di ORIZZONTE48 (Luciano Barra Caracciolo)
1. Questo video è ormai molto noto.
In esso Draghi spiega come deve funzionare, per necessità scientifico-economica e politica, l’eurozona. E parte direttamente dalla necessità degli “aggiustamenti”, tra i paesi dell’eurozona. Spiega, nella seconda parte, delle divergenze di crescita e di inflazione tra i paesi che vi appartengono e di come ciò dia luogo a fenomeni di movimento di capitali che, dai paesi più competitivi e con tassi di inflazione più bassi, finanziano le importazioni da parte dei paesi meno competitivi.
Racconta, per implicito, come l’invariabilità del cambio favorisca tutto ciò, rendendo conveniente effettuare questo credito da parte dei sistemi bancari dei paesi più forti e di come, però, a un certo punto, le posizioni debitorie così create (sottintende dovute principalmente a credito privato da scambio commerciale e da affluenza di capitali attratti dai tassi di interesse più alti nei paesi a inflazione maggiore), divengano eccessive e quindi “rischiose” (anche perché ciò droga la crescita col capitale preso a prestito e genera ulteriore innalzamento dell’inflazione).
1.1. Pertanto, superata questa soglia di rischio (visto come probabile incapacità di restituzione) ciò induce i creditori a chiedere il rientro delle proprie posizioni e obbliga i paesi “deboli” ad agire in un solo modo: effettuare la “internal devaluation” cioè comprimere la propria domanda interna mediante la leva fiscale (aumento delle tasse e taglio della spesa pubblica), al fine di correggere verso il basso i prezzi, in particolare i c.d. salari.
Draghi mostra di ritenere tutto ciò un male necessario, e quindi un sacrificio per un presunto bene superiore, in quanto non ci sarebbe altra scelta. E lo dice sottolineando che non possono esserci paesi per sempre (“permanent“) debitori e paesi per sempre creditori: fa l’esempio di “altre unioni monetarie” che contemplano questa possibilità, e la risolvono mediante i trasferimenti di un comune governo federale verso i paesi “debitori”, ma esclude che ciò sia praticabile in €uropa, non essendo “realistic” allo stato dell’attuale integrazione politica tra gli Stati europei.
Questo commento lo ritrovate ne “
La Costituzione nella palude” alle pagg. 137-138, preceduto da una sintesi critica (allora) di Maiocchi (del 1974) sui “
meccanismi automatici di aggiustamento della bilancia dei pagamenti“: questi sarebbero una soluzione contraddittoria in quanto collegati alla
preventiva rinuncia ai trasferimenti federali, lasciati a un’indefinita “seconda fase”, e prevedendosi, nel frattempo, aggiustamenti eccessivamente onerosi per i paesi “debitori” e il pratico impedimento a “politiche fiscali anticicliche e di crescita”, sovrastate e rese controproducenti dall’esigenza di mantenere la stabilità monetaria.
Quindi, tutto ciò in attesa di un tempo “futuro”, che abbiamo visto non sarebbe arrivato mai, in cui si sarebbe potuto istituire il meccanismo fiscale “compensativo”.
E questo a tacere dell’utilità (indimostrabile), in termini di crescita e di sviluppo, di un’unione monetaria in sè, quand’anche cioè caratterizzata in partenza dalla perfetta convergenza di indicatori economici (inflazione, produttività, dinamiche salariali, sistemi fiscali, amministrativi e persino giudiziari) tra i diversi Stati partecipanti.
3. Il commento del 1973 di Carli, perciò, non casualmente era il seguente:
“Se in questo momento la lotta all’inflazione appare l’obiettivo prioritario, l’Unione monetaria europea non può tuttavia essere imperniata su un meccanismo che tenda a relegare verso il fondo della scala gli obiettivi dello sviluppo e della piena occupazione, cioè ad invertire le scelte accettate dalla generalità dei popoli e dei governi in questo dopoguerra”.
