attivamente per il sì con tutto il suo strumentario di tv, giornali, altri media, strutture universitarie, etc. La mobilitazione è forte, segno che questa riforma costituzionale gli preme, e molto. La ragione l’ha espressa in modo chiarissimo uno studio della J.P. Morgan del 2013 (la citazione è lunga, ma vale la pena leggerla attentamente):
« I sistemi politici della periferia [dell’Europa] sono stati costruiti a seguito delle dittature, e sono stati plasmati da quell’esperienza. Le Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che i partiti di sinistra avevano guadagnato dopo la sconfitta del fascismo. I sistemi politici di questi paesi periferici mostrano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli; organi centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; sistemi di costruzione del consenso che favoriscono il clientelismo politico; e il diritto di protestare se ci sono cambiamenti indesiderati allo status quo politico. I problemi di questa eredità politica sono stati evidenziati dalla crisi. I paesi di questa area hanno avuto solo un parziale successo nella implementazione di riforme fiscali ed economiche, con i governi bloccati dalle Costituzioni (Portogallo), dalle potenti regioni (Spagna), e dall’ascesa di partiti populisti (Italia e Grecia). Vi è ora un crescente riconoscimento della portata di questo problema, sia in centro che in periferia. Il cambiamento sta per cominciare. La Spagna ha preso provvedimenti per affrontare alcune delle contraddizioni degli assetti post-franchisti attraverso la riforma dello scorso anno della legislazione che consente di intensificare la sorveglianza fiscale sulle regioni. Ma fuori dalla Spagna poco è accaduto finora. Il test chiave per il prossimo anno sarà in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità di impegnarsi in significative riforme politiche. »
Più espliciti di così! Le vecchie costituzioni post-belliche di Italia, Grecia, Spagna, Portogallo non potevano non risentire del peso determinante della resistenza, attiva e passiva, dei proletari nella caduta dei rispettivi regimi fascisti. Nulla di socialista c’è in esse, già per il solo elementarissimo fatto che tutte riconoscono la proprietà privata dei mezzi di produzione come cardine della vita economico-sociale. Ma il loro difetto, per J.P. Morgan&Co., è nel contenere un”eccessiva’ garanzia di principio per i diritti dei proletari, un ‘eccessivo’ riconoscimento della loro facoltà di lottare contro i ‘cambiamenti indesiderati’, e nel prevedere un potere esecutivo-repressivo troppo debole, troppo imbrigliato da controlli e limiti. L’avvento della crisi sistemica del capitalismo ha reso tutto ciò insostenibile. Ci vogliono nuove costituzioni quanto più integralmente possibile ‘anti-socialiste’, che consacrino nella ‘norma delle norme’ il primato assoluto e incondizionato dei meccanismi del mercato, dell’impresa, del profitto, di modo che tale primato risulti incontestabile anzitutto dai cittadini-lavoratori, poi anche da magistrati e amministratori con qualche residuo scrupolo. Il primo passaggio-chiave di questa riscrittura è avvenuto nel 2011 con l’inserimento nelle costituzioni del Fiscal Compact, il solenne impegno costituzionale dello stato italiano all’obbligo del pareggio nel suo bilancio, ovvero al taglio della spesa sociale a tempo indeterminato – con buona pace dei diritti sociali sanciti nella prima parte della Costituzione, che tanto entusiasmano i suoi adoratori. Non è bastato, però. I poteri forti pretendono una più ampia riscrittura del testo del 1947 per sancire una maggiore centralizzazione del potere decisionale all’interno dello stato, in particolare nelle mani del capo del governo (che è poi a sua volta nelle mani di altri più potenti di lui) e rendere l’apparato del dominio di classe borghese più stabile, efficiente e rapido, all’interno e all’esterno. I padroni se ne infischiano delle leggi del loro stesso ordine sociale, ma nello stesso tempo hanno bisogno della loro legittimazione. La cancellazione dell’art. 18 l’avevano di fatto resa inutile grazie alla miriade di altre norme introdotte in anni recenti che l’avevano svuotato, eppure hanno insistito fino alla fine per la sua cancellazione formale col Jobs Act. Un’analoga vicenda riguarda ora la Costituzione.
La gran parte delle critiche da sinistra al referendum insiste sull’esautoramento del Parlamento e sul nesso tra questa riforma istituzionale e il bonapartismo di Renzi, il suo disprezzo per la democrazia, la sua vanagloria, e sul nesso tra il referendum e l’Italicum (la legge elettorale maggioritaria che penalizza i piccoli partiti). Sono critiche limitate, interne alla logica istituzionale-elettorale, e spesso passatiste, piene di rimpianto per un tempo che è archiviato per sempre e non ha senso rimpiangere. È patetico aggrapparsi a una Costituzione la cui vigenza non ha impedito neppure uno dei crimini antiproletari e anti-sociali compiuti dalla classe dominante in questi 70 anni: non una guerra di numero; non l’olocausto dei più di 100.000 proletari caduti sul lavoro; non i femminicidi in serie, né l’organizzazione su larga scala della prostituzione; non la cancellazione dello Statuto dei lavoratori, né la Bossi-Fini; non l’esplosione di disoccupazione e precarietà; non la pratica cancellazione dei contratti nazionali; non la speculazione edilizia, né i dissesti idro-geologici; non l’espansione delle mafie illegali e dei loro traffici: nulla di nulla. Ciò che si tratta di afferrare, e denunciare davanti alla classe lavoratrice perché ne prenda atto e reagisca, è che la modifica della Costituzione voluta da Renzi e dai suoi sponsor fa parte di un gigantesco processo di ristrutturazione istituzionale in atto a livello globale, iniziato da alcuni decenni in parallelo con le politiche economiche ‘neo-liberiste’, che ha due obiettivi fondamentali tra loro legati, entrambi radicalmente anti-proletari:
1. indebolire e, se possibile, cancellare ogni residuo del ‘vecchio diritto del lavoro’ e del ‘vecchio’ potere di interdizione, o almeno di contrattazione, delle organizzazioni dei lavoratori;
2. introdurre nuove modalità di gestione del potere caratterizzate dalla legittimazione dell’impresa come attore istituzionale, in grado di gestire direttamente il potere pubblico senza l’intermediazione dei partiti e dei governi (la famigerata governance!), da forme para-normative nell’adozione delle decisioni politiche (circolari, direttive e decreti ministeriali al posto dei provvedimenti legislativi) e da modalità just-in-time di tali decisioni, simili a quelle in uso nei consigli di amministrazione. Va pure ristretto il più possibile il potere di controllo della magistratura che rende più incerto e lento il funzionamento di questo meccanismo, già di per sè complesso per i diversi livelli decisionali e per le pressioni conflittuali dei grandi poteri economici.
Entrambi questi obiettivi sono dettati dalla necessità di forzare di continuo, senza altra regola che fare presto, ciò che può frenare la valorizzazione del capitale, entrato in una crisi la cui enorme profondità è ben presente ai vertici del capitale globale. Perché la forma, la norma scritta, conta per il capitale? Per il capitale, per il suo funzionamento fluido e regolare, la forma, la norma è ciò che garantisce la tranquillità del suo moto perpetuo. Sin dalla sua nascita il diritto borghese si fonda sulla gigantesca finzione dell’uguaglianza tra i contraenti: il contratto di compravendita della forza-lavoro è infatti uno dei mattoni più importanti del castello/carcere capitalistico. Senza la finzione dell’uguaglianza tra i contraenti, sancita dalla norma, il capitale non conosce stabilità, elemento di cui ha invece estremo bisogno, proprio per la sua altissima mobilità specie in tempi di ipertrofia del capitale finanziario.
A partire da questa considerazione, si può comprendere l’urgenza che ha il capitale nazionale, ora in grave difficoltà, di dotarsi di una nuova costituzione, di una nuova norma fondamentale, che sia in grado di legittimare i contratti tipici dell’era dell’”accumulazione flessibile” (contratti a tempo, stage, voucher, contratti a zero ore, etc.), e attraverso di essi la generale svalorizzazione del lavoro vivo. E, nel contempo, costruire un’architettura istituzionale in grado di garantire una sua coerenza e un suo sviluppo all’altezza di questi tempi di crisi e di sconvolgimenti internazionali. Per realizzare tutto ciò, c’è bisogno di cancellare la vecchia struttura istituzionale e costruirne una nuova dove l’impresa assuma il più possibile funzioni di gestione pubblica del potere e le modalità di decisione degli organi istituzionali, a partire dal governo, siano ‘snelle’ e just in time come nel dispotismo aziendale.
Insieme al capitale nazionale, è il capitale globale che esige nuove forme politiche fortemente dispotiche. Se l’ambasciatore Usa, la Merkel, Moody’s, etc. si sono espressi apertamente per il sì, non è per errore o per degli indebiti sconfinamenti – Renzi è solo un elemento di passaggio in questa storia, il portalettere di tali comandi. Il che non riduce in alcun modo la necessità di propagandare il NO di classe al suo appello, anzi l’esalta perché va contro anche i suoi mandanti. Un NO che riaffermi con forza le necessità vitali dei lavoratori, a cominciare dal ‘diritto di protestare se ci sono cambiamenti indesiderati allo status quo politico’, senza nessun diaframma tra il piano politico e quello economico-sociale. Un NO cosciente del fatto che per la classe sfruttata il vero e unico baluardo difensivo davanti all’aggressione capitalistica e al suo rampante autoritarismo, non può essere la Costituzione del 1947, e meno ancora una differente normativa elettorale. Può essere solo la ripresa in grande delle lotte economiche e, in particolare, politiche e dell’organizzazione di classe. Un NO nettamente demarcato da tutta la fauna degli oppositori di Renzi ancor più reazionari di lui, se possibile. Non sarà facile portare questa propaganda tra gli operai e i lavoratori perché negli scorsi decenni è avvenuto il progressivo allontanamento dei proletari dall’agone politico; fenomeno che è a doppio taglio e che solo degli ingenui arruffoni possono leggere in modo lineare come una progressiva crescita di autonomia della classe dalle istituzioni democratiche del capitale. Bisogna farlo, però, perché la questione riguarda direttamente la classe lavoratrice, e l’indifferenza in materia politica è stata da sempre letale per il proletariato. Veniamo ora, appunto, allo stato della classe lavoratrice in Italia.
