Gli ultimi giorni dell’ideologia liberal (2a parte)
di VOCI DALL’ESTERO (Maximilian Forte)
In un articolo documentato quanto aspramente ironico, l’antropologo Maximilan Forte annuncia sul suo blog Zeroanthropology il crollo imminente dell’ideologia liberal progressista. E dei Democratici, che all’ideologia progressista hanno legato le loro fortune. Una minuziosa disamina degli errori commessi durante la campagna elettorale della Clinton, delle scomposte reazioni dei Democratici alla sconfitta, della complicità della grande stampa – che crea fake news sostenendo di lottare contro le fake news – e di una classe accademica elitista che si è trasformata in una sorta di nuova aristocrazia.
Forte mostra i sedicenti campioni del pensiero progressista come una nuove élite devota alla meritocrazia – e di conseguenza indifferente alla solidarietà – che ha preteso di insegnare al popolo che cosa era buono e giusto, a dispetto di quello che il popolo stesso sperimenta nella propria vita: ed è quindi stata abbandonata dal popolo, che ha votato altrove.
Libri venduti
Un’altra prova del fallimento di Hillary Clinton nel vendere il suo messaggio è nel fatto che il suo libro non è stato capace di vendere copie, e questo durante il picco della campagna elettorale, quando l’interesse pubblico avrebbe dovuto essere alle stelle. Il New York Times, una voce non certo ostile alla Clinton, ha riportato che il suo ultimo libro, Stronger Together, “ha venduto solo 2.912 copie nella sua prima settimana nelle librerie”, quando solitamente le vendite nella prima settimana dalla pubblicazione costituiscono un terzo del totale di copie vendute, e concludeva: “I dati di vendita… rendono il libro quello che l’industria editoriale chiamerebbe un flop”.
La Clinton si è fermata un istante a riflettere, magari a considerare questo fatto un segno, tenendo conto anche dei suoi rendimenti decrescenti duranti gli anni? Stronger Together (2016) ha venduto meno copie di Hard Choices (2014), che deluse a sua volta le aspettative, e vendette anche esso meno copie del libro precedente, Living History (2003). Ogni libro pubblicato dalla Clinton ha venduto sempre meno copie del precedente. Negli uffici dei Democratici i grafici di vendita li fanno tutti con linee rosso fuoco che vanno solo verso l’alto?
Mondo Accademico, antropologia, e invenzione dell’opinione pubblica “Anti-conoscenza”
Molti accademici hanno scritto saggi via via più aspri e risentiti per lamentarsi dell’opinione pubblica, del popolo – ovvero, di coloro che costituiscono la loro clientela e da cui dipendono i loro finanziamenti. Un cosiddetto “stato d’animo anti-conoscenza” è la comoda invenzione usata per spiegare perché una larga parte della popolazione (una maggioranza, nel caso della Brexit e del referendum italiano) si rifiuta di ascoltare i loro oscuri moniti sull’inevitabile sventura derivante da soluzioni nazionali in un mondo ormai “inevitabilmente”, “irreversibilmente” globalizzato.
Questo è il classico caso degli “esperti”, membri della quasi-casta dei professionisti, che rivendicano un monopolio speciale non solo sulla conoscenza, ma sulla verità. È già acclarato che costoro hanno tentato di monopolizzare la conoscenza, disincentivando l’istruzione superiore, con numerose barriere erette lungo tutto il cammino per accedervi. Ma ora sostengono non solo di sapere di più, ma di sapere cosa è meglio. Il sistema attuale, lo status quo che stavano difendendo, secondo loro andava bene per la maggior parte delle persone – anche se la maggior parte delle persone aveva accesso all’informazione, ed esperienze personali, che ridicolizzavano le cheerleader accademiche. E ancor peggio che ridicolizzarli, questa divisione rendeva evidente da che parte stavano gli accademici: “anti-conoscenza” è uno slogan elitista, ovvero anti-popolo.
