Si orchestra la svendita di 330 miliardi di crediti bancari: Bad Bank/Good Profit
di ALBERTO MICALIZZI
Nelle stanze ovattate dei salotti bancari italiani, mentre i TG nazionali ci dilettano con scissioni e giochetti di immunità parlamentare, uno strano gruppetto sta decidendo la cessione ai privati di un primo pacchetto di 86,9 miliardi di Euro di sofferenze bancarie (fonte: IlSole24ore, dato al 31/12/2016). Si tratta dello zoccolo duro di un problema di crediti incagliati che complessivamente a livello italiano raggiunge i 330 miliardi di Euro (fonte: Huffington Post).
Pensate chi compone il gruppetto: PADOAN (sempre lui!), il Presidente dell’unione bancaria europea Andrea Enria, i vertici di Banca d’Italia, la Commissione Europea, l’OCSE e persino l’agenzia di rating FITCH, quella sotto processo a Trani per manipolazione di mercato aggravata e continuata ai danni dello Stato italiano (vedi mio articolo “La procura di Trani graffia la City di Londra”). Manca solo dracula!
La notizia è stata accennata dal Sole24ore del 17 Febbraio 2017. L’idea è la solita: scorporare questi crediti dai bilanci bancari, inserirli in società esterne private (chiamate Bad Banks, cioè “società cattive”) e venderli a grandi fondi speculativi prevalentemente anglo-americani a prezzi di stralcio. Gli stessi fondi incaricheranno poi società di recupero crediti aggressive che mieteranno il territorio italiano, ed al tempo stesso faranno la cosiddetta “cartolarizzazione” dei crediti, cioè li rivenderanno sul mercato – ancora prima di raccoglierli – sotto forma di titoli obbligazionari. Nell’arco di un anno, questi speculatori incasseranno il margine di profitto, prima ancora che le operazioni di recupero siano iniziate.
E’ difficile stimare il valore di recupero di un portafoglio misto di questo tipo. Tuttavia, per fornire l’ordine di grandezza, alcuni studi di cui mi sono occupato parlano di percentuali di recupero medie comprese nella fascia 18% – 30% (media: 24%) su un orizzonte di 3 anni, in ciò includendovi anche i crediti chirografari, cioè non assistiti da garanzia. Le banche hanno in carico questi crediti ad una media del 41% (fonte: Huffington Post) ma gli hedge fund speculativi offrono prezzi mediamente compresi nella fascia 5-10% (media: 7,5%). Si tratta di dati indicativi.
Dunque, se applicassimo il rendimento medio che i fondi speculativi si attendono, nell’ordine del 16,5% (differenza tra 24% e 7,5%) sulla somma complessiva potenziale di 330 miliardi di crediti incagliati da gestire otterremmo un profitto potenziale di circa 55 miliardi di Euro (sono sicuro di sbagliarmi per difetto).
Domanda: Perché non costituire una BAD BANK PUBBLICA che gestisca questa operazione in casa? Ciò trova un importante fondamento costituzionale nell’art.47 che afferma che “La Repubblica …..controlla l’esercizio del credito“.
I vantaggi sarebbero almeno due:
i) si potrebbero cancellare i micro-crediti sotto 1.000 euro per aiutare le fasce sociali prossime alla povertà;
ii) potremmo impiegare il profitto risultante per interventi di espansione dell’occupazione e/o sgravi fiscali.
Va ricordato che un intervento pubblico di questo genere ha radici lontane e le ha nel civilissimo nord-Europa. Nel 1990 la Svezia entrò in crisi a seguito di una bolla immobiliare simile a quella che abbiamo alle spalle che portò le due banche principali del Paese ad accumulare pesanti sofferenze sui crediti. Nel 1993 il Governo si fece assistere dalla nota società di consulenza internazionale McKinsey e creò l’Autorità per il Supporto Bancario (“Bank Support Authority”), organismo indipendente che analizzò i crediti secondo principi di totale trasparenza ed efficienza.
Furono create due bad bank, la Retriva, che prese i crediti incagliati della Gota bank, e la Securum, che prese i crediti incagliati della Nordbanken. Liberate dal fardello, le due banche tornarono ad operare normalmente, mentre le due bad bank riportarono profitti e condussero a termine l’intera operazione con successo, tanto che lo stesso Paul Krugman definì il caso svedese un esempio di eccellenza esportabile a livello internazionale.
Ci sono numerosi altri esempi che si possono citare, sia in Europa che altrove. Ad esempio, di recente, un caso simile ha interessato anche il Governo spagnolo che nel 2012 ha creato una bad bank denominata Sareb (società di gestione degli attivi derivanti dalla ristrutturazione bancaria), un ente pubblico che dipende dal Ministero dell’Economia. L’operazione è in corso ed ammonta a circa 50 miliardi di Euro di crediti. Intanto le banche spagnole interessate hanno ripreso ad operare normalmente.
Tornando al caso italiano, una volta creata la prima bad bank pubblica, si potrebbe dare avvio ad una doppia operazione: una di recupero crediti e l’altra di valorizzazione del portafoglio nel suo complesso.
Il recupero crediti potrebbe essere fatto nel rispetto di un’ottica sociale in base alla quale si desiste dal raccogliere micro-crediti sotto soglie minime come ad esempio 1.000 euro, considerando che peraltro il recupero di tali somme sarebbe eccessivamente oneroso.
La valorizzazione può avvenire sia tramite emissione di obbligazioni di diverse categorie (basso e altro rischio) garantite dal recupero dei crediti stessi, sia tramite la quotazione in borsa della stessa bad bank, riservando la sottoscrizione sia delle obbligazioni che della maggioranza del capitale nel caso di quotazione a soggetti persone fisiche residenti in Italia, in modo da realizzare anche il disposto dell’art 47 della Costituzione che stabilisce che “La Repubblica ….favorisce l’accesso del risparmio popolare … al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”.
Quello dei crediti bancari incagliati rappresenta dunque un’altra area critica da presidiare. E’ una grande opportunità per sottrarre una rilevante fetta di business dalle mani degli speculatori privati, creando al tempo stesso un margine di manovra di decine di miliardi di Euro impiegabili all’interno di un progetto più ampio di rilancio dell’economia nazionale e dell’occupazione.
Anche in questo caso, così come per la banca pubblica e per la moneta fiscale (si veda il mio articolo “Le basi economiche di un New Deal italiano”), non occorrono revisioni di Trattati internazionali.
Cominciamo dalle cose più facili. Il Paese non può permettersi di aspettare ancora.
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