Come stanno le cose nel nostro campo?
Perché una risposta di lotta finora così debole?
Davanti a questa offensiva generale e prolungata della classe capitalistica, c’è da chiedersi come mai la risposta dei proletari è stata fino ad oggi così modesta; e come mai le pochissime lotte degne di questo nome siano rimaste isolate – pensiamo agli scioperi dei facchini nella logistica, alle lotte in Val di Susa o in Campania contro il biocidio, allo sciopero degli autoferrotranvieri di Genova, alla lotta contro il 6×6 alla Fincantieri di Marghera, ad alcuni episodi di rivolta degli immigrati nelle campagne del Sud o di lotta per la casa, e poco altro. Le ragioni sono molteplici, di lungo periodo, profonde, e vanno indagate a pieno se si vuol avere le idee chiare su dove è realmente il movimento proletario in Italia, e da dove si riparte. Ogni semplificazione di questa ricerca, e tanto più la sua riduzione al solo fattore soggettivo ristretto (la mancanza di adeguata energia e teoria rivoluzionaria negli stessi limitati organismi di militanti comunisti oggi esistenti – vero, ma anche questo andrebbe spiegato), non ci aiuta affatto nel definire e assolvere il compito che più ci preme: comefavorire, nella misura in cui lo si può fare, la rinascita del movimento proletario, e come prepararci ad essa. Proviamo qui a schizzare un ragionamento che non ha alcuna pretesa di essere esauriente, mira solo a mettere alcune questioni sul tappeto. Saranno indispensabili seri confronti e nuove inchieste ‘sul campo’, sulle condizioni di lavoro e sui rapporti sociali vissuti dai lavoratori, per arrivare a risposte più complete e solide di quelle oggi possibili. Riconoscere le nostre attuali gravi insufficienze di conoscenza in materia è la premessa, il punto di partenza per riuscire a superarle con un lavoro supplementare, collettivo, di indagine.
A scanso di equivoci, poi, è il caso di precisare che per noi rilevare senza giri di parole lo stato di grave debolezza e sbandamento della classe lavoratrice in Italia, la sua attuale inesistenza politica, non ha nulla a che vedere con le ritornanti tesi sulla scomparsa del proletariato come soggetto storico rivoluzionario, e la sua sostituzione con soggetti rivoluzionari inventati a tavolino da autori di fantascienza (le mitiche ‘partite Iva’, tanto per citare una sola delle cazzate messe in circolazione dagli epigoni negriani) o con nuove, in realtà decrepite, ipotesi di blocchi popolari interclassisti di impronta nazional-comunista, cioè anti-comunista. Per quanto lontano sia l’approdo rivoluzionario, e lo è, l’esperienza storica e l’analisi dei processi sociali contemporanei attestano che esclusivamente la classe internazionale sfruttata dei lavoratori salariati, organizzata in partito, in una nuova più forte e mondializzata Internazionale, dotata del suo integrale programma comunista e di una strategia adeguata allo scopo, potrà guidare il terzo, speriamo definitivo, assalto al cielo, insieme all’enorme massa dei suoi alleati semi-proletari, avendo ragione del mostro capitalista-imperialista. Punto e a capo.
Per noi fare un quadro il più esatto possibile dello stato della classe serve esclusivamente, e serve davvero, a comprendere dove siamo e da dove si riparte per definire meglio il nostro che fare di piccoli nuclei di comunisti intenzionati a favorire la risalita dall’abisso del movimento proletario. Il grosso limite da riconoscere è che ad oggi ci sono più chiari i fattoristrutturali che hanno provocato questo indebolimento. Sono invece meno chiare le implicazioni, i riflessi ideologici e politici che le trasformazioni avvenute nella divisione internazionale del lavoro, nel mercato del lavoro, nella organizzazione del lavoro, hanno avuto sulla coscienza di classe, sulle menti e i sentimenti dei lavoratori salariati, sulla loro organizzazione come classe, sulla loro autonomia di classe. C’è molto lavoro di indagine da fare a riguardo, e quasi nulla deve essere dato per scontato. Salvo una cosa: per tutto ciò che attiene alla conoscenza della teoria e della storia del movimento proletario dalle sue origini ad oggi si tratta di ricominciare da zero. Infatti, quanto meno in Italia e in Europa, l’offensiva ideologico-propagandistica che ha segnato l’epoca neo-liberista e il processo di auto-negazione e di auto-affondamento del vecchio movimento operaio di matrice stalinista e social-democratica hanno letteralmente cancellato ogni serio riferimento ai fondamenti del marxismo rivoluzionario: non solo nella grande massa dei proletari, anche in un buon numero dei militanti più attivi a corto di conoscenza, probabilmente, perfino del Manifesto del partito comunista. Con la cancellazione del bagaglio teorico-ideologico di classe è avvenuta anche, forse in modo non altrettanto completo, la rimozione delle più importanti tradizioni ed esperienze di lotta compiute dalla classe. Sicché si tratta, per molti versi, di reimparare a pensare come classe per sé, e insieme di reimparare a lottare. Questo almeno in Italia, e in linea generale. Proviamo ora ad articolare, per quanto possibile, questo giudizio.
La ragione strutturale fondamentale della stasi delle lotte è in una serie di processi concatenati che hanno fortemente indebolito il nucleo centrale della classe operaia in Italia, quello che dalla fine dell’800 fino agli anni ’70 del secolo scorso è stato il fulcro di tutti i più importanti cicli di lotta, la linfa vitale tanto del Pcd’I rivoluzionario quanto del Pci riformista. Anzitutto lo smantellamento o il semi-smantellamento dei grandi poli industriali storici: Torino, Milano, Genova, Porto Marghera, Bagnoli. L’effetto negativo di questa de-strutturazione sull’intero proletariato industriale è stato aggravato dalla crescente concorrenza diretta dei lavoratori dei paesi di giovane capitalismo e dalla presenza di una massa enorme di disoccupati e precari in cerca di lavoro, autoctoni e immigrati. La combinazione di questi tre fattori ha determinato un vero e proprio cambio d’epoca: alla metà degli anni ’70, nello stesso periodo in cui è partita la liquidazione dei grandi poli industriali, hanno preso a crescere esponenzialmente disoccupazione e precarietà e l’Italia è divenuta paese di immigrazione, è partita dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna una sistematica offensiva ideologico-politica anti-proletaria di enorme portata in atto ormai da 40 anni, il che configura una vera e propria ‘era’, a cui è stato dato il nome di neo-liberista. La classe capitalistica ha compreso in anticipo e più a fondo della classe lavoratrice questa svolta, anche perché ha voluto determinarla.
Nel secondo dopoguerra, grazie allo sviluppo economico, al duro lavoro e alle lotte – oltre che, non va dimenticato, ai sovra-profitti imperialisti lucrati dal ‘nostro’ capitalismo e caduti come gocce di miele anche sulle tavole delle famiglie operaie – due, tre generazioni di proletari sono cresciute nella certezza di un miglioramento progressivo della propria condizione, riuscendo anche, in molti casi, a mettere da parte qualche modesta riserva, a iniziare dall’accesso alla casa di proprietà. Da quando il vento ha mutato direzione, specie i lavoratori più avanti negli anni sono disorientati. Continua però a vivere in molti di loro, per quanto sempre più stancamente, l’illusione che si tratti di una parentesi, più lunga e dura del previsto, destinata alla fine ad essere superata se i lavoratori accetteranno di farsi carico delle difficoltà delle imprese, frenando le proprie rivendicazioni e sopportando i sacrifici necessari. Questo loro ‘punto di vista’ pesa sull’insieme del movimento di classe perché quella più avanti negli anni è la parte più politicizzata e sindacalizzata dei proletari.
Questa illusione ‘spontanea’, prodotta dal lungo ciclo affluente del dopoguerra quando per un certo numero di anni si è stati vicini alla ‘piena occupazione’, è alimentata con consumata professionalità dagli apparati piddini/sellini e sindacali, che sulla possibilità di un ritorno alla situazione precedente e di una ripartenza dell’accumulazione, rimangono più ottimisti dei capitalisti. Questa burocrazia politica e sindacale irriducibilmente imborghesita, nazionalista, legalista, lealista fino al midollo, ha dato un contributo essenziale nel paralizzare la risposta dei lavoratori, nel non consentire al loro scontento, al loro malessere di trasformarsi in significative azioni di lotta. Il governo Monti ha usufruito di una totale tregua sindacale, pur avendo letteralmente macellato diritti e garanzie operaie più di ogni esecutivo precedente. Così il governo Letta jr.-Berlusconi, che ne ha seguito le orme, riuscendo a peggiorare la legge Fornero. E poi il governo Renzi, che è stato ed è lasciato libero di sferrare altri attacchi micidiali a quel che resta del vecchio diritto del lavoro.