Gli economisti, come al solito, sanno meglio di tutti cosa è vantaggioso per il popolo e tentano di convincerlo che la realtà che vive non è rilevante. Come una caricatura degli stalinisti, gli economisti neoliberisti partono da una semplice ipotesi: la teoria ha sempre ragione, è il popolo ad avere torto. Come potevano questi Soloni spiegare la bontà del progetto neoliberista di Obama, che ha prodotto i risultati riportati di seguito (come da rilevazioni della stessa Federal Reserve americana)? Questo è un riassunto dell’“eredità” socio-economica di Obama:
(1) Calo dei redditi delle famiglie
(2) Calo del tasso di partecipazione della popolazione civile alla forza lavoro
(3) Calo del tasso di chi vive in case di proprietà
(4) Aumento del numero di persone che percepiscono aiuti alimentari dal governo (food stamps)
(5) Aumento del prezzo delle polizze sanitarie
(6) Aumento del debito degli studenti universitari
(7) Aumento della disuguaglianza di reddito per gli afro-americani
(8) Aumento della stampa di denaro
(9) Massiccio aumento del debito pubblico
Quindi, mentre i giornalisti si inventavano lo spauracchio delle fake news – e producevano a loro volta notizie false per combattere la pericolosa minaccia che il costante calo della fiducia da parte dell’opinione pubblica comportava per i loro profitti – nel mondo accademico il concetto parallelo era l’“anti-conoscenza”. E il veicolo principale di questi punti di vista negli USA e nel Regno Unito sono stati i periodici scientifici The Times Higher Education, Inside Higher Ed, e The Conversation (l’ultimo dei quali è finanziato da una serie di banche e fondazioni).
L’antropologia statunitense continua a offrire testimonianze del suo fallimento nel convincere. A questo proposito, l’antropologia mainstream negli USA, considerato il suo allineamento al partito Democratico, ha qualcosa di abbastanza significativo in comune con il programma militare Human Terrain System (HTS) dell’esercito degli Stati Uniti (programma di supporto che reclutava esponenti delle scienze sociali per fornire ai comandanti militari una conoscenza delle popolazioni presenti nelle regioni in cui erano distaccati – NdT), criticato dai leader statunitensi della disciplina. Il primo indizio per i leader militari che il programma HTS era inutilizzabile come mezzo di contro-insurrezione e pacificazione avrebbe dovuto essere il fallimento dell’HTS nel convincere persino i suoi stessi componenti – e per “suoi stessi componenti” intendo i colleghi accademici tra i quali veniva effettuato il reclutamento.
Se non sei in grado di “pacificare” i colleghi universitari, dei quali conosci bene linguaggio, usi e costumi, come puoi pretendere di sconfiggere i talebani? Allo stesso modo, se gli antropologi statunitensi comprendono così poco la loro stessa società di appartenenza che l’elezione di Trump li ha presi completamente alla sprovvista, come possono pretendere di insegnare a comprendere società diverse dalla loro? Invece, nel totale disprezzo della massa degli elettori della classe operaia, gli antropologi statunitensi si sono ri-dedicati con rinnovato vigore alle politiche di occultamento di classe. E quindi hanno proposto un “incontro di lettura antropologica” focalizzato in parte sui problemi del razzismo, per protestare contro l’insediamento di Trump.
Un altro esempio del fallimento nel convincere i loro stessi membri emerge dal voto tenuto tra i membri della Associazione Antropologica Americana, per approvare boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Dopo un primo ottimismo, il voto non ha raccolto un supporto sufficiente da parte dei membri dell’associazione. Quelli che avevano proposto la mozione e avevano spinto per la sua approvazione allora si sono messi a dare la colpa “a ingerenze esterne” (vi ricorda niente?). Nemmeno una volta si sono fatti la domanda se ci fosse qualcosa che non andava nel loro messaggio, o nel contesto in cui veniva promosso. Invece, dovevamo credere che qualche membro dell’intelligence israeliana dall’altro capo del mondo aveva avuto più successo nel convincere degli antropologi statunitensi, di altri antropologi statunitensi. Per quanto riguarda l’accusa di “ingerenza esterna”: è esilarante che essa provenga proprio dagli antropologi USA, dato che “ingerenza esterna” è esattamente quello che loro stanno facendo nei confronti di Israele.
