Repubblicanesimo e libertà
di BRUNO FARINELLI (FSI Torino)
“Definirsi o sparire”
(Giovanni Bovio)
Luca Mancini ha pubblicato un interessante articolo su “Appello al Popolo”, provocatoriamente intitolato La libertà uccide. Mancini propone di ragionare su come il concetto di libertà oggi vigente, direttamente derivante dal pensiero liberale, stia portando la nostra società a realizzare quella condizione di bellum omnium contra omnes che caratterizza lo stato di natura hobbesiano. L’autore rileva che “Hobbes, con il suo ragionamento, mette a nudo una delle principali problematiche della filosofia politica: libertà e sicurezza non vanno d’accordo. All’aumento di una corrisponde necessariamente la diminuzione inversamente proporzionale dell’altra. Uno stato in cui vi sia libertà assoluta si traduce necessariamente in uno stato senza alcuna sicurezza per gli individui; al contrario, uno stato che fa della sicurezza estrema il suo caposaldo è uno stato in cui i controlli e le limitazioni raggiungono livelli inimmaginabili, fino ad eliminare quasi completamente la libertà dei singoli”.
Il pensiero liberale ha portato, «in nome di un’abusata libertà», a una radicale distruzione dei legami sociali, immolati sull’altare di una competitività interindividuale eretta a principio assoluto. La conclusione di Mancini è che la cittadinanza è «satura di false libertà». Credo che questo sia il punto fondamentale, il nodo gordiano da tagliare con una presa di posizione netta: il rifiuto di fare nostro il concetto liberale di libertà. Quello che è doveroso porre come problema è a quale concetto di libertà noi vogliamo rifarci e quale concetto può dare sostanza alla nostra azione politica sovranista.
Per chiarire meglio il problema potrei partire proprio da questo termine: il sovranismo, così com’è stato teorizzato nell’ARS, si riconosce nella volontà di conquista o riconquista della piena sovranità nazionale, il cui raggiungimento comporta la totale applicazione della Costituzione che un popolo ha deciso democraticamente di darsi e la cui realizzazione avviene attraverso l’azione del Parlamento che detiene, nel nome del popolo, il pieno possesso degli strumenti economici, politici e culturali. Non è un termine vuoto, ma un concetto ben determinato che permette di differenziarsi da chi oggi, a suo uso e consumo, lo brandisce per raccogliere attorno a se consensi elettorali o nella speranza di ottenere qualche posticino in un partito.
Vorrei quindi fornire un contributo che potrebbe essere utile a dare la necessaria sostanza a una libertà che, riprendendo Mancini, non dovrà più essere il cavallo di Troia per uccidere i legami sociali e giuridici che conformano un popolo.
Una teoria repubblicana
Philip Pettit, politologo irlandese e docente presso la Princeton University, pubblicò nel 1997 un saggio, Republicanism. A theory of freedom and government (1). Pettit sostiene che il concetto di libertà sia stato appiattito su una dicotomia, quella tra libertà positiva e libertà negativa, che non risolve nella sua interezza la complessità del concetto.
Questa distinzione è stata riproposta e sistematizzata da Isaiah Berlin nel 1958: “La nozione di libertà negativa – Si dice normalmente che sono libero nella misura in cui nessun uomo o nessun gruppo di persone interferisce nella mia attività. La libertà politica in questo senso è semplicemente l’area entro la quale un uomo può agire non impedito da altri. Se gli altri mi impediscono di fare ciò che potrei in caso contrario fare, in tale misura sono privato della libertà; e se tale area viene ridotta da altri uomini al di sotto di un certo minimo, si può dire che sono costretto o addirittura reso schiavo […] La coercizione implica l’interferenza deliberata di altri esseri umani nell’area in cui in caso contrario potrei agire. Si è privati della libertà politica solo se degli essere umani impediscono di raggiungere una meta […] Quanto più grande è l’area della non interferenza tanto più grande [è] la mia libertà. (2)
La nozione di libertà positiva – Il senso positivo della parola libertà deriva dall’aspirazione dell’individuo ad essere padrone della propria vita. Voglio che la mia vita e le mie decisioni dipendono da me stesso e non da qualsiasi tipi di forze esterne. Voglio essere le strumento degli atti di volontà dei miei e non di quelli di altri uomini. Voglio essere un soggetto e non un oggetto, voglio essere spinto ad agire da ragione e da scopi consapevoli, che siano miei, e non da cause che mi colpiscano, per così dire, dall’esterno. Voglio essere qualcuno e non nessuno; uno che fa e decide e non uno per il quale siano altri a decidere, autodiretto e non alla mercé della natura o di altri uomini, come se fossi una cosa o un animale o uno schiavo incapace di recitare un ruolo umano e cioè di concepire degli scopi e dei piani d’azione per poi realizzarli”. (3)
Abbiamo così due modelli di libertà che, pur essendo contrapposti, hanno alla base la medesima condicio sine qua non: l’agente, per essere libero, non deve subire interferenze, la sua azione non deve essere costretta o arginata in alcun modo. Da ciò deriva una conclusione diretta: tutte le leggi sono coercitive e per questo liberticide, mentre la libertà, essendo intesa come assenza di qualsiasi interferenza e quindi costrizione, finisce per identificarsi nell’assenza totale di queste, qual è lo stato di natura di Hobbes.