La presa e il prestigio della burocrazia politica di sinistra sui lavoratori è andata negli scorsi decenni decrescendo. Prima la crisi-trasformazione del Pci-Pds-Ds, poi quella di Rifondazione hanno fatto sì che nel decennio che va dalle giornate di Genova 2001 all’autunno 2011, siano state la Cgil e la Fiom a catalizzare le preoccupazioni e il malcontento dei lavoratori per il piano inclinato su cui stava slittando la loro condizione. In quel decennio Cgil e Fiom hanno svolto un ruolo di supplenza della tradizionale rappresentanza politica della parte più attiva della classe operaia. Ma lungi dall’organizzarla e potenziarla, hanno in larga parte dispersoquel tanto di volontà di reazione e di lotta presente in quanti si sono rivolti a loro, con un effetto depressivo tangibile. Diciamo ‘quel tanto‘ perché non si deve esagerare nel vedere un radicale scarto tra il bonzume della sinistra di palazzo e dei tre sindacati, pronto a ogni tipo di svendita, e la massa degli operai e dei salariati; se questo scarto fosse, al momento, così netto come in qualche analisi si ipotizza, non staremmo qui a scervellarci sui perché siamo ai livelli di scioperi e di conflittualità sociale più bassi dagli anni ’50 del novecento.
Il fatto che dagli anni ’90 in poi una buona quota del voto operaio e proletario, specie quello delle nuove generazioni, si sia orientato verso destra, Lega e Forza Italia, dà la misura di quanto ampio e profondo sia il disorientamento di milioni di proletari/e. Il disorientamento, o cattivo orientamento, riguarda in modo particolare le nuove generazioni di precari, de-politicizzate o politicizzate nel segno dell’ideologia neo-liberista – che, però stanno sperimentando sulla propria pelle il peso di un mercato del lavoro e di un’organizzazione capitalistica del lavoro privi di qualsiasi freno. Questo disorientamento viene da lontano, dalla lunghissima opera di nazionalizzazione della classe operaia compiuta dal Pci nel secondo dopoguerra, a cui spianò il terreno in campo internazionale la vittoria dello stalinismo sul bolscevismo e in Italia la svolta gramsciana all’interno del Pcd’I. Dopo una intossicazione nazionalista, aziendalista, individualista durata svariati decenni, che impedisce oggi perfino agli elementi più combattivi di far risuonare qui le lotte che si sviluppano in altre parti del mondo, anche molto vicine (Grecia, Francia…), sarebbe ingenuo immaginarsi una facile risalita.
[In queste note che riprendono in parte quanto scritto nel n. 2 del “Cuneo rosso”, abbiamo accennato a un certo scollamento tra le generazioni proletarie più anziane, legate alle vecchie strutture del movimento operaio, e le generazioni più giovani, dovuto alla diversità delle rispettive esperienze. Il primo vistoso segno di scollamento tra apparati politico-sindacali del vecchio movimento operaio e giovani precari si è avuto nella grande mobilitazione del 15 ottobre 2011 a Roma; ma se è bastata l’abile amplificazione delle azioni dei ‘black bloc’ a disperdere quel potenziale di lotta, vuol dire che la situazione doveva ancora maturare, tra i giovani e tra i meno giovani. Un secondo segno di scollamento si è avuto nelle tornate elettorali degli ultimi anni con la crescita dell’astensione e il voto ai cinquestelle. In quel voto più che l’adesione al programma grillino, tutt’altro che concentrato sulle tematiche operaie e del lavoro, si è espresso il disagio, lo scontento, la rabbia di molti giovani proletari precari nei confronti dello stato di cose attuale e dell’intero establishment – politici corrotti, banchieri, grandi manager, capi dell’Europa messi tutti nello stesso mazzo, e a ragione. Sentimenti piuttosto blandi, largamente misti a sfiducia, che per ora si sono espressi in una nuova delega elettorale e politica che è in continuità con la linea del minimo sforzo. Forse, sul piano soggettivo, è proprio questo il punto di contatto tra le diverse generazioni: cercare di difendere ciò che si ha, o di ‘cavarsela’ nell’attuale giungla, con poco sforzo, senza mettersi in gioco in prima persona.]
Alcune linee di divisione nella classe
Andrebbero analizzate attentamente anche altre linee di divisione, se non di frattura, presenti nella attuale composizione di classe.
La prima è quella tra stabili e precari, che solo in parte coincide con la divisione tra generazioni. Ormai non c’è un luogo di lavoro, dalle fabbriche agli agriturismi, in cui non lavorino fianco a fianco salariati relativamente stabili e precari a tempo, più o meno giovani. Questo crea un’oggettiva gerarchia di posizioni che ostacola la solidarietà elementare tra sfruttati che lavorano spalla a spalla, assicurando ai dipendenti stabili qualche misera ‘compensazione’ per i crescenti carichi di lavoro e i soprusi (differenziali) attuati dai padroni. Talvolta dà loro la possibilità di scaricare parte delle incombenze più sgradite su chi sta sotto, e l’obiettivo di un nuovo contratto a termine, foss’anche di stage, se lo deve conquistare dando prova della massima ‘disponibilità’. L’enorme responsabilità degli apparati sindacali per non avere dato alcuna battaglia contro il Jobs Act è proporzionale alle conseguenze sociali e politiche di lungo periodo di questo micidiale insieme di norme. Il Jobs Act ha galvanizzato i capitalisti di tutte le taglie, esaltato la loro pretesa di poter succhiare il sangue dei ‘propri’ sottoposti senza limiti di sorta, dando il via libera a una vera e propria polverizzazione dei rapporti di lavoro e a forme legali e illegali di lavoro semi-gratuito.
Un’altra importante linea di divisione o frattura nella nostra classe è quella tra proletari autoctoni e immigrati, alimentata dalla struttura razzista del mercato del lavoro (ai proletari immigrati spettano sistematicamente i lavori più pesanti, nocivi, pericolosi, meno pagati), da una formidabile macchina propagandistica attiva h24, da un sistema di discriminazioni istituzionali appositamente costruito, la cui efficacia cresce nella crisi – su migliaia di immigrati pende la tagliola della Bossi-Fini, con la perdita del permesso di soggiorno se si rimane disoccupati per più di un anno.
Una divisione strutturale è anche quella che differenzia la condizione degli operai/proletari delle grandi e medie imprese da quella degli operai/proletari delle piccole/piccolissime imprese, e verrà accentuata dallo svuotamento quasi totale dei contratti nazionali, che con tutti i loro limiti sono stati un elemento unificante, in favore della cosiddetta contrattazione aziendale e del cosiddetto welfare aziendale. Poiché l’80% dei proletari in Italia è escluso dalla contrattazione aziendale, questo solco rischia di allargarsi, specie in quei settori e imprese che continuano, nonostante tutto, a marciare.
A questa antica linea di divisione è venuta a sovrapporsi e intrecciarsi tanto nell’industria quanto in molti ambiti dei ‘servizi’ l’espansione a macchia d’olio, con una velocità crescente, del sistema degli appalti e dei sub-appalti. Di questo sistema fanno parte integrante un groviglio, una vera miriade di cooperative con un totale di 1.300.000 dipendenti, diventate, come insieme, talmente potenti da occupare un posto di rilievo nel governo con il loro capo, Poletti, traslocato al ministero del lavoro per proteggere da lì il loro interesse allo sfruttamento illimitato della ‘propria’ forza-lavoro, sia immigrata che autoctona.
Nel contesto delle trasformazioni fin qui richiamate, altrettante difficoltà per l’unità della classe lavoratrice sono derivate dal nuovo acutizzarsi della storica disuguaglianza di sviluppo capitalistico tra Nord e Sud, con la progressiva ripresa dell’emigrazione interna e l’indebolimento dei fili unitari che una relativa industrializzazione del Sud partita negli anni ’50 per mano dell’industria di stato, con una coda, poi, di quella privata, e il lascito significativo degli anni del ’68 avevano gettato. [Ecco uno dei molti temi da sviluppare a fondo, a partire dall’interrogativo: cosa è oggi il Sud per il capitalismo italiano e globale in termini di economia, di esperimenti politici, di funzione strategica sul piano militare e di polizia? che cosa può essere per noi?, attraverso una compiuta riflessione sulle lotte di fabbrica, le lotte ecologiche, le rivolte e le lotte bracciantili, i movimenti anti-militaristi, le lotte dei disoccupati, etc.]
Dunque è con lo scompaginamento strutturale delle proprie fila che il movimento proletario deve fare anzitutto i conti. Deve farli, però, anche con un sentimento diffuso di sfiducianell’azione collettiva, nella lotta, nella possibilità di fermare e invertire con la lotta la deriva attuale. Questo sentimento di sfiducia – che nei settori più arretrati della classe lavoratrice può presentarsi perfino sotto forma di paura della lotta, paura di perdere, se si lotta ‘troppo’, quel po’ che si ha -, viene rafforzato dal modo di procedere degli apparati di Cgil-Cisl-Uil che restano, per una forza d’inerzia decrescente ma non trascurabile, i centri da cui molti lavoratori si aspettano tuttora, in modo sempre più passivo e disilluso, segnali di riscossa.
Negli ultimi anni Cgil-Cisl-Uil hanno più volte ventilato, a parole, una contestazione del padronato e del governo che è nei fatti sistematicamente mancata, creando aspettative che sono andate in maniera altrettanto sistematica deluse, specie quando di mezzo ci sono state delle lotte. E il modo d’agire della Fiom di Landini, a iniziare dalle fabbriche FCA, per proseguire con Fincantieri e tutto il resto, contratto dei metalmeccanici incluso, si è via via allineato a quello delle confederazioni. Negli ultimi anni non sono mancati del tutto gli scioperi, anche riusciti; sono mancati pressoché totalmente, invece, i risultati attesi. Per cui paradossalmente le blande, occasionali azioni di lotta a cui gli operai hanno preso parte sono servite in fin dei conti a confermare che la lotta non paga. Ed in effetti oggi, per la profondità e l’acutezza dell’attacco del capitale, la lotta ordinaria, e tanto meno la lotta data senza alcuna convinzione, non può pagare.