L’attaccamento degli antropologi USA a Obama e Clinton, del tutto scollegato dal loro effettivo operato, caratterizzato dall’incremento della diseguaglianza e dall’aumento delle guerre, ha seguito la stessa politica di occultamento di classe. Uno di loro si è sperticato in lodi romantiche alla “coalizione dei diversi”, attribuendo al “meticciato” bellezza e valore sociale a scapito dei vituperati lavoratori bianchi (e prevedendo la vittoria della Clinton). Un altro antropologo statunitense dell’Università di Chicago ha pubblicato un lungo, verboso mattone esoticista che esaltava le virtù della “marronificazione” della società, esaltava le popolazioni importate rispetto agli autoctoni, e di fatto dichiarava che la maggioranza della classe lavoratrice è irrilevante, spregevole e sostituibile. Che questo articolo sia apparso in una pubblicazione finanziata in larga parte dall’Open Society Institute di George Soros non dovrebbe sorprendere nessuno.
Gli accademici che avevano avuto ben poco, o niente, da dire sul neoliberalismo adesso escono dalle loro tane – e scrivono saggi di critica concentrati esclusivamente su Trump. Hanno scoperto adesso lo “stato corporativizzato”. Quelli che si oppongono all’insediamento di Trump non si sono mai opposti all’insediamento di Obama, nonostante tutta la loro presunta consapevolezza teorica critica. Bruno Latour, il guru degli antropologi americani (dopo essere stato ridicolizzato in Europa), ha rimediato all’assenza della sua opinione nelle discussioni riguardanti le elezioni americane: ha aspettato che fossero finite in modo da tentare di sembrare saggio con uno sforzo minimo, mantenere felice la sua clientela americana, tenere alte le vendite dei suoi libri, e assicurarsi una continua presenza alle conferenze che contano. La Los Angeles Review of Books ha prontamente pubblicato il suo minuscolo “contributo”.
Diana Johnstone ha fatto ottime osservazioni riguardo il fallimento dell’establishment accademico, che vale la pena citare per intero.
“La triste immagine degli americani come cattivi perdenti, incapaci di affrontare la realtà, deve essere attribuita in parte al fallimento etico della cosiddetta generazione di intellettuali del 1968. In una società democratica il primo dovere di uomini e donne dotati di tempo, inclinazione e capacità di studiare la realtà in maniera seria, è condividere la loro conoscenza con chi non ha i loro stessi privilegi. La generazione di accademici la cui coscienza politica fu temporaneamente incrementata dalla tragedia della guerra del Vietnam avrebbe dovuto rendersi conto che era suo dovere utilizzare la sua posizione per educare il popolo americano, soprattutto sul mondo che Washington voleva ridisegnare e la sua storia.
Invece, la nuova fase del capitalismo edonista ha offerto agli intellettuali le migliori opportunità per manipolare le masse, invece di educarle. Il marketing della società del consumo ha persino inventato una nuova fase delle politiche identitarie, creando il mercato dei giovani, il mercato dei gay, e così via. Nelle università, una massa critica di accademici ‘progressisti’ si è ritirata nel mondo astratto del postmodernismo, finendo per canalizzare l’attenzione della gioventù sul come reagire alla vita sessuale delle altre persone, o sulla ‘identità di genere’. Questa roba esoterica alimenta la sindrome ‘pubblica o muori’ ed evita agli accademici delle scienze sociali di dover insegnare qualsiasi cosa che possa essere considerata una critica alla spesa militare americana o agli sforzi falliti degli Stati Uniti per affermare il loro eterno dominio sul mondo globalizzato. L’argomento più controverso uscito dalle università americane è una discussione su chi dovrebbe usare quale toilette”.