La domanda posta da Mancini, «quanto il liberalismo e la sua visione del mondo siano vicine allo stato di natura hobbesiano», ha una risposta che è molto più che positiva: il liberalismo non è solo vicino, ma identifica la propria libertà nello stato di natura. Qualsiasi istituzione (Stato, partito, famiglia), fondata su un diritto da cui emanano leggi e pertanto doveri, è in esatta contrapposizione a questo pensiero.
Da ciò Pettit fa derivare anche due atteggiamenti: quello dei liberali di destra e quello dei liberali di sinistra. Il primo punta al semplice riconoscimento formale della non-interferenza che si risolve nella semplice riduzione dello Stato alla sua azione minimale: l’azione statale è sempre interpretata come violatrice della libertà dell’individuo e per questo è percepita come atto usurpatore. I liberali di sinistra, invece, esigono di più del semplice riconoscimento formale, essi mirano a rendere effettiva tale idea di libertà legandola al progresso della società: perciò l’azione dello Stato è considerata legittima solo e soltanto nel caso in cui essa è volta a promuovere la massima espansione della non-interferenza e a creare i presupposti perché questa si realizzi. (4)
Pettit sostiene, però, che la libertà non si riduca a queste due semplici visioni. Un’altra libertà ha da secoli animato le comunità politiche, quella che noi ritroviamo «nelle città-Stato italiane alla fine del Medioevo, nella repubblica d’Olanda del XVII secolo, in Inghilterra durante il periodo del Commonwealth, nelle colonie rivoluzionarie dell’America e, ovviamente, nella Francia del 1789» (5): la libertà repubblicana. Il repubblicanesimo non fonda la sua sete di libertà sulla strenua ricerca di liberare l’individuo da qualsiasi interferenza, ma si oppone al concetto di dominium.
Il dominio di un agente, collettivo o individuale, su di un altro si ha quando il primo, dotato di una capacità di interferenza, agisce su di una base arbitraria su determinate scelte che il secondo agente sarebbe in grado di fare (6). È l’elemento di arbitrio a costituire la fondamentale divergenza ed è questo «che distingue il repubblicanesimo dal libertarismo e dalle altre forme di liberalismo e anche dalle dottrine più comunitariste o populiste» (7). Il concetto di dominio rimanda alla dicotomia libertà\schiavitù e alla relazione tra libertà e legge: l’interferenza può prodursi senza la perdita di libertà nel momento in cui essa si presenta come non arbitraria ossia quando essa è conforme allo spirito della civitas, la cui principale caratteristica è la supremazia della legge.
L’idea di non dominio fa quindi coincidere libertas e civitas: per questo motivo Pettit sostiene che il repubblicanesimo sia, al contrario delle dottrine liberali, socialmente radicale e politicamente progressista: “È socialmente radicale poiché rifiuta tutte le forme di assoggettamento, mettendo in stato di accusa le condizioni reali di chi si trova sottomesso al potere di altri, indipendentemente dal chiedersi se questi ultimi manifestino o no della benevolenza nei loro riguardi. Questo ideale è ugualmente progressista sul piano politico, poiché apre alla possibilità di uno Stato che non sia lo Stato minimo ovvero che possa prelevare le tasse e vincolare gli individui senza per questo essere considerato come una presenza arbitraria, dominatrice. Attraverso le sue iniziative, questo Stato può restringere il campo delle scelte possibili accessibili agli individui, allo stesso titolo che gli ostacoli naturali, senza che questi vincoli possano essere assimilati a una forma di dominazione”. (8)
La civitas che emerge da questa libertà è una comunità fondata, secondo l’espressione di John Harrington, sull’“impero delle leggi e non sull’impero degli uomini”. Lo Stato e quindi l’azione governativa non possono essere indicati come agenti dominanti, poiché, uno Stato e un governo adeguatamente contenuti, cioé «nel quadro di una costituzione legittima, prevedendo meccanismi appropriati di rappresentazione, una rotazione a livelli di esercizio della funzione di governo, una separazione dei poteri», non eserciteranno un potere arbitrale ma saranno dotate di un imperium, di un potere di interferenza costituzionalmente riconosciuto.