È questo un primo, importante riflesso della svolta epocale che la grande massa degli operai non ha compreso, di cui ignora al momento le cause di fondo. Solo una ripresa in grande delle lotte, delle lotte politiche almeno quanto di quelle economiche, e dell’auto-organizzazione delle lotte (auto-organizzazione di cui, al momento, abbiamo un esempio significativo in Italia solo nella logistica) potrà favorire alla scala di massa la presa d’atto di questo cambio d’epoca, e del fatto che la riscossa operaia e proletaria non può in alcun modo passare per le vecchie strutture e le vecchie politiche bancarottiere di ciò che residua della sinistra storica e dei sindacati istituzionali. Il ritorno in grande della lotta sarà la migliore delle scuole per la classe lavoratrice: ecco perché non sarà mai vano preconizzarlo.
Gli effetti della precarietà prolungata nel tempo
A ciò che abbiamo già detto sui fattori che stanno ostacolando lo sviluppo delle lotte, aggiungiamo qualcosa sugli effetti di una prolungata fase di precarizzazione dei rapporti di lavoro – sono passati vent’anni, infatti, dai primi provvedimenti sul lavoro precario targati Treu – anzitutto sui proletari più giovani.
[Treu, ministro del governo Prodi… Un ragionamento articolato meriterebbe la sinistra esperienza dei governi di ‘centro-sinistra’, a iniziare almeno da quello Amato-1992, per evidenziare il ruolo decisivo che hanno svolto nell’ultimo quarto di secolo, volta a volta, per scatenare l’attacco alle classi lavoratrici, all’interno e all’estero (v. D’Alema, con la guerra del 1999 ai popoli jugoslavi) e/o per attenuarlo momentaneamente con alcuni accomodamenti minori, onde farne passare comunque la sostanza. Verrebbe così in evidenza anche il ruolo smobilitante delle forze della classe svolto in modo collaterale rispetto ad essi, o al loro interno, da Rifondazione comunista.]
L’esperienza della precarietà e del continuo, obbligato spostarsi da un luogo di lavoro all’altro, da un settore lavorativo all’altro, lo sballottamento dal lavoro all’attesa di lavoro, da un’occupazione precaria all’altra, hanno ostacolato il formarsi sui luoghi di lavoro di un senso di appartenenza collettiva. Il processo di messa in concorrenza di tutti con tutti ha fatto in questi decenni un salto di qualità, creando, insieme con la coazione a vedersela da soli, un inevitabile riflesso individualistico di massa. Le conseguenze psicologiche di questa situazione sui singoli li hanno spesso portati, con più o meno sofferenza, ad accettare qualsiasi condizione di lavoro. Altrettanto gravi le conseguenze politiche, in quanto il ricorso all’organizzazione collettiva è divenuto molto più complicato. Pertanto al salto di qualità della precarizzazione ha corrisposto la disorganizzazione delle nuove generazioni di lavoratori abbandonate a sé stesse, salvo concerti del 1° maggio, anche dall’inazione delle grosse strutture sindacali, che si sono sempre più limitate alla difesa (perdente) della parte ancora relativamente stabile della classe lavoratrice.
Rilevare e oggettivare queste difficoltà serve a chiederci come e quando potranno essere superate. Un indizio ci viene dall’esperienza francese, un altro da fatti italiani, e non solo. L’esperienza francese dice che nell’ultimo decennio la lotta contro il CPE (contratto di primo impiego), gli stage e altre forme di estorsione del lavoro giovanile può avere una sua base di organizzazione assai più efficace nelle scuole superiori, luoghi comunque di aggregazione, che nei singoli posti di lavoro. Gli avvenimenti italiani hanno detto, invece, che sono i momenti di protesta più generali, come il 15 ottobre 2011 o in occasione dell’Expo, quelli in cui è maggiormente possibile esprimere la rabbia accumulata nel corso di un’esperienza che per tanti, oltre che di precarietà e super-sfruttamento, è una esperienza di violazione della propria dignità.
Si può, si deve far leva proprio su questa larghissima esperienza di apprendistato alla condizione di classe che è in atto per i proletari più giovani in tutti i settori della produzione e dei servizi. Che è iniziata, e continua a svolgersi, in un contesto ideologico-culturale che ha socializzato la negazione radicale del concetto stesso di classe sociale e – insieme – una sorta di disprezzo verso la condizione proletaria. Per questo, oltre a tutto il resto, non ci si deve stupire, né scoraggiare se lo sviluppo di forme di azione e resistenza collettive si fa così tanto attendere. Diamo tempo al tempo. La talpa scava. Non ci sono stati finora, in Italia, momenti importanti di lotta delle nuove generazioni di proletari, ma le micro-forme di resistenza e di resilienza sui luoghi di lavoro sono più espanse di quanto non si immagini – alcuni scrittori e scrittrici hanno saputo coglierlo meglio di certe analisi socio-politiche. (Così come, per altro verso, ha saputo farlo una nostra avversaria sempre temibile come la Chiesa cattolica che ha offerto a molti giovani uno sfogo sociale sotto-politico, spesso anti-politico, costituito dalle attività di volontariato. È un altro ambito interessante da osservare, notando altresì come Renzi&Co. stiano facendo il possibile per sottrarre al volontariato dei campi d’azione, specie se e quando si tratta di fare affari sulle ‘calamità naturali’ e svolgere funzioni di diretto controllo sulle popolazioni in stato di particolare disagio.)
È probabile che l’espressione immediata di questo profondo disagio lavorativo e umano dei proletari più giovani assuma nei momenti, per ora rari, di protesta più ampia nei quali ci si sente più forti (vedi corteo contro l’Expo di Milano), forme ‘estreme’ e effimere. Si tratta di un passaggio pressoché obbligato da attraversare senza demonizzare l’impazienza giovanile (che è altra cosa da chi ci gioca sopra con le sue teorizzazioni più o meno sgangherate) e la ‘violenza’ a cui può dar luogo, cercando di convogliare questa energia ribelle in una più generale rinascita del movimento di lotta anti-capitalista.
Operai e immigrati
Non ci ripetiamo, invece, per ciò che riguarda la classe operaia dell’industria. Quanto è scritto nel documento preparato insieme ai compagni del SI-Cobas nel dicembre scorso sui metalmeccanici è l’essenziale per la fase attuale, sebbene ci sia assolutamente da fare una riflessione storico-teorica a più ampio raggio sui sindacati nell’epoca dell’imperialismo, e su come si è modificato nel tempo, a confronto con il dibattito di un secolo fa, il rapporto economia-politica, sindacato-partito. In ogni caso abbiamo sotto gli occhi la conclusione disastrosa del periodo di supplenza di Cgil-Fiom alla decomposizione della sinistra storica, che lungi dal servire a ‘salvare il salvabile’, ha approfondito il disastro, radicalizzando lo sbandamento degli strati dei lavoratori più organizzati e producendo un’infinità di episodi di demoralizzazione e abbandono del campo. La rinascita di un movimento di classe degli operai e dei salariati passa perciò inevitabilmente al di fuori delle strutture di Cgil-Cisl-Uil, per forme nuove di organizzazione che non possono essere le vecchie RSU, ma organismi capaci di unire gli elementi operai più combattivi in modo trasversale rispetto alle appartenenze formali – li abbiamo chiamati, al momento, coordinamenti operai, coordinamenti proletari di lotta. Poiché a tutt’oggi i lavoratori che continuano ad avvertire la necessità di resistere ai colpi del nemico di classe continuano, nonostante tutto, a riferirsi in larga parte a Cgil e Fiom, è importante far chiarezza con loro sulla politica di questi sindacati, sui suoi presupposti e sulle sue conseguenze per avvicinarli alla comprensione effettiva di dove siamo, del perché siamo arrivati a questo punto, e attraverso quali passaggi-chiave – anche se, per i grossi limiti che ha il sindacalismo di base nel suo complesso, non c’è oggi, già pronta, un’alternativa. Una difficoltà non da poco, che dipende da un lato dalla limitata conflittualità degli stessi settori di salariati che non si riconoscono in Cgil-Cisl-Uil, e dall’altro dallo stato miserevole dell’avanguardia comunista.
Quanto alla componente immigrata della classe lavoratrice, per un quindicennio, tra il 1989 e il 2004, essa ha svolto, con le sue associazioni e organismi, primo tra tutti il Comitato immigrati in Italia, una rilevante attività politico-sindacale che ha avuto il merito di denunciare i meccanismi di discriminazione legali e di fatto che permettono il supersfruttamento della forza-lavoro immigrata, e porre un argine all’utilizzo di essa come leva per il peggioramento generale delle condizioni di lavoro di tutti. Dopo questa fase, i proletari immigrati sono tornati a farsi sentire attraverso la sequenza delle rivolte e delle proteste dei braccianti agricoli nel Sud Italia e degli internati nei cd. centri di accoglienza e simili, e poi dando vita dal 2008, nel e con il SI-Cobas, a un’esperienza di sindacalismo militante che si è demarcata dal resto del sindacalismo ‘alternativo’ per i suoi metodi di lotta, le sue rivendicazioni, il coerente rifiuto delle normative strozza-sciopero, le sue iniziative politiche contro la guerra agli emigranti e le aggressioni imperialiste ai popoli del Medio Oriente. Un’esperienza che resta a oggi un’eccezione – dovuta alla speciale combinazione tra fattori strutturali favorevoli (la logistica è tra i pochi settori in espansione, con significative concentrazioni territoriali di lavoratori – vedi l’interporto di Bologna) e la particolare disposizione alla lotta di settori di operai immigrati decisi a reagire a condizioni di super-sfruttamento estreme, su cui si è innestata l’azione di un gruppo determinato, e determinante, di compagni impegnati da anni nell’auto-organizzazione operaia, e dotati di un solido bagaglio di esperienza politica internazionalista.