“Se gli snob intellettuali sulle fasce costiere degli USA possono deridere con così tanto autocompiacimento i poveri ‘deplorevoli’ dell’entroterra americano, è perché loro stessi hanno abdicato al loro principale dovere sociale: la ricerca e la condivisione della verità. Rimproverare il popolo per i suoi atteggiamenti ‘sbagliati’ mentre si dà un esempio sociale di sfrenata promozione personale produrrà solamente la reazione anti-élite chiamata ‘populismo’. Trump rappresenta la vendetta del popolo che si sente manipolato, dimenticato, e disprezzato”.
E questo ci porta alla sconfitta dei professionisti
La caduta della classe dei professionisti
Abi Wilkinson ha scritto su Jacobin: “Che nessuno sia fisicamente in grado di portare a termine un lavoro meglio dei professionisti è uno dei dettami cardine dell’élite liberal”, aggiungendo:
“Sospettosa sulla democrazia di massa e ringalluzzita dalla caduta dell’Unione Sovietica, l’élite liberal arrivò alla conclusione che eravamo giunti alla fine della Storia: ogni altro ordine sociale era stato tentato e si era rivelato inferiore. Si presumeva che la democrazia capitalista, supportata da esperti preparati, acuti e benintenzionati, fosse emersa dalla mischia come vincitrice incontestata. Queste persone non potevano spiegarsi il crescente rifiuto dello status quo politico ed economico se non come un’improvvisa epidemia di irrazionalità e di autolesionismo. Certo, c’è sempre spazio per migliorare, dicevano, ma a chi mai verrebbe in mente di abbattere o alterare in maniera significativa un sistema eccellente come quello che già abbiamo?”
“Se la politica altro non è che l’efficace amministrazione del sistema vigente – se non richiede altro che affidarsi all’abilità di un buon pilota – allora sono l’esperienza e la capacità tecnica i requisiti principali. Le differenze ideologiche sono immateriali, gli interessi contrapposti sono obsoleti”.
Wilkinson ha scritto queste parole per mettere in luce l’elitismo racchiuso in una recente, famosa vignetta del New Yorker, che (di nuovo) rappresenta l’elettore medio pro-Trump o pro-Brexit come “anti-conoscenza”, come non qualificato per governare.
(“Questi tronfi piloti hanno perso completamente il contatto con la realtà dei passeggeri come noi. Chi pensa che debba guidare io l’aereo?”)
Wilkinson quindi procede a smontare completamente la metafora dell’aeroplano:
“(nella vignetta) si dà per scontato che gli attuali piloti abbiano sempre fatto un buon lavoro. E se invece avessero fatto schiantare l’aereo a intervalli regolari, rifiutandosi di riparare i danni prima di decollare di nuovo? E se, per la negligenza degli addetti alla manutenzione, le persone in classe economica fossero costrette a reggersi ai sedili con tutta la loro forza per non essere spazzati via, dato che alcuni dei loro finestrini sono sfondati? E se, in altre parole, ai piloti non sembra importare granché del benessere e della sicurezza dei passeggeri in classe economica perché sono troppo occupati ad accontentare i passeggeri di prima classe? Questa descrizione è molto più vicina alla realtà dei fatti”.
Vale la pena leggere Listen Liberal (“Ascolta, Liberal”) di Thomas Frank, che ha attirato l’attenzione durante le elezioni USA, soprattutto per il capitolo dedicato alla “Teoria della Classe Liberal”, dove vengono riportati numerosi scritti di sociologi e scienziati politici. Il libro si apre con una citazione del libro di David Halberstam’s del 1972 “The Best and the Brightest” che parla di “un’élite speciale, una certa razza di uomini che si autoperpetua. Uomini legati l’uno all’altro piuttosto che legati allo Stato; nella loro testa costoro diventano responsabili dello Stato, ma non rispondono ad esso”.