Nel libro “
Economia e luoghi comuni” Amedeo Di Maio (pag.26), al culmine di un’interessante esposizione del paradigma economico ordoliberista, – che conferma quanto a sua volta esposto ne “La Costituzione nella palude”- ci racconta come
Müller-Armack, l’inventore della formula-simbolo dell’ordoliberismo,
“economia sociale di mercato” (su cui così nitidamente ci ragguagliò Einaudi, v. infra), in uno scritto del 1978, avesse predicato che
stabilità monetaria e finanziaria dovessero precedere l’instaurazione di un “ordine monetario” comune, e che l’unico mezzo per ottenere questo risultato era la precondizione del pareggio di bilancio nei vari Stati coinvolti (di cui era così enunciata la funzione equivalente, nell’ambito dei rapporti tra gli Stati appartenenti all'”ordine monetario”, al
gold standard: garantire quella
stabilità, ovverosia quell’attitudine del lavoro ad assorbire ogni aggiustamento reso necessario dal mantenimento della competitività e dell’equilibrio dei conti con l’estero, che si ottiene controllando ossessivamente la dinamica salariale mediante un alto livello strutturale di disoccupazione e precarietà).
4. Ma, altrettanto, noi sappiamo che si scelse apertamente di non percorrere questa via, che pure sarebbe stata, per tradizione culturale, quella preferita dai tedeschi (almeno da quelli del tempo dei primi progetti, cioè prima che il neo-ordoliberismo divenisse una pura strumentalità mercantilistica per convenienze immediate e non cooperative).
La si scelse perché la moneta unica, e con essa il trattato di Maastricht (e prima ancora l’Atto Unico del 1987), vedevano
concordi tutti i “negoziatori” dei paesi interessati nel creare questa
costrizione al pareggio di bilancio e, comunque, alla stabilità monetaria e dunque all’inflazione “bassa e stabile”, proprio perché, come aveva preconizzato Einaudi negli
anni ’40 e negli
anni ’50, questo non avrebbe certo portato alla crescita, quanto al ridisegno sociale in senso liberista, e anti-socialcostituzionale, dell’intera Europa (così Einaudi, da ultimo citato, nel commento al pensiero economico di Erhard e Eucken:
“O il mercato comune sarà liberista o correrà rischio di cadere nel collettivismo”;…”anche il qualificativo «sociale» è un semplice riempitivo…
il riempitivo «sociale» ha l’ufficio meramente formale di far star zitti politici e pubblicisti iscritti al reparto «agitati sociali».”).
5. Dunque, a seguire le teorie economiche che costituivano il patrimonio condiviso dei sostenitori dell’Europa economica e monetaria, (quale poi in effetti realizzata), le condizioni di stretta convergenza di crescita (realistica, cioè non tale da generare tensioni inflattive e da resdistribuire il potere socio-politico agli “agitati sociali”), inflazione e regime fiscale di pareggio di bilancio, avrebbero dovuto precedere e non seguire l’instaurazione dell’unione monetaria.
Ma l’occasione di costringere, ridisegnare e ridisciplinare le masse riottose dei paesi a costituzioni “socialiste”, era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire: dunque,
si sarebbe offerta,
in una cornice di opportuna propaganda mediatica,
l’idea della pace e della cooperazione come perno della costruzione europea, ben sapendo che non sarebbe stata altro che severa disciplina fiscale e, naturalmente, del lavoro, chiamato a pagare il costo degli “aggiustamenti automatici” (a loro volta subito esaltati da Einaudi, che preferisce chiamarli fasi applicative di “
sanzioni“, appunto automatiche, in una visione di chiara rivalsa verso una società eticamente distorta, secondo lui;
qui p.5).
6. La conferma di questo percorso ci viene, ancora una volta, dalle memorie di Carli, che indulge in una serie di considerazioni apparentemente contraddittorie; nel senso che è cosciente dei problemi economici e distributivi che sarebbero sorti nel governare, in nome della sola concorrenza sui liberi mercati, le tensioni sociali riversate sul lavoro, ma rinuncia a mitigare tutto ciò, risolvendo quello che può apparire un problema di coscienza (che già si indovinava nel commento del 1973), sulla base di considerazioni “etiche” collimanti con quelle di Einaudi.
Ricostruiamo questo percorso, narrato da Carli, in base all’attenta selezione offertaci, more solito, da Arturo:
La questione riguarda la prima forma di tetto al deficit (ora previsto all’art.126 TFUE), laddove se l’ideale è appunto il pareggio di bilancio, è ovvio che “gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi” (par.1), ma qualcosa “potrebbe” essere economicamente irrazionale nel prevedere un tetto rigido e automatico:
“Se l ’articolo 104 C, comma 2, a, punto 1 fu scritto dalla nostra delegazione, il punto seguente reca la firma della delegazione britannica, laddove esclude l’applicazione meccanica dei criteri in caso di scostamenti “eccezionali e temporanei”.