Il progressivo radicamento nella società italiana di milioni di lavoratori e lavoratrici immigrati sta producendo anche in loro un fenomeno di assuefazione alla passività e a un certo conformismo – la cosa è stata notata in alcune lucide analisi dei compagni del SI-Cobas in riferimento a immigrati che non si sono certo tirati indietro quando hanno dovuto lottare per i propri diritti sui luoghi di lavoro (la stessa cosa, a scala maggiore, vale per gli immigrati con tessera Cgil-Cisl-Uil che dovrebbero essere intorno al milione, ma che è raro vedere in piazza). Tuttavia l’esperienza di questi trent’anni e l’intera storia del movimento proletario internazionale, a cominciare dalla lotta per le 8 ore, dicono che alla rinascita dell’organizzazione di classe di sicuro non mancherà l’apporto di questi fratelli di classe.
[Tanto più su scala internazionale, dove avrà un ruolo di primissimo piano proprio il proletariato dei paesi del ‘Sud’ del mondo. Nel passato ciclo rivoluzionario 1917-1927 è stato il proletariato dell’area europea-russa a guidare l’assalto al sistema capitalistico mondiale provocando il risveglio degli sfruttati dell’Oriente; nel prossimo ciclo rivoluzionario è probabile che la relazione sarà invertita. Del resto già oggi la maggiore conflittualità operaia, proletaria, semi-proletaria si esprime in Asia, in Sud America, in Medio Oriente, in Sud Africa.]
Si tratta semmai, da parte dei compagni e dei proletari italiani di nascita, di credere di più in questo apporto, e fare tutto ciò che è possibile per agevolare il protagonismo dei proletari immigrati anche in campo politico. Emerge proprio qui l’importanza decisiva della lotta contro il razzismo e la sua espressione più acuta, l’islamofobia. Razzismo e islamofobia non sono mere ‘sovrastrutture’. Sono parte integrante, strutturale, dell’azione di avvelenamento delle acque del nostro campo compiuta in tutta Europa dalle forze borghesi. Non solo da quelle che si dichiarano in modo aggressivo anti-immigrati e anti-islamiche; anche da parte di quelle che in modo blando prendono le distanze dai loro ‘eccessi’ verbali o fattuali in nome di una ipocrita tolleranza e della utilità che gli immigrati hanno per ‘noi’, salvo confermarne i contenuti di fondo. Ma c’è tanto, tantissimo da fare anche a sinistra, dove i sentimenti anti-immigrati e in specie l’islamofobia sono più presenti di quanto non si possa credere, se è vero che certi sinistri e sinistre – anche sulla ridicola faccenda del burkini – si sono fatti scavalcare ‘a sinistra’ da gente del calibro di Alfano, Sergio Romano e prelati varii…
Allarghiamo lo sguardo
L’individuazione delle cause dell’attuale stato della classe lavoratrice in Italia non può arrestarsi alle tematiche toccate fin qui. È opportuno allargare ulteriormente lo sguardo, per discutere di alcune grandi questioni restate finora sottotraccia, che hanno il loro peso nel paralizzare una risposta della classe lavoratrice un minimo proporzionale agli attacchi subiti.
La prima riguarda l’impatto della rivoluzione informatica-robotica sui lavoratori, tanto nell’industria quanto negli uffici. Marx spiegò già 150 anni fa come le macchine e il macchinismo, nelle mani del capitale, avessero schiacciato gli operai, espropriandoli delle conoscenze e capacità incorporate nei nuovi strumenti di lavoro e trasformandoli in appendici dei congegni meccanici, in servitori di macchine parziali. Come e quanto, mettendosi in diretta concorrenza con loro, avessero precarizzato l’esistenza degli operai rendendoli superflui, o sbattendoli da un ramo della produzione all’altro. Come avessero soggiogato e diviso le loro famiglie, atrofizzando la morale e l’intelletto delle componenti più fragili di esse, le donne e i fanciulli. Come e quanto avessero prolungato la giornata di lavoro e innalzato, in densità e velocità, la tensione produttiva del lavoro, ampliando al contempo l’esercito industriale di riserva dei disoccupati. E infine come fossero diventati “l’arma più potente” nelle mani del capitale per “reprimere le insurrezioni periodiche degli operai, gli scioperi, etc., contro l’autocrazia del capitale”. (Omettiamo qui di considerare il rovescio della medaglia, ne parliamo oltre).
La rivoluzione informatica e robotica ha replicato e per certi versi radicalizzato quasi tutte queste conseguenze anti-operaie del primo macchinismo, non in sé e per sé, ma sempre in quanto è, al momento, un’arma del capitale contro il lavoro. Computer e robot si presentano come le macchine intelligenti per eccellenza, le vere menti della produzione di beni e di servizi, atrofizzando la capacità di pensare dei lavoratori e subissandoli di prescrizioni e comandi sempre più rapidi e cogenti. Anche perché tendono a ridurre, se non ad eliminare, i rapporti umani tra lavoratori nei luoghi di lavoro. Come espressione estrema di tale tendenza si possono prendere i nuovi magazzini che Amazon ha in programma di aprire in Italia, in cui i singoli lavoratori obbediscono ai comandi delle app dei dispositivi che hanno appesi al collo. Certo, l’Italia è indietro rispetto ad altri paesi quanto agli investimenti in informatica e robotica, ma le fabbriche e gli uffici sono comunque pieni di macchine computerizzate. E l’effetto d’insieme di questo nuovo modo di essere dei luoghi di lavoro è quello di deprimere, non certo di esaltare, la coscienza di sé e del valore del proprio lavoro dei salariati. Né potrebbe essere diversamente in presenza di una ‘disoccupazione tecnologica’ che è ai massimi storici e produce una svalorizzazione della forza-lavoro che coinvolge sempre più anche chi è in possesso di livelli medio-alti di istruzione, e non ha santi in paradiso.
Un contributo (negativo) in questa direzione l’ha dato il sistematico smantellamento delle scuole e delle università pubbliche in Italia, che oltre ad abbracciare, e diffondere, l’ideologia neo-liberista, ha abbassato paurosamento il livello di formazione degli studenti. Dopo una sequenza di contro-riforme in cui centro-destra e centro-sinistra hanno gareggiato sulla base degli stessi criteri di fondo (le ‘tre I’ della Moratti: informatica, inglese, impresa), il sistema di istruzione italiano è ora in grado di produrre una forza-lavoro addestrata a subire la gerarchia, priva di profondità mentale, priva di competenze storiche, priva di capacità critiche, educata all’individualismo, perciò pronta a sottostare ai comandi del capitale, addestrata ad accettare come fosse cosa normale il lavoro non pagato attraverso l’esperienza degli stage fatta già nelle scuole superiori, e poi ripetuta più volte per chi prosegue con gli studi universitari.
Nell’allargamento del discorso su ciò che ostacola la rinascita del movimento di classe andrebbe ripresa la questione, in vario modo sollevata negli anni ’60 e ’70, del passaggio dal dominio formale del capitale al dominio reale sull’intero processo di produzione e riproduzione dei rapporti sociali. Questa tematica è di grande rilievo anche se, di solito, ha condotto i suoi sollevatori a deragliare dai binari dell’analisi marxista dei rapporti sociali per approdare a forme di astratto umanesimo. Il tema non va lasciato in mani sbagliate. Andrebbe ripreso in modo critico per afferrare quanto il dominio del capitale si è esteso a tutti gli ambiti della vita, quanto il capitale è diventato più che mai totalitario, atomizzando al massimo grado i rapporti sociali (formidabile la sintesi della Thatcher: “la società non esiste, esistono solo gli individui”). Di conseguenza: a)quanto questa dittatura totalitaria, con il ridurre in tendenza a zero gli spazi di vita liberi dai comandi capitalistici, sta progressivamente togliendo il respiro alla massa di tutti coloro che vivono di lavoro portando la loro capacità di sopportazione sempre più vicino al punto di necessaria esplosione; b)quanto è indispensabile riprendere dalla migliore tradizione del marxismo la critica integrale dell’insieme dei rapporti sociali capitalistici, nessun aspetto escluso; c)quanto anacronistici e penosi sono i tentativi di concepire altri e diversi ‘modelli’ di capitalismo o, è lo stesso, di democrazia. Ciò che abbiamo dinanzi agli occhi, infatti, è il capitalismo realizzato,in economia, in politica, nella cultura, nei rapporti inter-umani, nei rapporti specie umana-natura, e non lascia spazio ad alcuna ipotesi di riforma – solo a contro-riforme, lo vediamo da 40 anni, cioè alla sistematica soppressione di tutto ciò che, anche in piccola misura, può intralciare la sempre più asmatica accumulazione del capitale e indebolire la sua sempre più debole legittimazione. L’indicatore più appropriato di questo cammino obbligato è l’evoluzione della società statunitense e del rapporto Stati Uniti-mondo sempre più segnata dalla incontenibile polarizzazione sociale e dall’altrettanto incontenibile brutale ricorso alla violenza nelle relazioni interne e internazionali: “l’impero del capitale è l’impero del sangue”.
[È questo il segno sotto cui evolve catastroficamente anche il rapporto capitale-natura, di cui il devastante fracking autorizzato da Obama per estrarre petrolio e gas è l’emblema. Rinviamo di parlarne in altra occasione, per non strozzare il grandissimo tema, nostro anch’esso, e troppo poco trattato. Un tema serio, se nel solo 2015 le forze capitalistiche hanno pensato bene di assassinare, nel mondo, 185 militanti dei movimenti ‘ecologisti’; e se in Italia lo stato, con l’azione della magistratura, e le varie mafie della ‘terra dei fuochi’, delle discariche, etc. con i metodi a loro propri, non sono certo rimasti con le mani in mano.]
