Tra liberismo e protezionismo, meglio uno “standard sociale” sugli scambi internazionali
di EMILIANO BRANCACCIO
Trump infiamma il dibattito mondiale tra liberisti e protezionisti annunciando l’introduzione di barriere commerciali USA contro l’importazione di merci dall’Europa e dall’Asia. Come alcuni avevano previsto, la grande crisi iniziata nel 2008, in larga misura irrisolta, ha portato nuovamente alla ribalta il vecchio tema dei dazi doganali.
C’è chi grida allo scandalo ma a ben guardare la svolta di Trump non rappresenta un’eccezione: di fatto egli accelera una tendenza alla restrizione degli scambi che i dati ufficiali registravano già da alcuni anni, negli Stati Uniti e in gran parte del mondo. Per alcuni sarà difficile ammetterlo, ma siamo al cospetto di una tipica nemesi storica: proprio il liberoscambismo incontrollato degli anni passati è una delle cause dell’odierno revival protezionista.
Per anni abbiamo voluto credere che l’accumulo di deficit e di surplus verso l’estero sarebbe stato risolto dai meccanismi spontanei del mercato. Il risultato è che alla fine della scorsa decade siamo arrivati a registrare una serie straordinaria di record dei disavanzi verso l’estero degli Stati Uniti e corrispondenti avanzi commerciali di Cina e Germania, con i primi due solo in parte rientrati e il terzo che continua imperterrito la sua corsa funesta.
Oggi, dunque, ci troviamo ad addentare il frutto avvelenato degli enormi squilibri globali alimentati da quella ingenua visione liberista degli scambi internazionali. La stessa Brexit, che è stata interpretata in tanti modi creativi, andrebbe letta alla luce dell’irrisolto disavanzo britannico verso l’economia tedesca.
I più ostinati difensori del libero mercato oggi sostengono che le autorità americane e degli altri paesi in deficit farebbero meglio a lasciare che le loro monete si svalutino spontaneamente, in modo da ridare competitività alle merci nazionali senza bisogno di imporre barriere commerciali. Ma l’idea di ripristinare l’equilibrio economico tra nazioni attraverso la mera fluttuazione delle valute sui mercati è un’altra fantasia liberista. In realtà, questa soluzione scatenerebbe guerre monetarie destabilizzanti, con effetti persino peggiori di un moderato protezionismo.
Del resto, a chi si scaglia contro il ritorno dei controlli amministrativi sui conti esteri bisognerebbe ricordare che tra gli economisti non c’è consenso intorno alla dottrina del libero scambio. Il premio Nobel Paul Samuelson riconosceva che i teoremi favorevoli alla libertà dei commerci non funzionano quando c’è disoccupazione di massa. Un altro premio Nobel, Paul Krugman, ha ammesso che il liberoscambismo indiscriminato può far danni e Dani Rodrik, tra gli altri, ha più volte evidenziato i rischi di una globalizzazione finanziaria incontrollata.
In Italia, tra i favorevoli all’introduzione di forme moderate di protezionismo, tese anche a prevenire l’ascesa politica di forze ultranazionaliste, c’era Marcello de Cecco. Tutti studiosi annoverabili nel campo culturale “progressista”, ben lontani dalle nefandezze del trumpismo. La loro lezione si basa oltretutto su un’evidenza: negli anni di massimo sviluppo dell’occidente capitalistico sussistevano vari controlli sugli scambi internazionali, soprattutto di capitali ma anche di merci.
Il problema, piuttosto, è quali tipi di controlli si adottano, e in quali mercati vengono applicati. A questo riguardo, c’è motivo di sospettare che Trump non toccherà il problema prioritario degli effetti destabilizzanti della libera circolazione internazionale dei capitali, mentre insisterà con la fuorviante e retriva propaganda del blocco della circolazione di persone. Inoltre, in campo commerciale c’è il rischio che la sua amministrazione intervenga caso per caso, magari al solo scopo di difendere le industrie degli “amici degli amici”.
Eppure esistono modi più intelligenti per cercare di riequilibrare gli scambi tra paesi e favorire così uno sviluppo mondiale più disciplinato. Preziose, in questo senso, sono le indicazioni degli organismi internazionali che si sono maggiormente occupati del problema. Al riguardo, sarebbe utile ricordare che l’International Monetary Fund (IMF) prevede ancora oggi, nel suo statuto, una clausola che ammette restrizioni agli scambi verso i paesi che si rifiutino di collaborare al riequilibrio dei commerci. Di recente, l’IMF ha pure mostrato disponibilità a riconsiderare il tema del controllo dei movimenti di capitale. Inoltre, l’International Labour Organization (ILO) propone da tempo di vincolare le transazioni con l’estero al rispetto di determinati “standard” a tutela dei lavoratori.
Proprio da una sintesi tra le indicazioni dell’IMF e dell’ILO è possibile trarre una proposta ulteriore, che potremmo chiamare “standard sociale” sui movimenti di capitale, e al limite di merci. Lo “standard sociale” si basa su un’idea in fondo semplice: mettere un freno alla circolazione internazionale dei capitali, e se necessario di merci, da e verso quei paesi che accumulino squilibri verso l’estero a colpi di tagli alla domanda effettiva, e in particolare ai salari e al welfare. Più precisamente, i paesi che accumulassero forti squilibri nelle bilance dei pagamenti in concomitanza con politiche deflattive, potrebbero esser sottoposti a restrizioni più o meno temporanee, in funzione della loro disponibilità o meno a cooperare al riequilibrio esterno. Protetti dalle onde deflattive che provengono dalle nazioni orientate al dumping sociale, i paesi che aderissero allo “standard” potrebbero svilupparsi in modo coordinato e quindi più sostenibile.
Tra le vetuste illusioni di un liberoscambismo in rotta e le inquietanti promesse di un montante protezionismo nazionalista, l’odierna disputa sui commerci è intellettualmente sterile e non farà altro che alimentare il disordine globale. L’avvio di una discussione che rilanci le varie proposte di “standard” sugli scambi di capitali e di merci potrebbe aiutare a recuperare senno politico, e in prospettiva potrebbe contribuire a uno sviluppo più razionale e pacifico delle relazioni economiche internazionali.
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