Si deve sottolineare come questo pensiero politico si distingua anche dalle forme populiste di governo: con questo termine l’autore indica quelle dottrine politiche che vedono «il popolo sotto le sembianze di un maestro o signore e lo Stato sotto quelle del servitore» ed esprimono la volontà di creare una democrazia diretta o plebiscitaria. Il repubblicanesimo oppone a questa dicotomia popolo-maestro\Stato-servitore quella di popolo-mandante\Stato-mandatario della volontà politica ordinata secondo un dettato costituzionale.
Il cambio di paradigma
Quando, però, la libertà come non-interferenza ha preso il posto della libertà come non-dominio? Quando alla libertà repubblicana si è sostituita quella liberale? Di particolare interesse è la tesi proposta dal politologo irlandese: il concetto di libertà civica, nato nell’Italia rinascimentale e diffusosi in area anglosassone sembra aver mutato pelle proprio durante i rivolgimenti rivoluzionari americani e, da qui, essersi nuovamente diffuso nella sua nuova veste prima sul continente europeo in alcune correnti rivoluzionarie francesi e poi oltr’Alpe.
I primi a sventolare il vessillo della libertà liberale furono alcuni pamphlétaires contrari alla lotta per l’indipendenza delle colonie nordamericane. Sono tre gli autori che meglio hanno incarnato questa radicale trasformazione: John Lind, Jeremy Bentham e William Paley.
J. LIND, THREE LETTERS TO DR. PRICE, p. 16, 24, 1776: “Quando si dice che un uomo è libero, che gode cioè del potere di auto-dirigersi e di auto-governarsi, in riferimento a qualche atto particolare, che cosa si intende? Chiaramente nulla di più di questo: che qualunque altro agente non possiede i mezzi per esercitare un potere di coercizione tale da costringerlo a compiere o a impedire un atto. Che cos’è quindi la libertà? Ovviamente nient’altro che l’assenza di coercizione […] Supponiano che sia data la legge di Natura e supponiamo che sia stato stabilito il diritto alla libertà e ancora che questo diritto non sia alienabile. Nello Stato di Società esso deve essere in una certa misura alienato, se per Società si intenda, così come sembra essere, uno stato di governo. Un tale stato implica Leggi. Tutte le leggi sono coercitive: il loro effetto è di restringere o costringere; esse ci obbligano a fare o a non fare determinati atti“.
J. BENTHAM, ANARCHICAL FALLACIES, p. 503, 1796: “La libertà, rispetto alla coercizione della legge, può, è vero, essere data dalla semplice rimozione dell’obbligo per il quale la coercizione era stata applicata – dalla semplice abrogazione della legge coercitiva. Ma rispetto alla coercizione applicabile da un individuo su un altro, nessun libertà può essere data ad alcuno se non in proporzione a ciò che è sottratto ad altri […] Quindi tutte le leggi coercitive (vale a dire, tutte le leggi tranne quelle costituzionali e le leggi che eliminano o abrogano una coercizione) e soprattutto tutte le leggi creatrici di libertà sono, nei limiti del loro ambito di applicazione, abrogative di libertà. Non solo una legge di un certo o altro luogo, non questa o quella possibile legge ma quasi tutte le leggi, sono rigettano questi naturali e imprescrittibili diritti: conseguentemente è vuoto e inutile qualsiasi richiamo alla resistenza e all’insurrezione e così via.