Invece di concentrarsi sull’“un percento” degli ultra-ricchi, Frank ci chiede di osservare in maniera critica il “dieci percento”, che include “le persone al vertice della gerarchia nazionale dello status professionale”, dai cui ranghi proviene il laureato dell’Ivy League Obama (L’Ivy League è un gruppo di otto università del Nord-est degli USA considerate le migliori del Paese – NdT), nonché la maggior parte dei laureati Ivy League che componevano il suo gabinetto, e che spiega la pletora di commenti autoassolutori e autoadulatori di Obama su coloro che hanno le “qualifiche”, che sono “qualificati” per governare, quelli che “sanno di cosa parlano”. I professionisti apprezzano le competenze e i curriculum, e tendono ad ascoltarsi solo l’uno con l’altro. Esercitano un monopolio sul potere di diagnosticare e su quello di prescrivere, consultandosi a vicenda: “I professionisti sono autonomi; a loro non è richiesto di prestare attenzioni alle voci che provengono dall’esterno del loro raggio di esperienza” (Frank, 2016, pag.23).
I professionisti enfatizzano la “cortesia” nei rapporti reciproci (da qui l’incessante richiamo a “moderare i toni”), e dimostrano un sommo disprezzo per le persone di rango inferiore, inclusi i professionisti precari. I tecnocrati post-industriali, quelli che osannano “l’economia della conoscenza” e “l’istruzione” come soluzione di tutti i problemi sociali, hanno generato la loro ideologia personale: il professionalismo. Frank nota che, come ideologia politica, il professionalismo è “intrinsecamente a-democratico, dato che assegna la priorità all’opinione degli esperti rispetto a quelle del pubblico” (pag. 24).
Anche se di solito affermano di agire in nome dell’interesse pubblico, Frank osserva che i professionisti hanno abusato sempre più di frequente del loro potere monopolistico per tutelare i loro interessi, agendo sempre di più come una classe sociale (pag.25), una “classe di manager illuminati”, quasi un’aristocrazia (pag. 26). La critica di Frank delinea come i Democratici siano diventati il partito della classe dei professionisti, sbarazzandosi dei lavoratori lungo la strada (pag.28). E come conseguenza di ciò non si interessano minimamente della disuguaglianza, dato che è su di essa che si fonda il loro benessere. La disuguaglianza è essenziale per il professionalismo (pag.31). La meritocrazia si oppone alla solidarietà (pag.32).
Il Collasso dell’Ideologia Liberal
Tutto quanto fin qui detto si aggiunge alle ragioni in base alle quali sto sostenendo che non è stata solo Hillary Clinton, né solo i Democratici ad essere sconfitti, ma qualcosa di molto più vasto. Troppe “grandi” istituzioni hanno fallito i loro compiti fondamentali, troppo è caduto, con così tanto in palio, ad esempio: la globalizzazione, le basi militari USA, il commercio, le classi sociali, il sistema giudiziario, l’istruzione, la sanità ecc. Sì, i Democratici sono stati ridotti a un partito di sindaci, la cui “sopravvivenza” si registra solamente a livello comunale, dopo che hanno perso la Presidenza, il Senato, la Camera dei Rappresentanti, la maggior parte dei Governatori e la maggior parte dei Parlamenti statali.
L’ampiezza e la profondità della sconfitta, e l’intera architettura utilizzata per diffondere e difendere la loro ideologia hanno fallito così miseramente, che non possiamo far altro che concludere che è stata la loro stessa ideologia a essere respinta, assieme al progetto sociale ed economico che essa sosteneva. Con questo rifiuto così assoluto, avvenuto contro tutte le aspettative, si deve supporre che il danno apportato sia irreparabile. I prodi difensori dell’attuale ordine globale che si esprimono sempre in termini di “irreversibilità” e “inevitabilità”, applicheranno questi medesimi concetti alla loro sconfitta? Un collasso di questa portata spalanca troppe porte che prima erano invisibili per essere liquidato come semplice singhiozzo momentaneo del sistema.
