Il corridoio
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Enrico Tomaselli)

Sono decenni che si parla di piani statunitensi per il ridisegno del Medio Oriente, almeno dalla famosa dichiarazione del generale Wesley Clark (“We are going to take out 7 countries in 5 years: Iraq, Syria, Lebanon, Libya, Somalia, Sudan, and finishing it off with Iran”), all’indomani dell’11 settembre. Il problema, appunto, è che questi piani rimangono sempre gli stessi, mentre il mondo cambia. Ventiquattro anni dopo, quel piano è ancora ben lontano dall’essere realizzato, ma talvolta sembra che a Washington non si siano accorti dei cambiamenti strategici, di teatro e non solo.
Ovviamente, ha una sua logica che gli Stati Uniti cerchino di mantenere il controllo su un’area strategica – oggi tale soprattutto perché importante per il rifornimento energetico cinese, e per la Belt and Road Initiative. E questo, altrettanto ovviamente, implica la necessità di sostenere Israele, che rappresenta l’unico alleato certo nella regione; anche se, sempre più spesso, le sue azioni mettono a rischio gli interessi statunitensi. Del resto, e non a caso, dice Norman Finkelstein che è “uno stato completamente folle”.
Attualmente, la strategia israelo-statunitense sembra incentrarsi su due assi, parzialmente indipendenti e comunque convergenti. L’obiettivo ultimo è quello di assumere il controllo della regione, per interdire le rotte energetiche-commerciali per la Cina. Per fare ciò, è necessario disarticolare l’Asse della Resistenza e rovesciare il governo iraniano. Su questo obiettivo gli interessi di Washington e Tel Aviv sono identici. Tatticamente però i due operano seguendo linee diverse; Israele attraverso lo scontro militare (alimentato dagli USA), gli Stati Uniti attraverso l’azione diplomatica. Fondamentalmente, sono come due ganasce di una tenaglia, con la Casa Bianca che in effetti pilota entrambe.
Trump ha come obbiettivo intermedio la chiusura degli Accordi di Abramo, che cercano di saldare in un unico blocco di interessi sia lo stato ebraico che la gran parte di quelli arabi; questo isolerebbe l’Iran rispetto alla regione, rendendolo più debole. Ma per ottenere questo risultato, è necessario stabilizzare la regione, ponendo fine ai conflitti, perché è ciò che chiedono l’Arabia Saudita ed i paesi del golfo, interessati allo sviluppo economico. E questo collide con l’azione israeliana. La quale sembra in questa fase puntare sul cosiddetto corridoio di David, ovvero una fascia di territorio siriano che, a partire dalle zone già occupate, attraversa quelle abitate dai drusi, supera l’Eufrate e si ricongiunge con le aree curde a nord est.
La fattibilità di questa operazione è tutta da verificare, perché incontrerebbe l’ostilità decisa della Turchia. Anche se Ankara sembra sia stata abbastanza soppiantata dall’occidente, nello scenario siriano, la sua rilevanza è ancora forte, soprattutto al nord, dove mantiene il controllo del turcofono Esercito Nazionale Siriano (una delle milizie protagoniste della caduta di Assad). Per i turchi, non solo la frammentazione della Siria è vista come un serio problema, ma nello specifico una saldatura territoriale, politica e militare, che mettesse insieme Israele drusi e curdi, è chiaramente una minaccia. Quindi certamente Erdogan farà le sue mosse per renderla estremamente difficile.
Questo disegno, comunque, viene visto prevalentemente come una manovra volta a spingersi addirittura sino al Kurdistan iracheno, con l’obiettivo di destabilizzare l’Iraq e puntare all’Iran. Una chiave di lettura che invece mi convince assai poco.
Se si realizzasse questo corridoio, collegando il sud ed il nord-est della Siria (passando per la base strategica USA di Al-Tanf, il deserto orientale dove ancora opera l’Isis, la base USA di Deir el-Zor, sino a Raqqa), Israele raggiungerebbe alcuni importanti obiettivi: tagliare fuori definitivamente il territorio siriano (e quindi il Libano) da qualunque collegamento con quello iracheno – dove operano le Forze di Mobilitazione Popolare, legate all’Asse della Resistenza; acquisire profondità strategica, soprattutto nei confronti della Turchia (i due paesi, per quanto collaborino su molti piani, si vedono reciprocamente come una minaccia latente); frantumare la Siria, impedendone la rinascita come importante nazione araba. Ma che Israele, e ancor meno gli Stati Uniti, siano interessati ad avvicinarsi ai confini iraniani, per poter tentare una invasione di terra, mi sembra davvero fantascienza.
Innanzitutto, Israele da sola non sarebbe mai in grado di sostenere una operazione del genere, oltretutto con delle linee logistiche enormi, esposte alla missilistica di Teheran. Ricordiamo che, solo pochi mesi fa, l’IDF ha tentato per l’ennesima volta l’invasione del Libano, con l’intento di ricacciare Hezbollah oltre il fiume Litani (30 km circa più a nord del confine), ma nonostante la decapitazione dei comandi della milizia sciita, e bombardamenti aerei ininterrotti, non riuscì a penetrare oltre un paio di chilometri qua e là. Figuriamoci contro l’Iran, a quasi mille chilometri da casa. E pensare che Washington possa decidersi ad andare boots on the ground contro Teheran, col rischio di restare impantanati direttamente in un conflitto di logoramento, quando già faticano a reggere l’aiuto ad Israele e l’Ucraina, è davvero poco credibile. Anche a prescindere dai rischi di infiammare l’intera regione, e di tirare dentro Russia e Cina.
#TGP #Siria #Geopolitica
Fonte: https://www.facebook.com/enrico.tomaselli/posts/pfbid02wuQFKNvYwAo4E2ENMwQyQjP7VZb3KD3g7qMU27RAPybqNk6yk4QkbvpYoUffUVRBl?rdid=NEeJKB4Jg7xsI57m#
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