E’ questo, in tutto il trattato, l’unico accenno al ciclo economico. Né deve stupire che siano stati i britannici a proporre quell’emendamento. L’Inghilterra resta pur sempre la patria di John Maynard Keynes.
Per chi, come me, è stato sinceramente convinto della bontà dell’impianto complessivo degli statuti di Bretton Woods e della loro interpretazione successiva, è difficile accettare con animo leggero il fatto che l’obiettivo della stabilità dei prezzi sia indicato senza alcun riferimento al livello occupazionale e, dunque, al benessere delle comunità che si sono date questa nuova Costituzione monetaria.
Ho provato ripetutamente nel corso del negoziato a inserire tra i criteri anche il livello di disoccupazione che pochi mesi dopo sarebbe riemerso, dopo tanta dimenticanza, come il problema principale dell’Europa. Senza successo.” (G. Carli, “Cinquant’anni di vita italiana”, Laterza, Roma-Bari, 1996 [1993], pag. 407).
7. Ma del tentativo “mitigatore” fallito, Carli non ritiene di doversi eccessivamente preoccupare, dato che (come già per Einaudi) ben altre sono le positive opportunità che possono derivare dall’adozione di una moneta unica che obbliga a deflazionare ed a disciplinare le politiche fiscali in senso “austero”, a prescindere da qualsiasi esigenza del “ciclo economico”, cioè, per l’appunto, in forza di automatismi che valgono come ridisegno preventivo dell’ordine sociale (rispetto a quello costituzionale) e, come dice Draghi, come sistema di aggiustamento.
Carli oscilla, con un misto di attrazione e repulsione, tra il mito del gold standard e la finale e risolutiva esigenza “etica” di un “appartenente alla elite liberale” di domare gli “istinti animali” della politica e delle plebi italiane.
Queste, dunque, avevano bisogno del “vincolo esterno”, costasse quel che costasse.
“Non si può dirla, la verità, soprattutto in Italia, perché significherebbe accendere la luce sul
quarto partito e le sue decisioni, che hanno pesantemente condizionato tutta la storia repubblicana, per non andare più indietro nel tempo (come pure si potrebbe), erodendo via via qualsiasi margine per una politica alternativa, ormai anche contro i loro stessi interessi. O almeno alcuni di essi.
In effetti pochi documenti risultano più ferocemente candidi delle memorie di Guido Carli, evidentemente esaltato, ma anche preoccupato, dal “compimento” del suo disegno neoeinaudiano incarnato da Maastricht, nel chiarire i dilemmi e le oscillazioni di questo raggruppamento.
Si sa che Carli è stato un sostenitore entusiasta del vincolo esterno, che ci avrebbe “salvati” più volte. Che la misura della costrittività del medesimo possa rivelarsi eccessiva è però lui il primo ad ammetterlo, parlando della proposta di Jacques Rueff, consigliere economico di De Gaulle, che a partire dagli anni Sessanta, per contrastare il predominio americano nel mercato valutario, proponeva un ritorno al gold standard (episodio da ricordare agli acritici ammiratori del Generale…):
“Nelle Considerazioni finali pronunciate nel maggio del 1965 avevo dato ampio spazio alle implicazioni sociali della scelta di un sistema monetario piuttosto che di un altro.
E mi riferivo a Rueff quando scrivevo:
L’argine contro il dilagare del potere d’acquisto che movendo dagli Stati Uniti minaccia di sommergere l’Europa, si continua a sostenere, potrebbe essere innalzato esclusivamente mediante il ripristino del gold standard. In realtà, concezioni del genere incontravano, un tempo, un coerente completamento nelle enunciazioni che attribuivano al meccanismo concorrenziale il compito di realizzare, mediante congrui adattamenti dei livelli salariali, il riequilibrio dei conti con l’estero.
Insomma, il ritorno alla convertibilità aurea generalizzata implicava governi autoritari, società costituite di plebi poverissime e poco istruite, desiderose solo di cibo, nelle quali la classe dirigente non stenta ad imporre riduzioni dei salati reali, a provocare scientemente disoccupazione, a ridurre lo sviluppo dell’economia.