W. PALEY, THE PRINCIPLES OF MORALE AND THE POLITICAL PHILOSOPHY, p. 94, 1785: “La Libertà Civile consiste nel non essere trattenuto da alcuna legge ma al contempo apportare il maggiore grado di miglioramento al benessere pubblico. Fare ciò che vogliamo è la libertà naturale; fare ciò che vogliamo, in coerenza con l’interesse della comunità cui apparteniamo, è libertà civile; questa, bisogna dirla, è l’unica libertà desiderabile in uno società civile […] La libertà vantata dallo stato di natura esiste solo nello stato di solitudine. In ogni tipo e grado di unione e rapporto con la sua specie, è possibile che la libertà del singolo possa essere aumentata dalle leggi che la frenano, poiché egli può guadagnare di più dalla limitazione della libertà altrui che soffrire della diminuzione della propria. La libertà naturale è il comune diritto sullo spreco; la libertà civile è il godimento sicuro, esclusivo e indisturbato di un latifondo protetto e coltivato“. (9)
Nell’opera di Lind l’assenza delle leggi si identifica con la libertà, per poi divenire con Bentham rifiuto di qualsiasi resistenza o insurrezione: è inutile, infatti, richiamarsi al concetto di libertà nel tentativo di sostituire delle leggi ingiuste con altre poiché secondo questi autori, sorgenti del pensiero liberale, tutte le leggi sono liberticide. L’apice giunge con Paley, dove la libertà civile coincide con un “godimento sicuro, esclusivo e indisturbato di un latifondo protetto e coltivato”. Il monadismo liberale, che identifica la libertà nell’agire individuale sciolto da qualsiasi legge, trova in queste pagine le sue basi e la sua massima espressione.
Note
1) P. Pettit, Republicanism. A Theory of Freedom and Government, trad. it. Paolo Costa (a cura di), Repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Feltrinelli, Milano 2000.
2) I. Berlin, Two Concepts of Liberty, Oxford University Press, Oxford 1958 trad. it. Due concetti di libertà in A. Passerin d’Entrèves, La libertà politica, Edizioni di Comunità, Verona 1974, pp. 103-105.
3) Ibidem, p. 114.
4) P. Pettit, Repubblicanesimo, op. cit., p. 18.
5) Id., Republicanism, op. cit., trad. fr. P. Savidan, J. F. Spitz (a cura di), Républicanisme. Une théorie de la liberté et du gouvernement, p. 14, presente solo nella prefazione all’edizione francese [traduzione e corsivo miei]. Sul filo rosso della filosofia politica che unisce questi periodi storici così lontani vd. J. Pocock, The Machiavellian Moment. The Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition trad. it. A. Prandi (a cura di), Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, Il Mulino, Bologna 1982.
6) P. Pettit, Repubblicanesimo, op. cit., p. 68.
7) Id., Républicanisme, op. cit., p. 14.
8) Ivi [corsivo mio].
9) J. Lind, Three letters to Dr. Price, Containing Remarks on his Observations on the Nature of Civil Liberty, the Principles of Government, and the Justice and Policy of the War with America, Printed by T. Payne, London 1776; J. Bentham, Anarchical Fallacies. Being an Examination the Declarations of Rights Issued during the French Revolution in J. Bowring (a cura di), The Works of Jeremy Bentham, vol. II, Edimburgo 1843; W. Paley, The Principles of Morale and the Political Philosophy, Uriah Hunt, Philadelphia 1835 [grassetto mio].
Ripercorrendo a tentoni il pensiero del filosofo teologo S.Agostino la città degli uomini è unicamente ordinata al perseguimento della gloria umana con ogni mezzo , per cui rimanendo sul solco del pensiero argomentativo laico,sono del modesto parere che la dicotomia tra Stato Repubblicano e Stato Liberale entrambi legittimati dalla volontà umana ,sia superabile ,come migliore espressione di civiltà e progresso, dallo Stato ispirato ai valori del socialismo inteso come garante dei diritti e doveri degli esseri umani più deboli e meno fortunati.
Salve,
non comprendo il riferimento al pensiero agostiniano e alla città terrena del “De Civitate Dei”. Il testo sopra riportato non verte tanto sulla forma statuale repubblicana, comunque trattata da Pettit, quanto sul concetto di libertà che sta alla base. Nel testo non è presente la dicotomia Stato repubblicano\Stato liberale ma libertà repubblicana\libertà liberale. Sicuramente l’articolo avrà un seguito sulla forma statuale ispirata all’ideale repubblicano: sarebbe interessante avviare poi un confronto sulle differenze e sulle convergenze con l’ideale socialista.
Volevo comunque segnalare un refuso che non permette la comprensibilità del testo: Bentham, Paley e Lind erano tre “pamphlétaires contrari alla lotta per l’indipendenza delle colonie nordamericane” e non tre “pamphlétaires delle colonie nordamericane”. Mi scuso per la svista.
B. Farinelli