Davvero la talpa scava?
Abbiamo affermato di passaggio: anche se il quadro presente è molto pesante, la talpa scava. Con ciò intendiamo dire che nel sottosuolo sociale, anche in Italia, il meccanismo dell’antagonismo di classe continua ad operare con metodo e senza sosta predisponendo le precondizioni oggettive di una grande esplosione del conflitto di classe. A cosa ci riferiamo?
1) Innanzitutto al processo di proletarizzazione del mondo che corrisponde alla cd. globalizzazione del capitale, e nello specifico alla proletarizzazione delle società occidentali, inclusa l’Italia. Questo processo ha due facce: la ri-proletarizzazione del proletariato, la proletarizzazione di parte dei ceti medi. Negli anni ’60 e ’70 si poteva parlare della classe operaia che ‘va in paradiso’, un modo (esagerato) di indicare un fenomeno reale: la parziale, e transitoria, de-proletarizzazione della classe operaia che in qualche area d’Italia, vedi il Nord-Est, ha avuto un’estensione considerevole con il passaggio alla piccola imprenditoria di decine di migliaia di operai (idem per l’Emilia-Romagna, in anticipo sui tempi del Nord-Est). Questo processo si è ora esaurito. In Italia e in Europa è in atto una ri-proletarizzazione del proletariato in evidente discesa verso gli inferi. Gli spazi per l’esistenza di aristocrazie operaie o per nuovi ‘salti di classe’ di settori significativi del proletariato, nonché per la credibilità della ideologia di conciliazione degli antagonismi di classe, si stanno restringendo a vista d’occhio. Da decenni è ormai all’odg, a partire dagli Stati Uniti, il tema della ‘scomparsa dei ceti medi’, della proletarizzazione dei ceti medi, della loro scomposizione, specie di quelli salariati, una cui minoranza soltanto continua ad ascendere e a compattarsi con il grande capitale. Il crescente scollamento tra istituzioni democratiche e la grande massa dei ‘cittadini’ rispecchia sul piano politico questo duplice processo di portata gigantesca.
2) È vero che in tutti i luoghi di lavoro vive la divisione tra (relativamente) stabili e precari, ma la diffusione e radicalizzazione delle molteplici forme di precarietà sta incidendo con il passare degli anni anche sulle posizioni un tempo più stabili – pensiamo ai processi di privatizzazione delle Poste o delle Usl. È in corso una inesorabile de-stabilizzazione della stabilità insieme con una progressiva riduzione della sua estensione. Per contro, la precarietà sta assumendo forme sempre più estreme che sconfinano nel lavoro a ore e nel lavoro interamente gratuito o semi-gratuito, e si abbattono in particolare sui giovani.
3) I poteri costituiti (mercato e stato) spingono verso la contrapposizione tra lavoratori autoctoni e lavoratori immigrati, ma i lavoratori autoctoni sono contro-spinti dalla propria esperienza a sentirsi sempre più ‘immigrati’ nel loro paese di nascita, mentre la gran parte dei proletari immigrati, per converso, si sente sempre meno provvisoria, sempre meno immigrata a tempo, sempre più parte integrante e non rimuovibile del tessuto sociale italiano/europeo. Siamo alle seconde, terze, quarte generazioni ‘a sfondo migratorio’ o ‘uscite dall’immigrazione’, ne prende atto anche il re di Norvegia… E questo sta rendendo la realtà proletaria sempre più multinazionale e internazionale – con un grandissimo vantaggio potenziale per noi internazionalisti, a patto, si capisce, di batterci in modo intransigente contro ogni forma di razzismo e di sciovinismo.
4) È vero: la rivoluzione informatica-robotica ha portato all’estremo l’espropriazione dei saperi e delle capacità della forza-lavoro viva, ma questa riduzione della forza-lavoro a nuda forza di lavoro, a flessibilità allo stato puro, sta comportando, come Marx aveva antivisto, la formazione su larga scala di proletari-senza-fissa-dimora. Che possono essere scagliati di qua e di là da un momento all’altro, e quindi hanno sempre meno la possibilità di diventare corporativi, abbarbicati a un dato settore produttivo e a una data qualifica. La tendenza all’eguagliamento, al livellamento dei lavori, diventati sempre più, in tutti i campi di attività, lavori astratti, parziali, facili (‘a prova di stupido’, come esige Ohno, il padre del toyotismo), ripetitivi, privi di contenuto, fattori accessori del sistema delle macchine, estraniati, è rafforzata dalla coazione alla continua variazione di compiti e di settori lavorativi. Alla fine dell”impiego a vita”, un’esperienza vissuta da decine di milioni di lavoratori in Italia e in Occidente, sono subentrate le prassi, via via normalizzate, del lavoro a mesi, a settimane, a ore. Una dinamica incontenibile che ha indebolito le vecchie paratie stagne tra settori di attività, qualifiche, generazioni, generi, territori in un processo di sempre più generale svalorizzazione del lavoro vivo e immiserimento della vita dei proletari – molti dei quali, si legge in amare battute in rete, non sono più neanche liberi e ‘capaci’ di fare figli, privati perfino della ‘proprietà’ della prole.
5) Va lentamente riducendosi – l’abbiamo visto anche nelle agitazioni francesi – la distanza, un tempo nettissima, tra la condizione dei salariati pubblici e quella dei proletari alle dipendenze delle aziende private, sia per le privatizzazioni di enti e servizi un tempo statali o para-statali, sia per la strisciante privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego. Ciò ha prodotto, in controtendenza rispetto agli altri settori, un’accresciuta sindacalizzazione dei lavoratori del p.i., che però ha toccato il suo acme, e sta negli ultimi tempi rifluendo per la delusione ingenerata dalle tre confederazioni. Senza le facili semplificazioni del tipo “siamo tutti proletari allo stesso modo”, è un altro pernicioso dualismo che sta indebolendosi – la tematica del salario di produttività, ad esempio, attraversa in questi mesi in contemporanea l’industria metalmeccanica e il mondo del pubblico impiego. Altrettanto trasversale è il tema della dignità calpestata sui luoghi di lavoro e del rafforzamento del dispotismo dei dirigenti.
6) L’inesorabile procedere del capitale lungo il suo tracciato obbligato ha scavato a fondo anche sotto un’altra vecchia separazione, quella tra l’uomo capofamiglia breadwinner (che porta il pane a casa) e la donna chiusa in casa a provvedere alla cura dei figli e del marito. Questa separazione è entrata in una crisi irreversibile pure in Italia – ci sono, ormai, nella crisi, famiglie in cui è la donna il breadwinner. In ogni caso è avvenuta una formidabile femminilizzazione del mercato del lavoro. Una impressionante quantità di donne è entrata nel lavoro salariato. Il ‘carcere domestico’ non è scomparso, e tuttavia le donne stanno vivendo su grande scala un’esperienza sociale diretta della trama dei rapporti sociali capitalistici che le avvicina a quella dei loro compagni di sesso maschile. Nella società italiana storicamente arretrata in materia, segnata dal marchio di santa romana chiesa, solo scalfito nel secolo scorso dalle lotte delle donne e dall’azione, assai più timida, del movimento operaio organizzato, questo fenomeno è più limitato che altrove, e sta avvenendo in ogni caso nel segno della diseguaglianza di mansioni, salari, etc. È vero, poi, che questo avvicinamento è spesso percepito come minaccia dagli ex-breadwinner, ai quali stato e capitale hanno delegato il compito di perpetuare la gerarchia in seno alla famiglia, con i risvolti di violenza che si vedono di questi tempi. Siamo di fronte, poi, alla quasi-scomparsa dalla discussione pubblica della ‘questione femminile’, e in Italia il protagonismo delle donne nelle lotte è stato significativo solo nei movimenti a sfondo anti-militarista ed ecologico (No Dal Molin, No Tav, Rete contro la guerra e il militarismo, contro il biocidio). Ma i fatti hanno la testa dura. Il protagonismo femminile cresce in tutto il mondo, dalle giovani operaie del Guangdong e delle fabbriche tessili del Bangla Desh o dell’India fino alle donne irriducibili dei movimenti indios in America Latina. E questo è un ottimo presupposto perché la rinascita del movimento proletario possa avere, anche in Italia, tratti meno maschili di un secolo addietro – sarebbe un suo punto di forza.
7) Il procedere del capitale globale trasforma ed erode i rapporti sociali, ovviamente, anche fuori dai confini del proletariato e del lavoro salariato statale o semi-statale, negli strati sociali che sono stati un fedele sostegno della classe dominante: i piccoli/piccolissimi padroni e accumulatori, colpiti dalla caduta della produzione e dei consumi, e in certi casi maciullati dall’usura bancaria (più che dal fisco). La loro espropriazione da parte dei grossi capitali, italiani o stranieri, procede inesorabile sicché anche questa componente delle classi medie, si va assottigliando. In qualche città del Nord questa gente, che non sarà mai alleata della nostra causa, è scesa in piazza contro i banchieri iper-truffatori e contro la decisione della guerra commerciale alla Russia. Buona cosa per noi, perché confusione e disordine crescono nell’altro campo. Ma il movimento proletario potrà approfittarne solo se riuscirà a tornare in campo con autonomia, energia e organizzazione, e se non si cullerà nella pericolosa convinzione che è caduta ogni differenza di classe tra i salariati e i piccoli imprenditori, essendo diventati tutti un’unica indistinta ‘moltitudine’. Il che non è assolutamente vero.