Quelli erano gli anni nei quali la piena occupazione era un imperativo per qualsiasi governo, anche conservatore. E non si deve dimenticare che negli statuti originari del Fondo monetario internazionale la piena occupazione era uno degli obiettivi primari, al fianco dell’abbattimento delle barriere ai commerci che il sistema monetario mondiale doveva concorrere a raggiungere.
Ci opponemmo sempre alle proposte francesi, anche perché erano incompatibili con il modello di sviluppo che, pur senza condividerlo in pieno, la Banca d’Italia doveva accettare come dato in quanto proveniva dall’ autorità politica.
Il «gold standard» era simile a certe teorie monetariste, in quanto espelleva dal sistema ogni elemento di discrezionalità, era integralmente meccanicistico. Secondo me «presupponeva un ambiente economico nel quale le dimensioni del settore pubblico, il grado di organizzazione…delle forze economiche e le rigidità tecnologiche erano ben diverse da quelli oggi sperimentati». Per questo adottammo sempre politiche monetarie che cercassero di tutelare il tasso di crescita previsto per lo sviluppo del Paese.” (Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari, 1996 [1993], pag. 187).
Così Carli descrive il gold standard, quando noi sappiamo benissimo che l’euro è ancora più rigido!!
Ma allora come si spiega l’adesione, preoccupata (per il comportamento della Gran Bretagna e della Bundesbank: pag. 405), a Maastricht?
Vediamo:
“I più intelligenti tra i miei critici di ispirazione comunistica [certo, come Caffè, Saraceno, Ardigò, Lombardi, talvolta perfino La Malfa…] misero in discussione l’assunto di fondo della nostra politica: il rispetto del vincolo esterno della bilancia dei pagamenti, perseguito attraverso uno sviluppo privilegiato della domanda estera, soddisfatta con esportazioni alle quali era demandato il compito di trainare tutta l’economia. Era il «modello di sviluppo» che l’élite liberale alla quale appartenevo aveva scelto fin dalla fine degli anni Quaranta.
Doveva essere rimesso in discussione sulla base di questa critica: una crescita trainata dalla domanda estera costringe a una politica salariale restrittiva e attua una redistribuzione a favore di quei limitati settori industriali sottoposti alla concorrenza internazionale.
In questo modo si è trascurata la crescita, anche qualitativa, dei settori industriali non ordinati all’esportazione. Un modello basato su un più intenso sviluppo della domanda interna avrebbe consentito una politica salariale più generosa, attuando una redistribuzione del reddito più favorevole alle classi lavoratrici senza nuocere all’equilibrio esterno del Paese.
Questa obiezione contiene del vero [lo ammette!!].
Tuttavia, non ci si deve dimenticare che negli anni Cinquanta l’inserimento dell’Italia nel circuito delle merci, dei capitali e vorrei dire delle idee di un più vasto mercato mondiale ci appariva come una priorità assoluta. L’economia di mercato, mutuata dall’esterno, è sempre stata una conquista precaria, fragile, esposta a continui rigurgiti di mentalità autarchica.
Il vincolo esterno ha garantito il mantenimento dell’Italia nella comunità dei Paesi liberi.
La nostra scelta del «vincolo esterno» è una costante che dura fino ad anni recentissimi, e caratterizza anche la presenza della delegazione italiana a Maastricht.
Essa nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese.” (Ibid., pagg. 266-7).
10. Parole eloquenti e inequivocabili, per le quali ulteriori commenti risultano superflui (se si vuol capire): la visione è chiara, gli obiettivi e le priorità pure.
E questa, dunque è la “commemorazione” di Maastricht che, in prima battuta vi proponiamo: oggi hanno vinto e dominano, dentro la “costrizione” della moneta unica e contro ogni regola fondamentale della Costituzione, le sanzioni automatiche, gli aggiustamenti gravanti sul lavoro e fatti passare come beneficio contro lo spauracchio (quello sì “inflazionato”) dell’inflazione.
A proposito: Einaudi del 1944,
qui v. addendum, nel definirla la più “
odiosa delle tasse“, non aveva il
copyright: si era ispirato alla Conferenza di Genova del 1922, dove lo stilema aveva già trovato enunciazione pressocché identica:
qui, p.7.
Iscriviti al nostro canale Telegram
Commenti recenti