Qui in Canada, dove l’evoluzione politica va generalmente al traino degli Stati Uniti, assistiamo a un replay del collasso del progetto liberal che tenta di nascondere le differenze di classe e lo sfruttamento di classe sotto l’egida della “diversità” e delle politiche identitarie. Dal Gay Pride al Forum Economico Mondiale a Davos, l’itinerario del Primo Ministro Justin Trudeau rispecchia spesso quello che ormai è diventato lo standard dell’élite liberal. Questa non è una coincidenza: come abbiamo appreso dalle e-mail di Podesta, Trudeau è un surrogato della Clinton. Egli veniva identificato in questo modo: “Il Primo Ministro Trudeau è un alleato di vecchia data del CAP [Center for American Progress, alleato del Partito Democratico]…un partner attivo ed impegnato del nostro programma per il progresso globale”. Ad un’altra email era allegata una foto in cui John Podesta sussurrava nell’orecchio di Trudeau. Nell’oggetto della mail, Trudeau viene definito “Mr.Canada”.
Mentre “Mr.Canada” dichiara di sostenere il “femminismo,” non ha avuto niente da offrire ad una madre lavoratrice in difficoltà che viene ridotta alla povertà e buttata in mezzo alla strada dalle tasse sulle emissioni, in un Paese ricco di materie prime che potrebbe essere energicamente indipendente per i prossimi due secoli, se la sua energia non fosse drenata per essere venduta sul mercato mondiale. Mr.Canada dichiara fiero di sostenere la “diversità,” eppure aderisce al monolinguismo in Quebec, con un arrogante disprezzo per una anglofona quebeckiana preoccupata per la sua tutela sanitaria. Si spertica in lodi per il suo nuovo Ministro per gli affari esteri, elogiandone la padronanza della lingua russa, mentre minimizza il fatto che a quello stesso ministro è vietato l’ingresso in Russia, grazie alle controsanzioni russe contro il Canada, che abbiamo inutilmente causato. Adesso, il Canada pretende di diventare il portabandiera del progetto imperialista liberal di Obama e Clinton, mettendosi sulla buona strada per diventare l’ultimo perdente a difendere la globalizzazione, nell’apparente convinzione di poter perseguire una globalizzazione composta da un unico Paese.
Oggi la classe dei professionisti, sostenitori del liberalismo morente, la trovate sui media a denunciare un’immaginaria ingerenza russa. Non che si siano improvvisamente uniti ai ranghi degli anti-imperialisti: non hanno detto una parola sulle più di 80 elezioni estere nelle quali gli Stati Uniti hanno interferito, per non parlare delle dozzine di colpi di stato sostenuti e sponsorizzati dagli USA, e per non parlare del fatto che gli Stati Uniti hanno un’infrastruttura istituzionale (il National Endowment for Democracy, il National Democratic Institute, l’International Republican Institute, la CIA, L’Ufficio per le Iniziative di Transizione) dedicata all’interferenza negli affari esteri, armata di decenni di politiche, leggi, e documenti strategici che guidano il corso e la profondità dell’intervento politico all’estero.
È particolarmente ironico che un “hacker” (nel senso di apportatore di una tale ingerenza negli affari esteri-NdT) si lamenti così rumorosamente di essere stato, una volta tanto, hackerato a sua volta. In realtà, sono stati colpiti proprio nei campi che si rifiutano di riconoscere: che Putin è dieci volte più statista di un Obama; che i russi eccellono nella diplomazia; e che la Russia ha importanti lezioni antropologiche da insegnarci sulle relazioni internazionali…cose che ovviamente i nostri professionisti liberal hanno ignorato – e quindi hanno perso, punto e basta.
Fonte:http://vocidallestero.it/2017/01/28/gli-ultimi-giorni-dellideologia-liberal/
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