La domanda delle domande
Lo stato attuale della classe in Italia – nella misura in cui questa delimitazione nazionale è ancora ammissibile – è dunque una realtà a due facce. Desolante quella che ci si mostra, promettente quella che è oggi nascosta. Nella storia del movimento proletario non c’è mai stata una distanza altrettanto siderale tra la maturazione delle contraddizioni oggettive del sistema capitalistico (fino al punto che dei suoi accaniti sostenitori ne ipotizzano un ristagno secolare) e lo stato della coscienza e dell’organizzazione di classe, in particolare nelle metropoli imperialiste. Questo è. E se non ci sarà quella “rovina comune delle classi in lotta” pure ammessa come possibile da Marx ed Engels nel Manifesto, è giocoforza prevedere la necessaria risorgenza del movimento proletario comunista. E prevedere che dato il così lungo accumulo di contraddizioni esplosive, essa seguirà un andamento molto più tumultuoso, accelerato, ripido di quanto riusciamo oggi ad immaginare.
Davanti allo stato della classe così molto (troppo) sommariamente descritto, a cosa sono chiamati i minuscoli nuclei di militanti che aspirano a ridare vita ad una tendenza comunista degna di questo nome?
Chiamati da chi? Non dalla massa dei proletari, che oggi a tutto pensa fuorché ad investirci di tale compito. Chiamati da noi stessi. Dalla nostra coscienza storica e teorica del capitalismo. Dalla nostra analisi del suo corso catastrofico. Dall’urgenza di contrastare il massacro delle condizioni di lavoro e di vita dei proletari, e la tendenza ad una “Siria universale”. Dalla certezza che questa volta le precondizioni materiali della rivoluzione socialista e delle trasformazioni socialiste sono assai più estese e solide di un secolo fa. Da tutta una somma pluri-secolare di esperienze di lotta che provano che la spontaneità, l’auto-organizzazione della massa dei proletari diventa un fattore decisivo e vincente nello scontro con gli apparati e le armate del capitale solo se riesce a darsi la sostanza e la forma di partito. E questo esige che, prima del tempo degli scontri decisivi, di necessità di durata limitata, ci si prepari metodicamente ad essi, anche – se questo tocca – in piccoli gruppi o nuclei rivoluzionari.
Che fare, quindi, oggi in Italia (l’Italia inseparabile dal mondo e determinata dal capitale globale), per piccoli gruppi o nuclei come il nostro? La risposta a questa che è la domanda delle domande, non si colloca nel vuoto. Perché alcune risposte organizzate ‘di avanguardia’ sono già in campo. Ancora una volta, qui, ci limitiamo a considerare il perimetro italiano, limitandoci doppiamente alle sole proposte che si presentano caratterizzate con un qualche riferimento all’anti-capitalismo e alla classe lavoratrice.
Alla passività, alle difficoltà e alle divisioni che percorrono il campo dei lavoratori, che sono in vario modo intrecciate alle difficoltà del capitalismo nazionale, la Rete dei comunisti, Cremaschi ed altri ritengono di avere la risposta ‘di lotta’ miracolosa e galvanizzante: Ital-exit. Abbiamo, credo, già risposto adeguatamente a questa prospettiva nazionalista di sinistra e ai disastri che essa evoca e provoca anche senza realizzarsi, nel n. 2 della rivista.
Una seconda risposta organizzata, proveniente con differenti sfumature dalle molteplici schegge di Rifondazione e dai raggruppamenti m-l, è quella di un ‘nuovo blocco sociale’ o ‘popolare’, con diverse denominazioni che vanno dal governo delle sinistre – quali sinistre? – al ‘governo popolare di salvezza nazionale‘, in un’ottica che resta sempre e comunque quella di ascendenza resistenziale, serrata dentro il perimetro nazionale e dentro la gabbia interclassista, ovvero: dentro il perimetro della riforma democratica del capitalismo. Tanto rumore per nulla! Perché, se è vero quanto fin qui abbiamo detto, la possibilità di una riforma democratica del capitalismo che ne allarghi le maglie materiali e politiche a favore del proletariato è categoricamente esclusa. Il che non comporta affatto disertare le battaglie contro il crescente dispotismo del capitale a protezione dei ‘diritti democratici’ che i lavoratori hanno saputo strappare, ma impone di non tornare a illudere i lavoratori, da nuovi Togliatti in centosedicesimo, sulle magnifiche sorti della ‘democrazia progressiva’. Abbiamo già dato, mezzo secolo di capitalismo democristiano. (Gli astutissimi strateghi di questa via “riv.” verso il passato riformista hanno coniato indicazioni tattiche di strepitoso, comicissimo surrealismo, del tipo: “Valorizzare l’Amministrazione comunale Raggi per far fare un passo avanti alla rivoluzione socialista!”… – un surrealismo condiviso con alcuni tra i più seriosi sostenitori dell’Ital-exit che pure avevano puntato forte sulla Raggi e la sua cricca, sognando magari un assessorato…).
Una terza risposta, organizzativamente ancora più frammentata delle altre due, coinvolge forse un maggior numero di piccole realtà sparse in diverse città: quella del conflittualismo ‘di base’ urbano. Per essa l’importante è ridare fiato al conflitto come che sia, e se oggi il conflitto può essere limitato a singole questioni, a singole città, a singoli quartieri, a singole occupazioni di case, poco male: è da lì e solo da lì che si può ripartire. Ed è un’ottima ripartenza perché solo i conflitti limitati possono essere davvero partecipati. Tutto il resto può attendere, in particolare i ‘grandi discorsi’ sui ‘massimi sistemi’: quelli, anzi, è meglio toglierseli dai piedi, una volta e per tutte. Non c’è bisogno di ribadire che per noi la lotta, in specie la lotta di classe del proletariato, è il punto di partenza e la condizione insostituibiledella rinascita del movimento di classe; e che nessuna vera scintilla va snobbata. Qui, però, si tratta di tutt’altro. In ballo non sono i conflitti sociali anche di modesta entità; è una data forma di idealizzazione/ideologizzazione dei piccoli conflitti contrassegnata da economicismoe localismo – due brutte malattie che sembrano affliggere anche gruppi di compagni che le rifiutano in linea di principio, ma rimanendo abbarbicati come cozze al proprio habitat locale, stanno finendo per piegarsi anch’essi, loro malgrado, alla linea del minimo sforzo.
L’espressione recente di questa risposta è nel documento stilato per l’assemblea nazionale indetta a Napoli da ‘massa critica’ il 3-4 settembre scorsi. Che giustamente rivendica per questa tendenza la qualifica ideologico-strategica di neo-municipalismo, e la spiega/motiva così:
“La parola democrazia è vuota senza un processo di partecipazione che coinvolga in forme sempre più dirette strati sempre più ampi di popolazioni: la lotta contro le oligarchie, economiche, politiche e di censo è una delle ragioni costituenti della nostra identità politica ed incontra nel tema della decisionalità nello spazio municipale una valida opportunità per esprimersi oltre i recinti in cui i movimenti sociali sono stati confinati dalla catena del comando del capitalismo finanziario europeo.
“Parlare di neomunicipalismo significa, dunque, agire interessi di classe in ambiti di questa società che si sono performati secondo il disegno neoliberale. È l’occasione di aprire spazi di possibilità decisionali nuove, in cui i numeri di persone ben più larghi di quelli già sensibilizzati e mobilitati possano essere messe nelle condizioni, temporali e dialettiche, di partecipare e decidere sull’uso e il governo delle risorse comuni, rimettendone in discussione la logica più profonda. Per farlo dobbiamo discutere di cosa significa andare oltre le forme tradizionali delle organizzazioni, e questo riguarda anche quelle di movimento. Significa anche ripensare i rapporti con le istituzioni: fuori dagli schemi del dentro/fuori dobbiamo interrogarci sulla nostra capacità di dettare l’agenda politica nel tempo del vuoto della politica, attraversando laicamente le fasi senza pregiudizi e senza arrivismi.”
Poiché gli estensori del documento chiamano in causa gli “interessi di classe”, diciamo subito che dal punto di vista degli “interessi di classe” (classe lavoratrice, immaginiamo) non c’è un solo rigo che sta in piedi. Né la democrazia, né la politica (dello stato democratico borghese, immaginiamo) sono spazi-tempi vuoti. Al contrario, sono pieni fino all’orlo, in tutte le loro istanze, sovra-nazionali, nazionali, locali, di quartiere, di interessi capitalistici che premono per essere soddisfatti quanto più è possibile just in time. Secondo: il ‘capitalismo finanziario europeo’, come il capitalismo finanziario in genere, impone i suoi diktat, come si è visto nel 2011 e si continua a vedere ogni giorno, a tutti i territori ad esso sottoposti, ‘stati sovrani’ inclusi. Per cui parlare degli ‘spazi municipali’ come di ‘recinti’ sottratti ai territori su cui comanda il capitale finanziario è una pura e semplice frottola. Terzo: questa di superare lo schema del dentro/fuori le istituzioni senza pregiudizi, è una vecchia canzone stornellata dai solisti e dai vocalist del fu-partitone ‘di lotta e di governo’. Si sa com’è finita. Con una specificazione: la canzone melodica classica aveva una strofetta sul socialismo, che qui è scomparsa, sostituita, dal momento che si è ‘laici’, cioè privi di pregiudizi verso il capitalismo e la democrazia, ossia anti-socialisti, dall’oltrismo. Oltre nel senso di un ‘riformismo’ ancora più esangue e corrivo di quello di cui riproducono pari pari lingua, ‘furbizie’ e aspettative. In tempi in cui su tutti i temi il terreno effettivo di scontro è quanto meno nazionale, proporre il neo-municipalismo come ideologia e prospettiva per le lotte significa una sola cosa: rinunciare programmaticamente alla messa in discussione delle fondamenta dell’ordine capitalistico, alla lotta contro i poteri capitalistici globali e nazionali, o parteciparvi in modo occasionale e mirato solo se essa può dare qualche chance in più di carattere municipale. Comprendiamo che un’attempata soubrette possa trovare “Gigino nu bello uaglione”, l’uomo è piacente; ma che dei giovanottini di belle speranze che hanno attraversato i libri di Marx si mettano in fila per fargli da claque neo-municipalista… fermiamoci qui.
