Cosa ci insegna Aleppo
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Sebastiano Caputo)
Qualche giorno fa mi ha intervistato il canale d’informazione russo Sputnik chiedendomi cosa ne pensassi di questo giornalismo da scrivania che ha raccontato ai lettori la battaglia di Aleppo. Ho risposto senza peli sulla lingua:
«Chi scrive di politica estera non va più sul campo accontentandosi dei lanci di agenzia, non vuole sporcarsi le mani, ha paura, è attaccata ai soldi perché quando vai fuori può capitare che ci devi anche rimettere economicamente».
Ovviamente esistono delle eccezioni sia in Italia che all’estero, ma la maggior parte degli addetti ai lavori sono senz’anima e senza gli attributi. Con il racconto della battaglia di Aleppo della scorsa settimana i giornali e le televisioni occidentali hanno raggiunto l’apice della disinformazione. Tuttavia la città ripresa ufficialmente giovedì sera ci offre un grande insegnamento: quali sono i meccanismi per muovere una guerra mediatica oggi. Nell’ultimo articolo intitolato Le bugie di Aleppo avevo condannato il giornalismo nazionale ed internazionale reo di aver riportato le notizie pubblicate da Al Arabiya e Al Jazeera, i due principali massmedia del mondo arabo-musulmano rispettivamente controllati da Arabia Saudita e Qatar, due Paesi coinvolti nel conflitto siriano da più di cinque anni. Ma c’è molto di più.
L’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani, fondato nel 2006, è fin dall’inizio il megafono della rivolta contro Assad ed è stato citato in molte occasioni durante l’assedio finale, tuttavia è bene ricordare che questa agenzia di stampa è diretta Rami Abdel Rahman il quale vive felicemente a Coventry, in Inghilterra, da più di 10 anni. Ma andiamo avanti.
I “Caschi bianchi” o meglio “White Helmets”. Questo gruppo di volontari che presterebbe assistenza alle vittime della guerra in Siria (ma che agisce esclusivamente nei territori controllati da Al Nusra, ramo siriano di Al Qaeda) è diventata col passare dei mesi una delle fonti più “attendibili” per ogni tipo di accusa contro le offensive militari siro-russe. Per quanto si professi “non governativa” rimane un’organizzazione con sede in Turchia, fondata da James Le Mesurier, ex ufficiale dell’esercito britannico con i soldi degli americani. Candidati al Premio Nobel per la Pace, i “Caschi bianchi” hanno ricevuto alla fine il “Premio Nobel Alternativo” chiamato Right Livelihood, e prossimamente uscirà un film con regia di George Clooney che racconterà la loro storia. Badate bene: queste scene non nel vedrete (nel video diversi “caschi bianchi” si mescolano ai membri della banda armata dopo la cattura di un soldato dell’esercito regolare siriano).
Infine non dimentichiamoci di Twitter, Facebook e delle petizioni online, strumenti potentissimi che possono far sembrare “espressione popolare” ciò che è “volontà di una minoranza”. Vi ricorderete durante la riconquista di Aleppo Est quei volti che, sotto i bombardamenti, lanciavano appelli al mondo sui loro profili personali con decine di migliaia di follower e che l’indomani erano in prima serata a rilasciare interviste alla CNN e a BBC? Ci hanno raccontato che erano civili quando in realtà sono veri e propri attivisti legati con i gruppi armati in Siria. Il caso più eclatante è quello di Bilal Abdul Kareem, un documentarista e giornalista accreditato tra i ribelli di Aleppo Est e famoso per aver intervistato diversi leader di Al Nusra tra cui Shaykh Abu Firas (se non sei dei loro difficilmente ti danno questa possibilità). Per non parlare delle varie raccolte firme che hanno invitato le persone di tutto il mondo a scendere in piazza in solidarietà dei “civili massacrati”. Tra le più attive c’è Avaaz, una comunità virtuale finanziata dal magnate George Soros.
In questi meccanismi si muovono dunque diversi protagonisti: giornalisti che fingono di stare sul posto, addetti ai lavori che copiano e incollano informazioni non verificate, organizzazioni politiche travestite da “umanitarie”, popstar di Hollywood, falsi profili Twitter e Facebook, terroristi incappucciati da attivisti e ancora premi internazionali destinati a chi fa il lavoro sporco, raccolte fondi e petizioni online. Eppure in questo mare di notizie quelle più importanti non vengono mai in superficie. Qualche giorno fa Bashar Ja’afari, ambasciatore siriano alle Nazioni Unite, ha denunciato in sede istituzionale un fatto gravissimo. Durante la conquista di Aleppo, nei quartieri allora controllati dagli anti-governativi, sono stati trovati e arrestati degli agenti stranieri. Nel video vengono elencati uno ad uno con i loro rispettivi Paesi di provenienza (tra questi: Turchia, Usa, Israele, Arabia Saudita, Qatar, Giordania).
Della collusione tra cancellerie occidentale e gruppi terroristici in Siriaalcuni di noi lo hanno scritto fin dal 2011, mentre gli altri si aggrappavano alla retorica dei diritti umani per portare avanti la narrazione dei “ribelli in lotta per la libertà”. Ma la geopolitica è una questione troppo seria per essere lasciata in mano a chi utilizza la cultura del piagnisteo per analizzare le grandi trasformazioni del nostro tempo. Molte persone in questi ultimi giorni si sono lasciate trasportare emotivamente dalla battaglia di Aleppo, alcune di loro sono scese persino in piazza, altre hanno firmato appelli di solidarietà, altri ancora hanno creduto a tutto quello che è stato detto dai massmediacosiddetti “autorevoli”. Da ora in poi quando ci mobiliteremo per un ideale, qualunque esso sia, domandiamoci sempre per chi stiamo facendo il lavoro sporco. Franco Battiato ce lo aveva già suggerito tempo fa in una canzone straordinaria: “le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso” (articolo pubblicato anche su Il Giornale).
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/editoriale/cosa-ci-insegna-aleppo/
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