E noi?
E noi, qual’è la prospettiva per cui lavoriamo?
I termini di sintesi e di prospettiva sono antichi: socialismo, comunismo, rivoluzione sociale, soviet, Internazionale. Il movimento reale che abbatterà lo stato di cose presenti negli anni o nei decenni a venire, ne conierà di nuovi su questo stesso spartito. Nelle vicende cruciali del passato è avvenuto così. Per ora, se non si può decampare da quelli ereditati, sono comunque obbligatori due passi: 1) il bilancio storico della rivoluzione russa, della rivoluzione mancata in Occidente, del moto rivoluzionario anti-coloniale, ed infine dello scossone degli anni del ’68; 2) la ripresentazione della prospettiva comunista e del suo programma in termini adeguati allo sviluppo raggiunto dal modo di produzione capitalistico, così da mostrarne la maturazione dei fondamenti materiali e, insieme, la crescente urgenza a fronte della sequenza di catastrofi prodotte dal capitalismo.
Ci stiamo pensando, naturalmente. Ma diciamo anzitutto che a riaccreditare la nostra soluzione sta provvedendo la stessa potenza sociale, il capitale globale, che ci ha messo un secolo a soffocarla e coprirla di discredito. Lo fa con la sua crisi e i suoi sempre più esplosivi contrasti antagonistici con il lavoro salariato e la natura (anche N. Klein è riuscita a cogliere che “solo una rivoluzione ci salverà” dalla catena delle catastrofi ecologiche in avanzata gestazione, salvo non sapere essere coerente con i dati della sua indagine). Lo fa con il caos crescente che imperversa nel suo sistema delle relazioni internazionali. Con la crescente incapacità a dominare le forze produttive che genera: dalle migrazioni internazionali, suscitate da molteplici fattori incontenibili, che risultano impossibili da governare, alla massa in crescita della disoccupazione. Se non avessimo un tale gigantesco aiuto dal nemico di classe, potremmo ben poco come propagandisti e agitatori. È il contesto storico che fa più che mai attuale, oggettivamente, la soluzione comunista come l’unica soluzione globale, onnilaterale e mondiale disponibile per la specie umana – non solo per i lavoratori. Non c’è via di salvezza nazionale e tanto meno municipale dalla decomposizione dell’ordine mondiale capitalistico a stelle e strisce. C’è solo ed esclusivamente una soluzione globale, internazionale, ed è quella rivoluzionaria comunista. Qui in Italia l’hanno notato distrattamente in pochi, ma perfino negli Stati Uniti (dove i sondaggi sono piuttosto seri) ci sono consistenti aree giovanili in cui il ‘socialismo’ risulta più ben accetto del capitalismo…
Quanto alla rinascita del movimento proletario dalle sue attuali ceneri, possiamo solo preconizzarla perché non sono i comunisti a determinarla, e neppure a poterla influenzare. L’avvio non può che essere dato dallo scoppio essenzialmente spontaneo e a catena, su ampia scala, delle risposte di lotta determinate dei lavoratori agli attacchi subiti negli ultimi 40 anni. A noi sta prendere coscienza del fatto che, sulla base dello scatenamento di queste lotte e dell’enorme energia sociale che metteranno in movimento, si tratterà di ricostruire dalle fondamenta l’organizzazione politica della classe con criteri, il più possibile, anti-sismici. È una prospettiva di lungo periodo. Conformare in modo netto, chiaro, solido una tendenza comunista internazionalista può essere il primo passo in tale direzione. Un compito particolarmente difficile, che richiede un lavoro impegnativo da avviare con il piccolo contingente di compagni oggi disponibile a mettersi seriamente in questa prospettiva.
Abbiamo fatto parte, a lungo, di un’organizzazione comunista con un minimo di strutturazione nelle principali città, un discreto giornale periodico e alcuni legami internazionali, sorta da un lungo, serio, serrato processo di omogeneizzazione tra diverse precedenti organizzazioni. Francamente, non avremmo mai pensato che essa si disfacesse nel corso degli anni, e per giunta quasi ovunque secondo le linee di appartenenza alle precedenti organizzazioni – il che ha certificato, con i fatti, che il processo di omogeneizzazione e di fusione che credevamo realizzato, non era affatto arrivato alla profondità necessaria. Sono bastate poche scosse telluriche, assai meno pesanti di quelle in arrivo, per farlo crollare.
Nonostante la delusione generata in noi da questa disgregazione, e nonostante le difficoltà che un piccolissimo collettivo come il nostro ha a portare avanti il suo piano di lavoro e nello stesso tempo questo confronto, abbiamo accettato di buon grado l’invito alla discussione che ci è arrivato da un gruppo di compagni, tra i quali alcuni dei promotori del SI-Cobas, sia perché apprezziamo molto questa esperienza di lotta, sia perché siamo convinti che l’isolamento permanente di tanti piccoli organismi di militanti, l’uno separato dall’altro e tutti necessariamente auto-centrati, in un’epoca di avvenimenti globali di grande importanza, rischia di produrre una vera asfissia, e fenomeni di impazzimento soggettivistico o, viceversa, di demoralizzazione.
Abbiamo ancora da lavorare molto contro-corrente e dobbiamo stare attenti a non sollevare attese mandandole deluse. Lo possiamo fare solo imparando dalle esperienze passate, dandoci un piano di lavoro che oggi è anzitutto un piano di confronto per approfondire alcune questioni-chiave e fissare su di esse alcuni punti fermi.
E verso la classe lavoratrice, quale intervento politico si può ipotizzare?
Come abbiamo cercato di dimostrare nella prima parte di questo documento, il quadro esterno di questo intervento è determinato dall’andamento del capitalismo italiano nel contesto dell’evoluzione di quello globale. La nostra tesi è che gli spazi per una soluzione “all’italiana”, di compromesso, della crisi italiana, si restringono a vista d’occhio. E si azzereranno se si continuerà a traccheggiare nell’applicare alle mezze classi le ricette comandate dalle leggi della competizione internazionale. Benché i lavoratori continuino ancora a nutrire illusioni in proposito, l’intensificazione dell’attacco capitalistico è scontata, e brucerà queste illusioni in un gran falò. Specie se si verificherà una nuova forte recessione, ci sarà un’aggressione capitalistica intensificata a 360 gradi, interna ed esterna. Le uniche incognite sono il grado di virulenza che raggiungerà, e il momento in cui la situazione potrà precipitare cessando di seguire, come ora avviene, una dinamica strisciante. In ogni caso per i proletari la possibilità di rinviare la propria risposta di lotta va assottigliandosi, a meno di non accettare di farsi stritolare.
Se è vero, a grandi linee, che a questa sfida la massa dei lavoratori arriva oggi, salvo eccezioni, disorientata, sfiduciata e divisa, si tratta allora di svolgere un’attività di orientamento, trasfusione di fiducia (fiducia nella lotta!) e proposta di linee di azione unificanti, che facciano leva sulla resistenza e sulla resilienza che si sono in molti casi espresse sotto traccia, e sulle più significative esperienze di lotta.
Il compito di orientamento fondamentale consiste nello spiegare a quei settori di essa che possiamo raggiungere, e anzitutto ai lavoratori più combattivi, che sono il nostro primo referente, che indietro non si può tornare, e che la linea del minimo sforzo finora seguita porta alla massima rovina. Bisogna guardare avanti, prendere atto della sfida che la classe capitalistica, il sistema sociale capitalistico, ci pone, e attrezzarci per vincerla.
A nostro avviso, le linee di azione unificanti si possono condensare nei seguenti 5 punti (qui solo nominati, e tutti da sviluppare):
1. lotta contro le nuove guerre neo-coloniali, imperialiste in cui è implicata l’Italia insieme all’UE, alla Nato, all’Occidente, e contro la guerra agli emigranti africani e medio-orientali;
2. lotta combinata contro il super-sfruttamento del lavoro e la dilagante precarietà/disoccupazione attraverso la rivendicazione-cardine, classista e internazionalista, della riduzione generalizzata e drastica degli orari di lavoro a parità di salario per il lavoro socialmente necessario, e del salario operaio medio garantito ai disoccupati;
3. lotta per la ricomposizione del fronte di classe tra stabili/precari, nuove/vecchie generazioni, autoctoni/immigrati, uomini/donne, nord/sud, attraverso la denuncia del debito di stato come debito di classe e la propaganda per il suo annullamento; il rilancio di contenuti e forme di organizzazione unificanti, a partire da quella su orario/salario (con la rivendicazione di consistenti aumenti salariali che recuperino il potere di acquisto perduto in trent’anni insieme con il ripristino di meccanismi automatici di difesa del salario); la richiesta di abolizione dell’intera legislazione anti-immigrati, con la costituzione di iniziative e organismi realmente ‘confederali’ (riferimento storico alle Camere del lavoro);
4. lotta contro il governo Renzi, per la sua delegittimazione davanti ai lavoratori e la sua caduta in piazza attraverso la critica a 360 gradi della sua politica del lavoro, della ‘sicurezza’, militarista, fiscale, anti-immigrati, edilizia, etc., e per il significato politico anti-operaio della sua progettata revisione costituzionale;
5. internazionalismo, come dimensione organica dell’intera attività di formazione e di intervento, con la massima attenzione rivolta a due obiettivi: rafforzare il protagonismo dei proletari immigrati nelle lotte politiche e nella costituzione della tendenza internazionalista, per la quale lavoriamo; consolidare i legami esistenti con organismi di lotta e organizzazioni politiche affini operanti all’estero.
Commenti recenti